Sono i libri a scegliere i lettori? Di solito sì, altrimenti come si potrebbero scovare i capolavori che giacciono sepolti sotto la pesante coltre dell’oblio e dell’indifferenza? Per questo ci sono delle opere che ti finiscono misteriosamente tra le mani, con la tipica protervia che hanno i libri che vogliono essere letti giusto da quel lettore, proprio in quel momento.
Purtroppo capita spesso anche che una morte prematura fermi una scrittura feconda e in potenziale miglioramento, ricca di promesse per il futuro e in pieno fermento fino ad un attimo prima dell’arresto forzato. È il caso di Marvel Moreno (Barranquilla 1939 – Parígi 1995) eccellente scrittrice colombiana scomparsa a soli 56 anni e che sembra essere morta con la penna in mano: Il 5 giugno 1995, iniziando a scrivere il primo paragrafo di un racconto intitolato Un amor de mi madre, Marvel Moreno muore alle luci dell’alba. (Qualcosa di brutto nella vita di una signora perbene, 1997, Jaca Book)
Sicuramente non è stato facile per una donna colombiana dalle idee liberali fare la scrittrice progressista in un ambiente chiuso e refrattario a certi modernismi, né scrivere di donne e per le donne in un territorio profondamente maschilista. Ma in verità le donne che vogliono uscire dalla propria condizione di sottomesse allo stereotipo della superiorità maschile e che lo dicono a voce alta, in qualunque luogo si trovino non sono forse destinate a incontrare ostacoli d’ogni genere?
Qualcosa di brutto nella vita di una signora perbene è una raccolta di nove racconti, storie di donne, sognatrici, frustrate, sottomesse, veggenti, ribelli, deluse, fino a coprire tutte le varianti, ma con una caratteristica in comune, ognuna a suo modo combatte contro il proprio stato, si ribella contro un destino obbligato dalle imposizioni sociali, dal perbenismo ipocrita, dall’obbedienza indiscutibile al marito-amante-padrone, anche con mezzi estremi come l’annientamento di se stessa; che siano i farmaci, o la follia, o le onde del mare, o perfino l’omicidio, non ha nessuna importanza, anzi, purché ci si sottragga al giogo, ogni mezzo diventa lecito.
Il matrimonio di Lilian era stato un detonatore, il risveglio. Di casi simili è pieno il mondo: una si lascia trasportare dalla routine, si sottomette al marito annullandosi fino a perdere qualsiasi traccia di personalità, fino a disarticolarsi, smarrirsi nel personaggio che lui le impone; lo fa, sì, senza rendersene conto, perché è più facile e la facilità produce una sorta di sonnolenza; intanto il tempo passa, il tempo e la possibilità di costruirsi una vita più adatta a se stessi, di diventare ciò che, vagamente, confusamente, si voleva essere. Ed ecco che all’improvviso qualcuno si sposa, qualcuno muore. Oppure non succede niente di grave, soltanto si scoprono i primi capelli bianchi, o si legge un libro, o ci si fa una domanda la cui risposta non è più possibile eludere. Allora si sente uno scricchiolio e in quella perfetta struttura qualcosa si frantuma, qualcosa crolla.
C’è sempre un episodio scatenante alla base di ogni risveglio, non necessariamente qualcosa di eclatante, a volte basta un avvenimento secondario, apparentemente innocuo, che invece si rivela poi l’innesco di una serie di reazioni a catena verso la consapevolezza. E si tratta di un processo irreversibile, una volta avviato non si può più fermare, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Pensava di non essere intelligente. Pensava di arrivare a capire le cose sempre troppo tardi. Perché anche se intuiva qualcosa, non riusciva a manifestarlo: quindi era lo stesso che non capire niente. E come uno va mille volte alla stessa spiaggia e fa il bagno sempre nello stesso mare senza mai accorgersi della palma che sta accanto allo scoglio, e poi d’un tratto un giorno la vede e si rende conto di quanto sia stata fino ad allora limitata la propria visione del paesaggio, così le capitava di inciampare tra idee di cui non sapeva riconoscere il vero significato per anni; che la influenzavano, certo, ma confusamente, senza permetterle di agire con determinazione. E quando finalmente riusciva a capire, gli anni erano passati, e non si poteva più farci niente.
