Archivi del mese: marzo 2013

Cristina Bove. Mi hanno detto di Ofelia.

Quasi_volo

un tempo diverso

per camminare astratti

non proprio volare

ma quasi

come essere foglie e pappi

in sentieri di vento

 

appoggiare a mezz’aria

passi senz’orma

vestiti solamente del tacere

 

le parole comprimono l’estasi

intralciano i poeti

li definiscono in cataloghi

 

allora ammutolisco per sentire

e non vendermi agli echi.

Sarò d’ali permesse appena

in tempo

per proseguire a lato di me stessa.

mi hanno detto di ofeliaDall’assenza prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo, fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che offende la Poesia.

Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove, poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.

Appaio

il tempo di far credere che esisto

e poi scompaio

geco fantasma

m’inerpico sui vetri

e dico al vento

amico mio non scuotere

le imposte

respirami profondo, a distaccare.

[…]

Come tutti i precursori, gli sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce, presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).

Si potrebbe obiettare che è un percorso già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio. La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.

Aperture a latere

Il sole non candeggia

la biancheria ammuffita o il seno brullo

né l’ala del cucù

filtra soltanto tra listelli e buchi

disegnato di punti su piastrelle

                            il piatto cede, rifornisce rose.

In deltaplano

funambola in assetto

gioca la mia ragazza dei silenzi

la muta dei ritorni e degli infissi

cardini sottotraccia

                             sa di quella finestra mai richiusa.

Qualora fosse il caso

se le porte sprangate a fil di buio

reggessero per anni

avrebbe almeno via d’uscita

il non ritorno sugli stessi passi…

                              un volo finalmente completato.

Cristina non offre soltanto la voce, ma sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti). E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria, dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa, piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei paesaggi interiori, della memoria.

VERSO il TACERE

Saranno secoli? Attimi che mi giro

a tascapane, a giustacuore, a scudo

e di necessità virtù mi allaccio scarpe

 

camminare dovrò

per la carrozza han già preso la zucca

a me non resta che la mezzanotte

la mia fata madrina s’è distratta.

 

Mi cucio sulla lingua un che di fiato

zenzero e cinnamomo retrogusto

enzima di saliva mordiefuggi

e mi farò bastare ancora il gioco.

 

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio

quello che non sopporta ancora voci

né le cose sospese

quello che non s’inganna con le impronte

di parole calcate nella sabbia.

 

E avrò la colpa d’essere poeta

per abuso di suono.

Ma allora qual è il reale segreto di tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza, essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e senza fine.

[…]

semplice non è mai piegare il tempo

né tantomeno mascherare il dire

m’accompagna il silenzio

presuntuoso

di sussurrargli al cuore.

E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.

[…]

noi venimmo dal tempo

ch’era il mare un ritaglio di cielo

ed esultanze, ignote geometrie

carezzavano addosso.

 

E poi dimenticammo.

 

Adesso veglio – sola – a ricordare.

Quando si crea per necessità, la spinta arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine, nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)

Case abissali

Parole orfane

come lutto del dire

a fluttuare in uno schermo di

cristalli liquidi

 

nascoste nelle mani

al riaffiorare

d’alga di sale plancton

carezza d’ombra

scena depositata sui fondali

 

si tace

quando

si sta toccando l’anima

di spalle.

E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.

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Non si fa mai giorno. Dall’ordine al caos.

copertinaSebastiano Addamo (1925-2000) scrittore e poeta siciliano, giornalista e saggista, ha ricevuto numerosi riconoscimenti già in vita e si è ritagliato uno spazio importante nel panorama letterario del Novecento, Non si fa mai giorno (1995) è una raccolta di cinque racconti.

È possibile che alcune immagini banali e casuali, si possano legare d’improvviso alle profondità dell’esistenza?

