Basta seguire per poco la traccia dei percorsi ripetuti dalle parole per scoprire, in una visione sconcertante, la struttura labirintica dell’essere umano. Sosteneva Georges Bataille, ed in effetti, oltre ad essere l’immagine perfetta per descrivere certi stati d’animo, una forma labirintica di fondamentale importanza per noi fa addirittura parte del nostro corpo ed è il cervello, con tutte quelle anse che creano cunicoli e percorsi intricati.
In origine il labirinto, riferito al modello cretese, era unicursale presentava cioè un percorso unico che, svolgendosi in sette spire, portava al punto centrale, per poi ritornare all’ingresso. Il suo scopo era quello di simboleggiare un viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi con l’intento di risolvere i conflitti interiori, pertanto era metafora dell’esistenza umana, del cammino che ogni uomo deve compiere da solo, attraverso strade tortuose, ma univoche, come suggerisce un destino segnato. Ma non solo questo, dal momento che ingresso e uscita coincidono, si annulla anche il confine tra vita e morte, realtà e sogno, possibile e impossibile, materia e spirito.
Soltanto in seguito il labirinto è diventato multicursale, realizzato con tante vie, vicoli ciechi, complicato quindi da falsi percorsi introdotti per confondere, ma anche per offrire all’uomo la possibilità di scegliere e di intervenire in tal modo nello svolgersi della propria sorte.
L’uomo è sfuggito alla sua testa come il condannato alla prigione. Ha trovato al di là di se stesso non Dio che è la proibizione del crimine, ma un essere che ignora la proibizione. Al di là di ciò che io sono, io incontro un essere che mi fa ridere perché è senza testa, che mi riempie di angoscia perché è fatto di innocenza e di crimine: tiene un’arma di ferro nella mano sinistra, delle fiamme simili a un sacro cuore nella mano destra. Riunisce in una stessa eruzione la Nascita e la Morte. Non è un uomo. Non è neppure un dio. Non è me, ma è più di me: il suo ventre è il dedalo nel quale lui stesso si è perduto, mi perdo con lui e nel quale io mi ritrovo essendo lui, cioè mostro.
(Georges Bataille, Il labirinto)
Al centro del labirinto si trova il mostro, la nostra parte oscura, ognuno di noi ha un Minotauro da sconfiggere prima di guadagnare l’uscita e la lotta è dura, non solo per la crescita del singolo, ma anche per avere il predominio sull’istinto animalesco che ci portiamo dentro, che risiede nella memoria genetica e che, ultimamente così spesso sembra prendere il sopravvento sulla ragione.
Nei mondi scomparsi è stato possibile perdersi nell’estasi, cosa che è impossibile nel mondo della volgarità istruita. I vantaggi della civiltà sono compensati dal modo in cui gli uomini ne approfittano: gli uomini attuali ne approfittano per divenire i più degradanti di tutti gli esseri che sono esistiti. La vita si svolge sempre in un tumulto senza coesione apparente, ma essa non trova la sua grandezza e la sua realtà che nell’estasi e nell’amore estatico. Chi tiene a ignorare o a misconoscere l’estasi, è un essere incompleto il cui pensiero è ridotto all’analisi.
Come si fa a vincere il labirinto, a neutralizzarlo? La necessità di separarsi dalla volgarità del mondo, di estraniare la mente dal corpo, è stata sempre cercata dagli uomini attraverso varie tecniche di forte concentrazione. Nell’antica Grecia le Baccanti davano vita ai culti misterici dedicati al dio Dioniso attraverso lunghi momenti d’estasi sfrenata. Anche le divinazioni erano frutto dell’attraversamento della soglia tra la realtà contingente e le altre dimensioni, che solo un particolare stato alterato della mente poteva offrire e così via fino alle filosofie orientali che praticano la meditazione come momento culminante, in cui la concentrazione permette di acquisire una consapevolezza che supera i limiti umani. Questa dunque una delle soluzioni possibili per spingersi così tanto dentro la vita da superarla e in tal modo annientare anche la morte. La prima cosa da fare comunque è sempre quella di fermare il tempo, questo tiranno che l’uomo ha voluto creare come convenzione utile nella disposizione di un ordine dominante e contemporaneamente annullarlo attraverso una molteplicità di rituali che hanno sempre confermato la condizione primigenia della temporalità, ovvero il suo eterno presente.