Ma raramente fa piacere riuscire a vedersi per come si è realmente e non più come si credeva o si voleva. A questo punto il problema più complicato da risolvere colpisce chi per tanto tempo ha cercato di diventare esattamente quello che volevano gli altri. Le aspettative altrui mietono vittime in ogni angolo della terra, genitori che si aspettano una sorta di risarcimento dalla vita facendo diventare i figli ciò che loro non sono mai riusciti ad essere e poi mariti che desiderano plasmare le mogli a proprio uso e consumo e mogli che rimangono deluse quando scoprono di non avere sposato il principe azzurro e l’elenco è infinito. Eppure tutto potrebbe essere molto semplice, partendo innanzitutto dall’accettazione di noi stessi, dei nostri limiti, assecondando la reale esigenza di ognuno di noi che è quella di trovare un equilibrio interiore che ci faccia vivere in armonia con noi stessi e di conseguenza con tutto il resto. Sforzarsi di mostrare qualcosa che non sentiamo appartenerci non fa altro che renderci grotteschi, delle caricature che vivono una vita per procura, marionette senza volontà gestite da mani estranee. E questo prima o poi porta inevitabilmente alla rovina.
La credettero pazza, ma non lei, lei non l’aveva mai pensato: si poteva toccare il fondo e poi risalire, lo sapeva perché l’aveva visto. Tanta gente veniva per parlare con lei, le donne del paese, le sue amiche, persino le cognate. Venivano soprattutto quando non riuscivano più a sopportare ciò che per anni avevano taciuto, senza riconoscere che l’avevano taciuto. E le loro parole assomigliavano alla pioggia d’agosto, una titubanza. Un bisbiglio e poi la rabbia che inonda ogni cosa. Che senso aveva se poi nulla sarebbe cambiato, se nessuna osava fare il salto.
La realtà, l’evento scatenante, serve invece ai protagonisti dei racconti di Moreno proprio per compiere quel salto e infrangere la barriera che separa il mondo esteriore da quello interiore, per iniziare una ricerca che, tra anima e pensiero, riporti alla coscienza di sé. E per fare questo la scrittrice si avvale di uno stile narrativo affascinante e coinvolgente, un intercalarsi di dialoghi con gli altri personaggi e il flusso di coscienza d’impronta woolfiana che si affaccia di continuo in un discorso che non perde mai di continuità, e che spinge semmai ad interrogarsi lucidamente tramite un confronto, quasi involontario, tra le due dimensioni, effimero e tangibile, sogno e concretezza. E tutto questo viene lasciato alla voce dei protagonisti senza che il narratore si esponga in giudizi o osservazioni che possano trascinare da una parte o dall’altra. Il lettore è libero di conoscere i personaggi senza preconcetti di sorta.
Ma come si diceva, una volta intrapreso il cammino, non si può tornare sui propri passi. Qualunque sia il metodo, qualunque la scelta, ognuna di queste donne a suo modo resiste, perfino quando sembra andare incontro a una resa in verità continua a combattere e anche laddove pone termine alla propria esistenza, in realtà consegna, come pietra miliare negli anni a venire, il suo rifiuto a perpetuare una tradizione iniqua e dolorosa, quella che da millenni ormai cerca di togliere a una parte di umanità il suo diritto imprescindibile ad essere riconosciuta come individuo.
Perché l’unica cosa che contava era resistere, a qualunque costo. Suor Elisa ricordò la casa in cui da bambina passava le vacanze con la mamma. Ricordò i tronchi sulla spiaggia, il mare che si alzava ogni notte tuonando fino al giardino; il giorno dopo i tronchi erano ancora lì, impavidi, ancor più grandi, con il loro trofeo di chioma verde e sabbia dorata. Resistendo al sole e al vento. Sì, nient’altro era importante.
(Marvel Moreno, Qualcosa di brutto nella vita di una signora perbene)