Archivi del mese: giugno 2012

Il labirinto di Bataille e il principio di insufficienza

Basta seguire per poco la traccia dei percorsi ripetuti dalle parole per scoprire, in una visione sconcertante, la struttura labirintica dell’essere umano. Sosteneva Georges Bataille, ed in effetti, oltre ad essere l’immagine perfetta per descrivere certi stati d’animo, una forma labirintica di fondamentale importanza per noi fa addirittura parte del nostro corpo ed è il cervello, con tutte quelle anse che creano cunicoli e percorsi intricati.

In origine il labirinto, riferito al modello cretese, era unicursale presentava cioè un percorso unico che, svolgendosi in sette spire, portava al punto centrale, per poi ritornare all’ingresso. Il suo scopo era quello di simboleggiare un viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi con l’intento di risolvere i conflitti interiori, pertanto era metafora dell’esistenza umana, del cammino che ogni uomo deve compiere da solo, attraverso strade tortuose, ma univoche, come suggerisce un destino segnato. Ma non solo questo, dal momento che ingresso e uscita coincidono, si annulla anche il confine tra vita e morte, realtà e sogno, possibile e impossibile, materia e spirito.
Soltanto in seguito il labirinto è diventato multicursale, realizzato con tante vie, vicoli ciechi, complicato quindi da falsi percorsi introdotti per confondere, ma anche per offrire all’uomo la possibilità di scegliere e di intervenire in tal modo nello svolgersi della propria sorte.

L’uomo è sfuggito alla sua testa come il condannato alla prigione. Ha trovato al di là di se stesso non Dio che è la proibizione del crimine, ma un essere che ignora la proibizione. Al di là di ciò che io sono, io incontro un essere che mi fa ridere perché è senza testa, che mi riempie di angoscia perché è fatto di innocenza e di crimine: tiene un’arma di ferro nella mano sinistra, delle fiamme simili a un sacro cuore nella mano destra. Riunisce in una stessa eruzione la Nascita e la Morte. Non è un uomo. Non è neppure un dio. Non è me, ma è più di me: il suo ventre è il dedalo nel quale lui stesso si è perduto, mi perdo con lui e nel quale io mi ritrovo essendo lui, cioè mostro.
(Georges Bataille, Il labirinto)

Al centro del labirinto si trova il mostro, la nostra parte oscura, ognuno di noi ha un Minotauro da sconfiggere prima di guadagnare l’uscita e la lotta è dura, non solo per la crescita del singolo, ma anche per avere il predominio sull’istinto animalesco che ci portiamo dentro, che risiede nella memoria genetica e che, ultimamente così spesso sembra prendere il sopravvento sulla ragione.

Nei mondi scomparsi è stato possibile perdersi nell’estasi, cosa che è impossibile nel mondo della volgarità istruita. I vantaggi della civiltà sono compensati dal modo in cui gli uomini ne approfittano: gli uomini attuali ne approfittano per divenire i più degradanti di tutti gli esseri che sono esistiti. La vita si svolge sempre in un tumulto senza coesione apparente, ma essa non trova la sua grandezza e la sua realtà che nell’estasi e nell’amore estatico. Chi tiene a ignorare o a misconoscere l’estasi, è un essere incompleto il cui pensiero è ridotto all’analisi.

Come si fa a vincere il labirinto, a neutralizzarlo? La necessità di separarsi dalla volgarità del mondo, di estraniare la mente dal corpo, è stata sempre cercata dagli uomini attraverso varie tecniche di forte concentrazione. Nell’antica Grecia le Baccanti davano vita ai culti misterici dedicati al dio Dioniso attraverso lunghi momenti d’estasi sfrenata. Anche le divinazioni erano frutto dell’attraversamento della soglia tra la realtà contingente e le altre dimensioni, che solo un particolare stato alterato della mente poteva offrire e così via fino alle filosofie orientali che praticano la meditazione come momento culminante, in cui la concentrazione permette di acquisire una consapevolezza che supera i limiti umani. Questa dunque una delle soluzioni possibili per spingersi così tanto dentro la vita da superarla e in tal modo annientare anche la morte. La prima cosa da fare comunque è sempre quella di fermare il tempo, questo tiranno che l’uomo ha voluto creare come convenzione utile nella disposizione di un ordine dominante e contemporaneamente annullarlo attraverso una molteplicità di rituali che hanno sempre confermato la condizione primigenia della temporalità, ovvero il suo eterno presente.

Alla base della vita umana, esiste un principio di insufficienza. Isolatamente, ogni uomo si rappresenta la maggior parte degli altri incapaci o indegni di «essere». In ogni conversazione libera, maldicente, si ritrova, come un tema di animazione, la coscienza della vanità o del vuoto dei nostri simili: una conversazione apparentemente stagnante tradisce la fuga cieca e impotente di ogni vita verso un vertice indefinibile.