Inizia proprio dall’osservazione minuziosa degli oggetti, dallo strano modo che hanno di comunicare sensazioni, il viaggio dei protagonisti dei racconti alla ricerca di sé e dell’essenza della vita. Attraverso lo scenario inquietante di una psiche compromessa che oltrepassa i vari piani di coscienza confondendoli e perdendosi all’interno di intricati cunicoli interiori, d’improvviso essi colgono l’aspetto fondamentale di ciò che li circonda, come se venissero attraversati da un fulmine.

Così si «diventa». Assieme alle cose, sviluppando la loro trama assoluta e necessaria. Aveva capito che il supremo momento della libertà coincide con la necessità più totale. Che misteri e chiarezza anziché opposti, sono la medesima cosa, due facce identiche d’una stessa entità. E diventando si consiste. Si è.

Non serve un luogo particolare per intraprendere il viaggio. All’inizio è sempre una fuga, un modo per dimenticare sé stessi, ma si tratta ogni volta di un tentativo vano e non perché non si possa scordare, ma perché non si sa mai bene chi siamo. Il mutamento continuo è una caratteristica del nostro esistere, perciò anche se lo volessimo non potremmo mai essere sempre gli stessi. E tuttavia ci ostiniamo a far prevalere l’elemento culturale su quello naturale, costruendo e vivendo vite totalmente immaginarie, a volte orribili e sempre terribilmente infelici.

Poi si parte, generalmente in treno. Per evadere, per fuggire, per cambiare aria, per impegni di lavoro, ma non più per viaggiare, dappertutto ormai si trovano le stesse cose lasciate, cemento, plastica, cocacola, le medesime musiche ad ogni cantone. Forse i veri viaggi restano sempre quelli intorno alla propria stanza.

E non c’è mai un ritorno, nulla rimane identico, né chi ritorna e neppure chi aspetta. Due estraneità non fanno un ritorno: colui che viaggia, lo fa per mutare; e colui che aspetta muta lo stesso, poiché tutto scorre.

Così sto inseguendo immagini nella fuga delle cose, mi avvolgo in pensieri e nei ricordi, mentre gli alberi si avventano contro il finestrino, all’ultimo momento interviene il segnale misterioso e geometrico che li porta appena a sfiorare la corsa, all’ultimo momento si allontanano, agitano rami e foglie come esseri infelici.

La ricerca continua che inevitabilmente conduce alla consapevolezza di essere in divenire suggerisce chiaramente che bisogna cambiare radicalmente la percezione che abbiamo di noi stessi, del mondo circostante e il concetto stesso di movimento.

Intanto è che in treno si sta seduti sopra il movimento, basta chiudere gli occhi per sentirsi introitati dentro il vecchio alveo, ammarati in un luogo di quiete. Immobilità e movimento, intorno a cui si affannano metafisica e poesia, qui sono risolti senza necessità di deduzioni o di metafore

Nel paradosso si colloca la perfetta lucidità del pensiero, riunire immobilità e moto nello stesso nucleo di significato è eresia solo apparente. L’esempio del treno ci suggerisce che la mente spesso ci inganna, che il dualismo in eterno contrasto può trovare una conciliazione. È il famoso punto al centro di un’asse che la pone in perfetto equilibrio, quel punto di pace, di armonia che tutti cerchiamo, consapevolmente o no.

Che stava cercando? E che cercavo io rimestando il passato? È il solito processo dal buio del tempo alla chiarezza del giorno, il cammino che tutti noi di continuo usiamo compiere. Non si fa mai giorno. Di niente e di nessuno conosciamo se non il presente che a sua volta passa. Non si può fermare nulla. Davvero scorre tutto.

Ma allora perché insistere con una comprensione che diventa inevitabilmente il suo opposto?

I personaggi di questi racconti sono convinti che le regole sociali, l’ordine, li collochi dalla parte giusta,  ma esiste una parte giusta? E che cos’è l’ordine se non una delle tante forzature che deformano il pensiero? Così il passaggio dalla logica al caos è presto fatto, trovare una dimensione a nostra misura, che ci accolga, necessita di quella punta di follia salvifica che permette di allargare gli orizzonti e vedere qualcosa che fino ad un attimo prima ci era sfuggito.

