Prima di morire Leonardo Sciascia stava lavorando ad una storia bresciana risalente al periodo successivo alla Liberazione quando, come sempre avviene nella storia dell’umanità, chi diventa vincitore è anche dalla parte giusta, ha l’approvazione divina e di conseguenza il diritto di comportarsi con chi perde esattamente come gli aguzzini contro i quali fino al giorno prima aveva combattuto. Quando la spinta che fa muovere le persone è attivata dalla vendetta capita spesso che il confine tra la ragione e il torto diventi labile e si sconfini dall’una all’altro senza il giusto discernimento.
La storia raccontata è umanissima e ricca di spunti di riflessione, i protagonisti sono il fascista Telesio Interlandi e l’avvocato socialista Enzo Paroli, a scriverla però non è Sciascia, che morì prima di poterlo fare, ma il suo amico magistrato, Vincenzo Vitale, che ne raccolse l’eredità morale e culturale, e facendo ordine tra i numerosi documenti messi insieme e le tante pagine di appunti, ha scritto un libro edito da Sellerio dal titolo: In questa notte del tempo (1999).
Ora, in quella celletta, pensava che nessuno può accettare di essere ridotto a un’idea, per quanto nobile e pura. Un uomo è di più, infinitamente di più. L’idea, dopo tutto, non si vede, non si tocca, non c’è. Le persone invece sono di carne e ossa e nelle loro ossa, sulla loro carne, patiscono la pena del vivere. Anzi, l’idea c’è soltanto quando c’è una persona che la faccia davvero viva, che le faccia strada nella storia, che sappia esserne testimone; e fino in fondo. Per questo – così ancora pensava – le idee orfane degli uomini sono null’altro che fantasmi crudeli e rivoltanti, orrendi simulacri del nulla. Ma lui, Telesio, avrebbe saputo dare alle idee per cui s’era sempre battuto gambe per camminare da sole, dopo la sua morte?
Interlandi aveva sempre mantenuto posizioni estremiste all’interno del partito, ma le aveva manifestate solo con la scrittura senza mai avere un ruolo attivo, una qualsiasi carica all’interno del movimento. Tuttavia contribuì non poco dal momento che espresse ampiamente le proprie posizioni intransigenti ed apertamente razziste e si sa, quando si tratta di oltraggiare una minoranza si trovano sempre dei carnefici volontari subito pronti ad abbracciare la causa. Nel dicembre del 1924 fondò il quotidiano Il Tevere e nel 1933 il settimanale Quadrivio al quale parteciparono autori come Brancati, Moravia, Cardarelli, ma soprattutto lo si ricorda per aver dato vita, nel 1938 al quindicinale La difesa della razza, in concomitanza con la promulgazione delle leggi razziali. La rivista voleva attribuire una base scientifica al razzismo, pertanto si avvaleva della collaborazione di esperti e pubblicò, il 5 agosto 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti firmato da ben dieci scienziati.
Nell’ottobre del 1945 Telesio Interlandi e il figlio non ancora ventenne Cesare furono arrestati e portati in una caserma dei carabinieri a Desenzano.
Il figlio Cesare, arrestato solo per le colpe del padre, contrasse una grave infezione durante la carcerazione. Portato in ospedale il medico si rifiutò di curarlo dopo averne appreso il cognome, per sua fortuna fu poi portato in una clinica gestita da suore tedesche dove guarì. Nel frattempo il padre non sapeva più nulla della sorte del figlio e la madre si rivolse all’avvocato Paroli come ultima chance di salvezza.
Veniva così celebrato, per via d’un uomo qualunque, d’un oscuro medico di provincia, l’ennesimo trionfo della violenza. Una violenza sottile, esperta, sapientemente nutrita di disincanto, di pazienti, sofferte attese; dal sapore da millenni inalterabile, che non scolora anche se è violenza che ribatte a violenza, sopruso a sopruso; ma che anzi alimenta e si alimenta di raffinatissime spirali di sopraffazioni, di inganni. Morti che seppelliscono altri morti, ferite che leniscono ferite: ecco il genio di secoli di storia, il puro distillato di decine di civiltà…
Ed ecco – pensava Telesio – che Dio è veramente morto, ad ogni istante ucciso da noi; da tutti quelli che abbiamo subito e patito, lasciando che ci covasse dentro, come una bestia immonda e silente, il desiderio più maligno, il desiderio della vendetta. Anzi, educandola a saper attendere la stagione propizia. Dicendoci e credendoci vittime, vogliamo farci diversi dai nostri aguzzini. Ma si è tutti eguali, tutti aguzzini gli uni degli altri: intrascendibilmente, per sempre…
Un equivoco all’italiana fu il motivo della scarcerazione di Telesio.
Non si sa bene come Interlandi riuscì a fare breccia nell’animo dell’avvocato che ottenne un ordine di scarcerazione per Cesare. Da qui l’equivoco, ovvero essendo assente Cesare, l’unico Interlandi presente nella caserma era Telesio e dunque fu lui ad essere scarcerato malgrado le proteste dello stesso che voleva evitare eventuali problemi futuri al figlio.
C’era stato evidentemente un errore. Uno di quegli errori cui una sorta di mano invisibile sembra di tanto in tanto, sapientemente guidare i destini dell’uomo per cavarne – da una vicenda dolorosa, da una delle innumerevoli nequizie – un significato nascosto, quello che altrimenti non si sarebbe potuto vedere.