La sensazione di incompiutezza ci sovrasta quotidianamente. Più facile è notarla negli altri, vista dall’esterno perde il connotato labirintico che prende forma quando ci mettiamo ad osservare noi stessi e così l’impressione di essere sradicati, estranei, avalla l’imperfezione, il difetto che si abbatte sulle nostre misere esistenze, esautorandoci, privandoci dell’autocontrollo, dunque dell’autorità suprema, rendendoci in tal modo schiavi.

Il più grande dei mali che colpiscono gli uomini è forse la riduzione della loro esistenza allo stato di organo servile. Ma nessuno si accorge che è disperante divenire uomo politico, scrittore o scienziato. È dunque impossibile rimediare all’insufficienza che diminuisce colui che rinuncia a diventare un uomo intero per non essere più che una delle funzioni della società umana.

Questo dunque il passaggio da essere tutto a divenirne solo parte. Una soluzione di comodo che in un certo senso deresponsabilizza, che rende lecito il subire il destino, per fare gruppo sociale e sentirsi più forti, anche se in realtà ci si è indeboliti.

È consentito all’uomo non amare niente. Infatti l’universo senza causa e senza fine che gli ha dato la luce non gli ha necessariamente accordato un destino accettabile. Ma l’uomo al quale il destino umano fa paura, e che non può sopportare la sequela dell’avidità dei crimini e delle miserie, non può nemmeno essere virile. Se si allontana da se stesso non ha poi ragione di gemere fino a esaurirsi. Egli non può tollerare l’esistenza toccatagli che a condizione di dimenticare quale essa sia veramente. Gli artisti, i politici, gli scienziati ricevono l’incarico di mentirgli: così coloro che dominano l’esistenza sono sempre quelli che sanno mentire meglio a se stessi e di conseguenza anche agli altri.

Ecco che viene introdotta una massima imprescindibile nella storia dell’umanità, ovvero la menzogna culturale. Essa si è integrata perfettamente nella struttura sociale divenendone colonna portante, fonte inesauribile di un benessere fittizio che tenga al riparo dalla malasorte attraverso la maschera, l’inganno premeditato e la costituzione di condizionamenti millenari di cui ancora oggi siamo vittime e che ci limitano incessantemente.

Felice solamente colui che avendo provato la vertigine fino a tremare in tutte le sue ossa e a non misurare più la sua caduta ritrova d’improvviso la potenza insperata di fare della sua agonia una gioia capace di gelare e di trasfigurare quelli che la incontrano.

Come può l’uomo ribellarsi a questo stato di insufficienza, alla sensazione di essere inghiottito da una spirale vorace che travolge, dissennata, chiunque si trovi al suo cospetto, come può sovvertire l’impero della menzogna e ritornare integro, intero, davanti a se stesso e di fronte al mondo? L’uomo può soltanto “esistere” per sottrarsi al giogo che la mente ha creato per lui, essere re di se stesso (come suggeriva Pessoa), esercitare la gioia davanti alla morte, perché anch’essa fa parte della vita e della totalità, superare l’insufficienza esaltando l’insufficienza stessa, in una danza estatica che ci trascini al di fuori dei confini del corpo, pur rimanendo anche carne, poiché questo è il nostro destino, essere sempre, sia attraverso l’esperienza fisica transitoria, sia nella nostra dimensione più confacente, quella che si svolge oltre, quella spirituale.

La “gioia davanti alla morte” significa che la vita può essere magnificata dalla radice fino alla cima. Essa priva di senso tutto ciò che è al di là intellettuale o morale, sostanza, Dio, ordine immutabile o salvezza. È un’apoteosi di ciò che è perituro, apoteosi della carne e dell’alcool altrettanto che dei trasporti mistici.

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Sándor Márai e il naso di Cleopatra

«Se Cleopatra avesse avuto un naso grosso e brutto, né Cesare né Marcantonio si sarebbero innamorati di lei e la storia dell’impero romano sarebbe stata completamente diversa». La teoria del naso di Cleopatra, anche se storicamente irrilevante, è comunque tra le più famose per spiegare quanto possa essere semplice il mutare degli eventi, legato com’è a meri dettagli ed è anche funzionale perché rende gli avvenimenti comprensibili e soprattutto potenzialmente manovrabili.
«Il battito delle ali di una farfalla in Brasile, può provocare una tromba d’aria nel Texas». Un’altra frase che ormai fa parte del repertorio comune e che suggerisce come un minimo cambiamento, apparentemente insignificante come il battito d’ali di una farfalla, possa invece trasformare radicalmente il futuro.
Quanto influisce il caso nella Storia dell’umanità? Le teorie si sprecano, parole su parole sono state dette e scritte da sempre, ma senza approdare mai a nessuna certezza, se non il solito senso di impotenza di fronte all’imperscrutabile. Proprio la verità che più di qualunque altra vorremmo conoscere, ci è preclusa. E, forse, è meglio così.