Gli accadeva, ormai, di sognare spesso. Propriamente, non gli era chiaro se si trattasse di sogni. Forse immagini oscure e notturne che continuavano nella veglia; forse il contrario. Se erano sogni, quelli della notte, o veglie che mantenevano una loro larvale e tenace consistenza. [] Comprese senza neppure volerlo, senza nemmeno spingere il gioco della riflessione e dell’analisi, che si stava verificando una mutazione. Non capiva se sua o delle cose.

Il passaggio non è facile e il tramite del sogno è un espediente molto efficace, poiché quella è la zona di transizione per eccellenza, sei e non sei, la materia non ti limita più, i confini del corpo sono annullati e puoi spostarti nelle varie dimensioni senza problemi, vivere esperienze inimmaginabili nella vita da sveglio. E questa in fondo è la prova che siamo molto di più di ciò che siamo abituati a credere.

Nel percorso che scardina la vita precedente e che porta alla consapevolezza di non potere governare tutto, anzi che spesso si deve accettare l’idea di subirli determinati eventi, cercando poi di capire perché ci capitano, inevitabilmente ci si scontra con il destino.

Il caso spesso decide gli eventi, giunge inappuntabile e definitivo, quasi losco, scompiglia il giorno.

Talvolta non c’è altro.

Le vicende, i gesti, gli errori dell’esistenza, i difetti s’incrociano e ruotano come gli infiniti mondi dell’universo, e dapprincipio non sembrano che trame gioiose e ilari di quella contingenza varia e caotica che chiamiamo vita, finché poi il caso non viene ad assumere il suo volto serio e reale, scompiglia l’ordine delle cose, si erige come una roccia, un’invalicabile muro, diventa il Signore della Necessità che governa tutte le cose…

A volte capita di finire nella spirale ingovernabile di avvenimenti che sono gli altri a dirigere, mentre tu sei il pezzo finale che si incastra perfettamente nel loro puzzle e pur vedendo con chiarezza ogni aspetto delle cose, dirlo non serve a niente, perché per spiegare la tua visione usi un linguaggio incomprensibile o che può essere trasformato e adoperato proprio contro di te. Se ti senti catapultato in una vita che non ti appartiene o se tuo malgrado finisci come interprete principale del film di qualcun altro può accadere di perdere la partita. Quello è l’attimo che ti può annientare oppure rinsaldare, condurre verso un ignoto momentaneo che soltanto noi possiamo trasformare in meta, del resto, dopo un lungo cammino tortuoso, solo il caos può ricondurre all’armonia.

Ora cammino, come un condannato di cui ne ho visto tanti nei film americani. Sono intontito e già cotto. Almeno vorrei fare una pernacchia. Ma vedo quelle facce morte attorno a me. Ogni gesto è inutile. Non ho idee, né patemi. Mi sto avviando verso non so dove. Camminare, è la cosa più difficile che fino ad ora abbia fatto nella mia vita.

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Amour. Cronaca di una morte.

locandina amourMalattia, vecchiaia e morte, ecco gli indigesti ingredienti del film di Michael Haneke, Amour, vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes 2012 e come miglior film straniero alla serata degli Oscar 2013. Haneke ha abituato il suo pubblico ad una durezza che spesso rasenta la crudeltà senz’anima, non è certo un indoratore di pillole, semmai al contrario è uno che ti rende le cose ancora più difficili da accettare e assorbire.

In questo suo undicesimo lungometraggio ci troviamo di fronte ad una coppia di ottuagenari costretti ad affrontare la malattia vana, quella lenta e progressiva che non dà scampo e la morte pietosa.

Una compito fondamentale nella riuscita di questo film lo svolgono gli attori, Jean-Louis Trintignant (Georges) bravissimo, ma soprattutto una Emmanuelle Riva (Anne), addirittura straordinaria, che lascia letteralmente di stucco con la sua interpretazione. Inevitabile domandarsi come sia stato possibile non consegnarle l’oscar come migliore attrice, considerata anche la difficoltà del ruolo da impersonare. Una di quelle misteriose corrispondenze che governano il mondo ha voluto che la parola amour fosse presente nei due film più importanti ai quali abbia partecipato e che l’hanno fatta entrare nella storia del cinema. Riva ha infatti recitato anche nel famoso film di Resnais del 1959, Hiroshima mon amour che vanta la sceneggiatura di Marguerite Duras.