Alla base della vita umana, esiste un principio di insufficienza. Isolatamente, ogni uomo si rappresenta la maggior parte degli altri incapaci o indegni di «essere». In ogni conversazione libera, maldicente, si ritrova, come un tema di animazione, la coscienza della vanità o del vuoto dei nostri simili: una conversazione apparentemente stagnante tradisce la fuga cieca e impotente di ogni vita verso un vertice indefinibile.
La sensazione di incompiutezza ci sovrasta quotidianamente. Più facile è notarla negli altri, vista dall’esterno perde il connotato labirintico che prende forma quando ci mettiamo ad osservare noi stessi e così l’impressione di essere sradicati, estranei, avalla l’imperfezione, il difetto che si abbatte sulle nostre misere esistenze, esautorandoci, privandoci dell’autocontrollo, dunque dell’autorità suprema, rendendoci in tal modo schiavi.
Il più grande dei mali che colpiscono gli uomini è forse la riduzione della loro esistenza allo stato di organo servile. Ma nessuno si accorge che è disperante divenire uomo politico, scrittore o scienziato. È dunque impossibile rimediare all’insufficienza che diminuisce colui che rinuncia a diventare un uomo intero per non essere più che una delle funzioni della società umana.
Questo dunque il passaggio da essere tutto a divenirne solo parte. Una soluzione di comodo che in un certo senso deresponsabilizza, che rende lecito il subire il destino, per fare gruppo sociale e sentirsi più forti, anche se in realtà ci si è indeboliti.
È consentito all’uomo non amare niente. Infatti l’universo senza causa e senza fine che gli ha dato la luce non gli ha necessariamente accordato un destino accettabile. Ma l’uomo al quale il destino umano fa paura, e che non può sopportare la sequela dell’avidità dei crimini e delle miserie, non può nemmeno essere virile. Se si allontana da se stesso non ha poi ragione di gemere fino a esaurirsi. Egli non può tollerare l’esistenza toccatagli che a condizione di dimenticare quale essa sia veramente. Gli artisti, i politici, gli scienziati ricevono l’incarico di mentirgli: così coloro che dominano l’esistenza sono sempre quelli che sanno mentire meglio a se stessi e di conseguenza anche agli altri.
Ecco che viene introdotta una massima imprescindibile nella storia dell’umanità, ovvero la menzogna culturale. Essa si è integrata perfettamente nella struttura sociale divenendone colonna portante, fonte inesauribile di un benessere fittizio che tenga al riparo dalla malasorte attraverso la maschera, l’inganno premeditato e la costituzione di condizionamenti millenari di cui ancora oggi siamo vittime e che ci limitano incessantemente.
Felice solamente colui che avendo provato la vertigine fino a tremare in tutte le sue ossa e a non misurare più la sua caduta ritrova d’improvviso la potenza insperata di fare della sua agonia una gioia capace di gelare e di trasfigurare quelli che la incontrano.
Come può l’uomo ribellarsi a questo stato di insufficienza, alla sensazione di essere inghiottito da una spirale vorace che travolge, dissennata, chiunque si trovi al suo cospetto, come può sovvertire l’impero della menzogna e ritornare integro, intero, davanti a se stesso e di fronte al mondo? L’uomo può soltanto “esistere” per sottrarsi al giogo che la mente ha creato per lui, essere re di se stesso (come suggeriva Pessoa), esercitare la gioia davanti alla morte, perché anch’essa fa parte della vita e della totalità, superare l’insufficienza esaltando l’insufficienza stessa, in una danza estatica che ci trascini al di fuori dei confini del corpo, pur rimanendo anche carne, poiché questo è il nostro destino, essere sempre, sia attraverso l’esperienza fisica transitoria, sia nella nostra dimensione più confacente, quella che si svolge oltre, quella spirituale.
La “gioia davanti alla morte” significa che la vita può essere magnificata dalla radice fino alla cima. Essa priva di senso tutto ciò che è al di là intellettuale o morale, sostanza, Dio, ordine immutabile o salvezza. È un’apoteosi di ciò che è perituro, apoteosi della carne e dell’alcool altrettanto che dei trasporti mistici.