E all’improvviso si sente come chi viene bruscamente destato da un sonno profondo e torbido a causa di un qualche rumore o evento inatteso. È la fredda e terribile sensazione di lucidità che si prova quando una voce o un’esplosione, lo scherzo perfido o la crudele volontà di una persona ci costringe a riemergere dalle acque profonde del sonno verso la superficie, in mezzo ai gelidi fatti.
(Sándor Márai, Il gabbiano)

Inevitabile, nei libri di Márai, è l’appuntamento con il destino, una resa dei conti con se stessi, chiarita dal dialogo tra due personaggi, sotto l’influsso di un terzo (però assente), che in realtà è sempre un monologo camuffato. E in quei momenti il tempo si incunea in una sorta di atemporalità che mantiene sospesi, tra passato presente e futuro, senza che si possa vedere una soglia da varcare o prima della quale fermarsi.

Il protagonista del libro Il gabbiano è un consigliere di stato che ha appena firmato il documento che condurrà il paese alla guerra, egli si trova dunque nella posizione di chi tiene in mano le redini del futuro di una fetta di umanità ed anche il peso della responsabilità di ciò che ha contribuito a fare accadere. Per il momento però solo lui e pochi altri sanno cosa avverrà nel giro di qualche ora, ma finché non ci sarà la dichiarazione ufficiale il tempo si può fermare e, volendo, il destino può ancora essere cambiato.
L’incontro con il Fato si presenta sotto forma di una bellissima donna che bussa alla porta del funzionario. La donna sostiene di essere una finlandese costretta a fuggire dal proprio paese, dopo che i bombardamenti avevano distrutto la casa in cui abitava con la famiglia ed è lì per chiedere un permesso di soggiorno e un posto da insegnante. L’uomo rimane folgorato dalla scena che gli si presenta davanti agli occhi e capisce che quello è un convegno fatale e carico di significati, poiché la ragazza somiglia in modo impressionante alla donna che aveva tanto amato e che si era uccisa per amore di un altro. Inizia così una giornata memorabile in cui le osservazioni e gli interrogativi dei protagonisti toccano temi cari a Márai ed ai suoi lettori, abituati a compiere riflessioni profonde e sempre attuali che trasformano i libri in piccoli manuali di filosofia essenziale.

Come manichini nei depositi delle sartorie, da qualche parte giacciono volti e corpi identici… non è oltraggioso?… si crede di avere amato qualcuno di unico, nella sua fatale e magnifica individualità. E forse anch’io vago per il mondo in diversi esemplari, attraverso le epoche e i paesi. Sì, mi è già capitato di incontrare me stesso: a Parigi, su un autobus, sei anni fa. […] Uno immagina di essere stato creato in un unico esemplare e un giorno è costretto a rendersi conto di essere una volgare copia: un tempo, da qualche parte, c’è stato un modello che la natura ha imitato con indifferenza e perizia, ripetendolo in una sorta di automatismo attraverso i tempi.

La tendenza dell’uomo occidentale a ritenersi al centro dell’universo ha provocato immani catastrofi non solo nella storia in generale, ma anche nelle storie individuali. La pretesa unicità, l’idea di essere inimitabili e irripetibili e superiori a chiunque altro, ha generato i mostri che la storia può tristemente esibire. Márai usa lo stratagemma del “doppio” per ricordare ai suoi lettori quanto invece sia preferibile il mutamento continuo rispetto alla fissità e il fatto che ci siano dei nostri sosia in giro per il mondo può spingere più facilmente a riflettere sul concetto di identità.
C’è anche una sorta di beffa dietro a ogni presa di coscienza, sembra che forze superiori ed invisibili si prendano gioco della nostra vanità. Forse per questo la prima tentazione del funzionario nel vedere Aino Laine, copia perfetta della sua Ilona, è quella di scoppiare in una fragorosa risata.

Ormai lo so. Nelle ultime ore ho capito che gli uomini temono un unico momento: quello in cui la vita toglie loro la maschera, e sono costretti ad ammettere che quanto custodivano così spasmodicamente e gelosamente sotto la maschera, l’«io», non è così assolutamente individuale come essi, nella loro supponenza, avevano creduto. L’«io» è qualcosa che si ripete, si duplica, si mescola e si rinnova in eterno, e non è assolutamente personale. Poco fa ti ho baciata. Bene, sappi che non ho baciato soltanto te, una donna che è tornata a me attraverso le intricate vie del mondo, ma anche un’altra donna di cui tu sei stata parte, e che, pur morta e sepolta, è solo un frammento del fenomeno che tu chiami «io».