La scena iniziale poteva essere quella finale, un prologo che figura più da epilogo. I pompieri sfondano una porta chiusa e trovano il cadavere di una donna in decomposizione su un letto cosparso di fiori.

Musicisti in pensione, dopo una serata a teatro per il concerto di un ex allievo, l’indomani mattina, durante la colazione Anne ha un vuoto, rimane assente per alcuni minuti, e in quel momento in cui l’esistenza rimane sospesa inizia la fine, anzi è già finito tutto, perché niente sarà più come prima.

riva trintignant amour

Perdita sì, ma anche assenza. Anne perde a poco a poco sé stessa fisicamente e di conseguenza la coscienza di sé, Georges recepisce questo vuoto che pian piano prende forma intorno a lui e comprende che non può rimpiazzarlo in alcun modo, così, anziché avvicinarsi alle persone, se ne allontana. I personaggi secondari svaniscono ad uno ad uno, la figlia già distante e superficiale, le infermiere inadeguate al compito da svolgere, i portinai troppo zelanti, sempre pronti a invadere la privacy rendendo qualche servizio superfluo. E poi c’è la dignità, un argomento così semplice eppure così spinoso. La dignità che dovrebbe essere qualcosa di squisitamente personale, privato, intimo al limite estremo, invasa dalla legge, dalla cultura religiosa, dall’elemento estraneo. Come si può dare dignità alla vita se non la si dà alla morte? Georges finirà per non rispondere più nemmeno al telefono, immergendosi in quella fredda desolazione che lo pone di fronte ad una scelta che non ha più niente a che vedere né con lui, né con la vita precedente. È un “qui e ora” inesorabile, privo di orpelli, definitivo.

Michael HanekeIl film segue passo passo il decadimento del corpo, prima l’interruzione, poi la paralisi del lato destro, poi l’allettamento, poi l’afasia, la parola trasformata in un grido, in un lamento continuo e il lento rattrappimento degli arti, ma si capisce anche che Anne comprende, che è prigioniera, rinchiusa in un corpo che non risponde ai comandi, è costretta a vivere la peggiore delle vite, la vita inutile. Quando ad esempio cerca di dire qualcosa alla figlia, facendo uno sforzo disumano, contorcendo i muscoli facciali solo per farfugliare quattro suoni incomprensibili ci si chiede davvero perché, perché si deve essere costretti a vivere?

Il titolo inizialmente doveva essere Ces deux-là, ma poi grazie alla brillante intuizione di una produttrice si è deciso di cambiarlo in Amour e per sottolineare quanto siano importanti i particolari, c’è una differenza così profonda tra i due titoli da modificare radicalmente l’approccio dello spettatore.

Amour non è solo l’amore di coppia, ma anche l’amore per la musica, per l’arte e l’amore per la parola, per i rituali quotidiani, per il piacere delle piccole cose come prepararsi un tè o leggere un libro. Il film parla della perdita dell’amore inteso in tutte quelle accezioni e lentamente, un’immagine dopo l’altra, ti toglie tutto, lasciando spazio solo ad uno spettatore immobile, al cospetto di se stesso, spoglio, senza nemmeno più la speranza, ma con una certezza definitiva, quella che l’uomo è sempre in perdita, comunque vadano le cose. Eppure qui l’amore è soprattutto nel gesto estremo di un uomo che ama sì la sua compagna di una vita, ma in particolare ama un altro essere umano, privato di tutte le peculiarità che lo rendono tale, costretto a vivere senza poter vivere. Quando la verità è così lampante e monumentale non si può che rimanere pietrificati.

D’altra parte c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui abbiamo impostato la nostra esistenza ovvero basandola sull’idea di essere eterni e negando la morte con una forza tale da dimenticare che fa parte integrante della vita, che ne è una sua componente specifica e inevitabile. Si nasce con la morte addosso.

huppert trintignant

Haneke ce lo ricorda in ogni immagine. La telecamera è spietata, si muove con accanimento sui corpi dei due anziani che deambulano con una certa difficoltà e poi sul cammino devastante della malattia di Anne. Lo scenario è un enorme appartamento parigino dal quale, fatta eccezione per una breve sortita a teatro, non ci si sposterà più. Qualcosa tuttavia manca, volutamente, ed è un certo tipo di emozione, quella che ti travolge, quella nella quale ti puoi immergere, immedesimarti ed esorcizzarla piangendo, perché vedi qualcosa che tanto capita sempre agli altri. Ma qui non funziona, perché questo è un film da subire, due ore angoscianti che riprendono il declino di un corpo e di due vite. Ciononostante è così intenso che ti entra dentro e lì rimane, te lo porti appresso l’indomani e nei giorni seguenti, forse perché non c’è alcuna stimolazione della fantasia o del vagheggiamento, forse perché non vieni trasportato in mondi immaginari o in una storia d’amore indimenticabile, forse perché invece si tratta proprio di te, del fatto che sei umano e quindi ti ammali, invecchi, muori.

In una intervista Trintignant, a proposito della freddezza voluta di Haneke, ha raccontato che il regista non voleva assolutamente che si piangesse e che addirittura quando in una scena particolarmente commovente Riva è stata sopraffatta dall’emozione ed ha pianto, lui ha fermato le riprese ed ha tagliato la scena. Secondo Haneke infatti non è l’attore che deve mostrare, ma è la telecamera che deve sorprendere la sua emozione. E qui l’amore è anche tra la cinepresa e gli attori.

Se la vita del singolo finisce, se la vita di coppia chiude la parabola, l’esistenza comunque continua, la scena finale ritrae, in quel vuoto immenso, la figlia della coppia, Eva (il nome non è certo un caso), unica presenza viva nell’assenza, tocca a lei continuare, così com’è prescritto dalle leggi della natura.

Maledetta umanità, povera umanità. Amour.

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In questa notte del tempo.

in questa notte del tempoPrima di morire Leonardo Sciascia stava lavorando ad una storia bresciana risalente al periodo successivo alla Liberazione quando, come sempre avviene nella storia dell’umanità, chi diventa vincitore è anche dalla parte giusta, ha l’approvazione divina e di conseguenza il diritto di comportarsi con chi perde esattamente come gli aguzzini contro i quali fino al giorno prima aveva combattuto. Quando la spinta che fa muovere le persone è attivata dalla vendetta capita spesso che il confine tra la ragione e il torto diventi labile e si sconfini dall’una all’altro senza il giusto discernimento.

La storia raccontata è umanissima e ricca di spunti di riflessione, i protagonisti sono il fascista Telesio Interlandi e l’avvocato socialista Enzo Paroli, a scriverla però non è Sciascia, che morì prima di poterlo fare, ma il suo amico magistrato, Vincenzo Vitale, che ne raccolse l’eredità morale e culturale, e facendo ordine tra i numerosi documenti messi insieme e le tante pagine di appunti, ha scritto un libro edito da Sellerio dal titolo: In questa notte del tempo (1999).

Ora, in quella celletta, pensava che nessuno può accettare di essere ridotto a un’idea, per quanto nobile e pura. Un uomo è di più, infinitamente di più. L’idea, dopo tutto, non si vede, non si tocca, non c’è. Le persone invece sono di carne e ossa e nelle loro ossa, sulla loro carne, patiscono la pena del vivere. Anzi, l’idea c’è soltanto quando c’è una persona che la faccia davvero viva, che le faccia strada nella storia, che sappia esserne testimone; e fino in fondo. Per questo – così ancora pensava – le idee orfane degli uomini sono null’altro che fantasmi crudeli e rivoltanti, orrendi simulacri del nulla. Ma lui, Telesio, avrebbe saputo dare alle idee per cui s’era sempre battuto gambe per camminare da sole, dopo la sua morte?