Aino Laine è e non è Ilona. Non lo è come individualità separata, ma lo è come parte di un tutto, come universalità dell’essere umano che non può essere soltanto «io» e che porta in sé oltre a se stesso anche frammenti di altri, ciò che crea la differenza tra gli uomini sono soltanto le sfumature, esse ne dettano le peculiarità che li contraddistinguono. Un conto però è parcellizzare l’io in tutti i fenomeni che interessano l’appartenere ad una totalità, altro discorso riguarda invece la critica alla massificazione della società che spegne l’individualità, ma in senso negativo.

Queste persone sono sempre massa, anche quando sono da sole. La loro anima è semplicemente un atomo dell’anima della massa: una brulicante impersonalità, che ha un'”opinione” su ogni cosa, e non ha una reale conoscenza pressoché di niente, ma spaurita, piroettando, scintillando, disorientata e senza uno scopo cerca una direzione in cui sciamare… Perché ti stupisci? Questa massa è il cascame di una civiltà; queste donne dal volto imbellettato come mummie egizie, questi uomini dallo sguardo fisso e crudele, che indossano i loro abiti borghesi alla moda dal taglio impeccabile neanche fossero la divisa di una società segreta. Ovunque gelida complicità.

Anche la guerra è un’arma potente che massifica, rende strumenti involontari dell’annientamento, blocco inerme che si cancella con un colpo di spugna.
Da un interrogativo all’altro, un posto fondamentale è occupato dall’altra guerra che ha sempre coinvolto l’umanità, ovvero l’amore e le paure che gli fanno da corollario, compresa la terribile sensazione di solitudine quando lo si vive e l’inevitabile dolore quando lo si perde.

E’ questa l’altra guerra che si cela dietro quella visibile: la guerra delle coppie. Ma nessuno storiografo ne ha mai scritto. Peccato… Però si tratta di una guerra, Aino Laine, e miete non poche vittime. E chi ne è consapevole, a una certa età e dopo aver accumulato una certa esperienza, soppesa l’eventualità della vita e della morte quando si china verso il volto di un altro essere umano per baciarlo, un essere umano che è sì una replica, ma – purtroppo, o grazie a Dio – è anche diverso. Ma poi lo bacia ugualmente, vedi… l’esperienza non gli è servita a nulla.

Perciò è imprescindibile che tutto si ripeta, che tutto torni, che tutto sia sempre uguale, eppure diverso. Rendersene conto è doloroso, spinge in una spirale che rende ogni cosa incerta, è come la sensazione che si prova quando si comprende che tutto può accadere proprio a noi e il significato e il potere su se stessi e sugli altri che si credeva di avere ormai acquisito, immessi in quella girandola di imprevisti, perdono i contorni, per lasciare posto al cambiamento di cui invece non si era tenuto conto fino ad un attimo prima, ma che era già lì, tra le tante gradazioni che raramente ci capita di mettere completamente a fuoco.

Chiude la finestra. Rimane in piedi, disorientato, nella stanza buia, non si è mai sentito solo come in quel momento. Ma al tempo stesso sente che una mano, quella che dirige il volo dei gabbiani e i passi degli uomini, gli si è posata sulla spalla. Attraversa la stanza buia come un cieco – eppure gli sembra che qualcuno lo stia guidando.

Ma l’essenza del libro è racchiusa nel nome della donna, Aino Laine, Unica Onda, che incarna la possibilità, il battito d’ali della farfalla casuale o volontario, la consapevolezza, così come il continuo andare e venire dell’onda rappresenta metaforicamente il senso di ogni esistenza e tutto quello che la vita può portare o togliere, la ricerca che possiamo affrontare o la rinuncia che abbiamo scelto, unici e uguali, soli e tanti allo stesso tempo.

Vedi, il tuo nome non è affatto casuale […] perché racchiude in sé due concetti commoventi e preziosi per noi esseri umani: l’unico, che è pathos e ossessione – ma un grande pathos e un’ossessione decisiva, per gli uomini e le donne, eternamente in cammino gli uni verso le altre alla ricerca dell’unico vero amore! E l’onda, un concetto antichissimo, più antico della terra e dell’uomo – l’onda che offre e toglie eternamente i suoi doni, fa incontrare il caso e la possibilità. Crea un legame fra ciò che è unico e ciò che è casuale. Hai un nome bellissimo, Aino Laine. Non a caso è il tuo nome.

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