Interlandi aveva sempre mantenuto posizioni estremiste all’interno del partito, ma le aveva manifestate solo con la scrittura senza mai avere un ruolo attivo, una qualsiasi carica all’interno del movimento. Tuttavia contribuì non poco dal momento che espresse ampiamente le proprie posizioni intransigenti ed apertamente razziste e si sa, quando si tratta di oltraggiare una minoranza si trovano sempre dei carnefici volontari subito pronti ad abbracciare la causa. Nel dicembre del 1924 fondò il quotidiano Il Tevere e nel 1933 il settimanale Quadrivio al quale parteciparono autori come Brancati, Moravia, Cardarelli, ma soprattutto lo si ricorda per aver dato vita, nel 1938 al quindicinale La difesa della razza, in concomitanza con la promulgazione delle leggi razziali. La rivista voleva attribuire una base scientifica al razzismo, pertanto si avvaleva della collaborazione di esperti e pubblicò, il 5 agosto 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti firmato da ben dieci scienziati.

Nell’ottobre del 1945 Telesio Interlandi e il figlio non ancora ventenne Cesare furono arrestati e portati in una caserma dei carabinieri a Desenzano.

Il figlio Cesare, arrestato solo per le colpe del padre, contrasse una grave infezione durante la carcerazione. Portato in ospedale il medico si rifiutò di curarlo dopo averne appreso il cognome, per sua fortuna fu poi portato in una clinica gestita da suore tedesche dove guarì. Nel frattempo il padre non sapeva più nulla della sorte del figlio e la madre si rivolse all’avvocato Paroli come ultima chance di salvezza.

Veniva così celebrato, per via d’un uomo qualunque, d’un oscuro medico di provincia, l’ennesimo trionfo della violenza. Una violenza sottile, esperta, sapientemente nutrita di disincanto, di pazienti, sofferte attese; dal sapore da millenni inalterabile, che non scolora anche se è violenza che ribatte a violenza, sopruso a sopruso; ma che anzi alimenta e si alimenta di raffinatissime spirali di sopraffazioni, di inganni. Morti che seppelliscono altri morti, ferite che leniscono ferite: ecco il genio di secoli di storia, il puro distillato di decine di civiltà…

Ed ecco – pensava Telesio – che Dio è veramente morto, ad ogni istante ucciso da noi; da tutti quelli che abbiamo subito e patito, lasciando che ci covasse dentro, come una bestia immonda e silente, il desiderio più maligno, il desiderio della vendetta. Anzi, educandola a saper attendere la stagione propizia. Dicendoci e credendoci vittime, vogliamo farci diversi dai nostri aguzzini. Ma si è tutti eguali, tutti aguzzini gli uni degli altri: intrascendibilmente, per sempre…

Un equivoco all’italiana fu il motivo della scarcerazione di Telesio.

Non si sa bene come Interlandi riuscì a fare breccia nell’animo dell’avvocato che ottenne un ordine di scarcerazione per Cesare. Da qui l’equivoco, ovvero essendo assente Cesare, l’unico Interlandi presente nella caserma era Telesio e dunque fu lui ad essere scarcerato malgrado le proteste dello stesso che voleva evitare eventuali problemi futuri al figlio.

C’era stato evidentemente un errore. Uno di quegli errori cui una sorta di mano invisibile sembra di tanto in tanto, sapientemente guidare i destini dell’uomo per cavarne – da una vicenda dolorosa, da una delle innumerevoli nequizie – un significato nascosto, quello che altrimenti non si sarebbe potuto vedere.

Paroli nascose, rischiando la sua vita e quella dei suoi cari, l’intera famiglia Interlandi nello scantinato della casa dove abitava, per quasi un anno, ovvero fino alla sentenza di innocenza per Telesio avvenuta nel 1946.

Ciò che maggiormente aveva colpito Sciascia era perché Interlandi, un raffinato intellettuale che aveva diretto riviste importanti come Quadrivio, avesse deciso di diventare portavoce del Fascismo, addirittura l’ideologo del razzismo. E di conseguenza come mai Paroli avesse deciso di aiutare proprio lui.

E ora cosa gli si chiedeva? Di rinnegarsi? D’essere altro? E che altro? Cesare, forse, forse lui poteva… era giovanissimo e solo ai giovanissimi è lecito mutare maschera; anzi – pensava Telesio – è questo il loro compito: indossare tutte le maschere possibili per trovarne, alla fine, una soltanto; e restarle fedeli per sempre, ad ogni costo.

Interlandi infatti continua a mantenere i propri ideali intatti, anche dopo la carcerazione, durante i colloqui con Paroli e mai cerca di trincerarsi dietro a un pentitismo di comodo, né finte redenzioni, è e rimane saldo ai suoi principi, un fascista in buona fede insomma, convinto che quella fosse la strada giusta da seguire per il bene dell’Italia e dell’Europa. Lo stesso avvocato rimane colpito da tanta sicurezza:

Allora era vero, dovette ammettere, c’era stato anche questo: un’intelligenza coerentemente fattasi, e lucidamente, strumento d’abiezione.

Non bastava possedere lucido intelletto per non inclinare al male e alla perversione, occorrendo qualcosa d’altro; qualcosa che bisognava trovare altrove, presso qualcuno che invece lo possedesse questo “supplemento d’anima”, perché altrimenti non avrebbe saputo come chiamarlo. E fu allora che si risolse a capire che tutto il ventennio, tutta la retorica del Capo e della Nazione, il fascismo insomma, per la sua ideologia e la stupidità della sua prassi altro non erano che il tentativo di sopprimere o di mettere a tacere quel “di più” che nell’anima di ciascuno minacciava pericolosamente di emergere. Un senso recondito e mai dimenticato del vero e del bene, che poteva riaffiorare dal nulla attraverso il volto stanco d’un uomo, la bellezza struggente d’un tramonto, il ricordo lontano d’una tenerezza paterna.

E c’è davvero da sorprendersi? C’è sempre un gene intellettuale puro alla base della devastazione.

Da sempre per delle idee si vive e si muore, ma quale gioco perverso ne ha stabilito le regole? Esistono delle idee e dunque dei concetti soggettivi spacciati per oggettivi, per cui vale la pena sacrificarsi? Questo continuo rincorrere un qualsiasi significato che renda la vita degna d’essere vissuta non si basa forse su presupposti totalmente errati? Gli stessi concetti di Onore, Patria, Libertà, non sono discutibili? Ogni volta che si combatte una guerra lo si fa per gli interessi economici delle élite che si muovono dietro le quinte, alimentati dal gusto del Potere, ma non c’è mai una realtà nobile alla base. E tuttavia lo si fa credere alla massa, si impone un’ideologia che mandi al macello giovani e meno giovani pronti a morire per nulla. Forse questo è  il modo più sciocco di dare un senso alla propria vita.

E, per quanto lui i fascisti li conoscesse bene e n’avesse avuto qualche guaio soprattutto per via di suo padre, accanito socialista, glien’era venuta una sottile curiosità, come un sotterraneo gusto di provare a se stesso che non esistono categorie d’umanità, nulla insomma che autorizzi a discernere i buoni dai cattivi in quanto i primi stanno tutti di qua e i secondi tutti di là, secondo un facile e grottesco semplicismo manicheo che gli dava nausea; ma che invece esistono uomini, nel bene come nel male, e che anzi forse nessuno può essere capace di seguire il primo senza essere seriamente tentato dal secondo, al quale spesso poi finisce per cedere un po’ per vigliaccheria e un po’ per confusione del cuore e della mente.

Siamo abituati a comprendere le cose solo mettendole in contrapposizione perciò non potremmo capire cos’è il male senza il bene o l’oscurità senza la luce e tuttavia non sempre è possibile catalogare collocando in un reparto piuttosto che in un altro. A volte è necessario ampliare le nostre vedute per riuscire a conoscere cosa ci sta di fronte e mescolare un po’ le carte riunendo le parti contrastanti in un unico essere. Anche le grandi divisioni storiche, sono frutto del pensiero dell’epoca e vedono delle truppe schierate sul fronte del bene e le altre sul fronte del male, ma si tratta solo di concetti che sfuggono ad una realtà oggettiva. La stessa legge è discutibile essendo mutevole e al servizio del pensiero dominante, come dimostrano le leggi razziali appunto, ma gli esempi si perdono nella notte dei tempi.

Paroli non sapeva affatto se la propria anima fosse migliore di quella altrui. Anzi, spesso gli accadeva di pensare il contrario, e tuttavia senti imperiosamente che quella difesa andava assunta, che alla difesa di quell’uomo, all’apparenza indifendibile, bisognava votarsi con la stessa appassionata dedizione dovuta alla vita, al bisogno di vivere e di affermare la propria vita e, attraverso questa, quella altrui.

Alla fine quali siano i meccanismi che muovono certe azioni umane rimane un mistero. A volte sembra di avere la certezza della reazione conseguente ad un’azione e invece si verifica l’opposto, la variabile è sempre pronta a ricordarci non solo che non bisogna mai dare nulla per scontato, ma anche che per quanto un percorso possa essere rettilineo c’è sempre una possibilità imprevedibile che all’improvviso curvi lanciandoci fuori strada e deragliandoci in un ignoto che inverte la direzione e ci catapulta in una nuova realtà, in una nuova prospettiva, in una nuova vita. Cosa abbia spinto l’avvocato Paroli a difendere Interlandi non si comprende se non con la misura letteraria e ideale di un’impresa affascinante, una sfida a colpi di integrità ideologica, il nero da una parte e il rosso dall’altra che si incontrano realizzando quella verità che proviene dalle sfumature e dall’incerto colore di certe commistioni che nell’indeterminatezza della tonalità risolve tutti i dubbi della natura umana.

Ma forse, più di tutto, ciò che ha spinto Paroli è stato rendersi conto che la cosa peggiore non era il fatto che Interlandi, pur non avendo deportato nessuno, aveva fatto sì che si creassero le condizioni perché altri lo facessero e questo già lo rendeva colpevole, ma era l’indifferenza, l’ignavia di così tante persone e di cui l’avvocato stesso si accusava, l’incapacità di comprendere, di compatire gli altri, una colpa della quale si erano macchiati in tanti a quei tempi, rimanendo in silenzio o facendo finta di non vedere ciò che avevano sotto gli occhi. Non è la forza fisica o l’arrogarsi il diritto di vita e di morte sugli altri che rende potenti e giusti, e non è nemmeno la purezza di un pensiero, la vera forza è nel sapere mantenere il controllo di sé stessi, quando le circostanze impongono scelte difficili, è fermarsi un attimo prima di compiere l’irreparabile e soprattutto è nella pietà, nell’accezione di comprensione verso l’umanità e la sua miseria, nel non dimenticare mai che siamo essere transitori e di nessuna importanza.

– Il coraggio che nasce dalla pietà?

– Sì. più che dalla paura o dal senso del dovere.

– Avete pietà di me, dunque?

– Non più che di me stesso. Non sempre è stato così, certo. Ma adesso, in questa notte del tempo, con i partigiani che credono d’aver vinto ed invece hanno solo raccolto le ceneri d’un regime che si è suicidato e vogliono farsi giustizieri di tutti e di ciascuno… la fame, i lutti, le distruzioni… sì, ho pietà di lei e di me. Di lei, per quello che ha pensato e che ha fatto sì che si pensasse. Di me, per la mia stanchezza, la mia paura. E forse, infine, di tutti.

– Di tutti?

– Vedo l’esilio della ragione, la violenza che s’annida ovunque, perfino nelle parole, nei volti, la sete di vendetta. Ogni giorno.

– È vero. Dunque?

– Dunque impariamo ad esercitare la pietà.

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