Paroli nascose, rischiando la sua vita e quella dei suoi cari, l’intera famiglia Interlandi nello scantinato della casa dove abitava, per quasi un anno, ovvero fino alla sentenza di innocenza per Telesio avvenuta nel 1946.
Ciò che maggiormente aveva colpito Sciascia era perché Interlandi, un raffinato intellettuale che aveva diretto riviste importanti come Quadrivio, avesse deciso di diventare portavoce del Fascismo, addirittura l’ideologo del razzismo. E di conseguenza come mai Paroli avesse deciso di aiutare proprio lui.
E ora cosa gli si chiedeva? Di rinnegarsi? D’essere altro? E che altro? Cesare, forse, forse lui poteva… era giovanissimo e solo ai giovanissimi è lecito mutare maschera; anzi – pensava Telesio – è questo il loro compito: indossare tutte le maschere possibili per trovarne, alla fine, una soltanto; e restarle fedeli per sempre, ad ogni costo.
Interlandi infatti continua a mantenere i propri ideali intatti, anche dopo la carcerazione, durante i colloqui con Paroli e mai cerca di trincerarsi dietro a un pentitismo di comodo, né finte redenzioni, è e rimane saldo ai suoi principi, un fascista in buona fede insomma, convinto che quella fosse la strada giusta da seguire per il bene dell’Italia e dell’Europa. Lo stesso avvocato rimane colpito da tanta sicurezza:
Allora era vero, dovette ammettere, c’era stato anche questo: un’intelligenza coerentemente fattasi, e lucidamente, strumento d’abiezione.
Non bastava possedere lucido intelletto per non inclinare al male e alla perversione, occorrendo qualcosa d’altro; qualcosa che bisognava trovare altrove, presso qualcuno che invece lo possedesse questo “supplemento d’anima”, perché altrimenti non avrebbe saputo come chiamarlo. E fu allora che si risolse a capire che tutto il ventennio, tutta la retorica del Capo e della Nazione, il fascismo insomma, per la sua ideologia e la stupidità della sua prassi altro non erano che il tentativo di sopprimere o di mettere a tacere quel “di più” che nell’anima di ciascuno minacciava pericolosamente di emergere. Un senso recondito e mai dimenticato del vero e del bene, che poteva riaffiorare dal nulla attraverso il volto stanco d’un uomo, la bellezza struggente d’un tramonto, il ricordo lontano d’una tenerezza paterna.
E c’è davvero da sorprendersi? C’è sempre un gene intellettuale puro alla base della devastazione.
Da sempre per delle idee si vive e si muore, ma quale gioco perverso ne ha stabilito le regole? Esistono delle idee e dunque dei concetti soggettivi spacciati per oggettivi, per cui vale la pena sacrificarsi? Questo continuo rincorrere un qualsiasi significato che renda la vita degna d’essere vissuta non si basa forse su presupposti totalmente errati? Gli stessi concetti di Onore, Patria, Libertà, non sono discutibili? Ogni volta che si combatte una guerra lo si fa per gli interessi economici delle élite che si muovono dietro le quinte, alimentati dal gusto del Potere, ma non c’è mai una realtà nobile alla base. E tuttavia lo si fa credere alla massa, si impone un’ideologia che mandi al macello giovani e meno giovani pronti a morire per nulla. Forse questo è il modo più sciocco di dare un senso alla propria vita.
E, per quanto lui i fascisti li conoscesse bene e n’avesse avuto qualche guaio soprattutto per via di suo padre, accanito socialista, glien’era venuta una sottile curiosità, come un sotterraneo gusto di provare a se stesso che non esistono categorie d’umanità, nulla insomma che autorizzi a discernere i buoni dai cattivi in quanto i primi stanno tutti di qua e i secondi tutti di là, secondo un facile e grottesco semplicismo manicheo che gli dava nausea; ma che invece esistono uomini, nel bene come nel male, e che anzi forse nessuno può essere capace di seguire il primo senza essere seriamente tentato dal secondo, al quale spesso poi finisce per cedere un po’ per vigliaccheria e un po’ per confusione del cuore e della mente.
Siamo abituati a comprendere le cose solo mettendole in contrapposizione perciò non potremmo capire cos’è il male senza il bene o l’oscurità senza la luce e tuttavia non sempre è possibile catalogare collocando in un reparto piuttosto che in un altro. A volte è necessario ampliare le nostre vedute per riuscire a conoscere cosa ci sta di fronte e mescolare un po’ le carte riunendo le parti contrastanti in un unico essere. Anche le grandi divisioni storiche, sono frutto del pensiero dell’epoca e vedono delle truppe schierate sul fronte del bene e le altre sul fronte del male, ma si tratta solo di concetti che sfuggono ad una realtà oggettiva. La stessa legge è discutibile essendo mutevole e al servizio del pensiero dominante, come dimostrano le leggi razziali appunto, ma gli esempi si perdono nella notte dei tempi.
Paroli non sapeva affatto se la propria anima fosse migliore di quella altrui. Anzi, spesso gli accadeva di pensare il contrario, e tuttavia senti imperiosamente che quella difesa andava assunta, che alla difesa di quell’uomo, all’apparenza indifendibile, bisognava votarsi con la stessa appassionata dedizione dovuta alla vita, al bisogno di vivere e di affermare la propria vita e, attraverso questa, quella altrui.
Alla fine quali siano i meccanismi che muovono certe azioni umane rimane un mistero. A volte sembra di avere la certezza della reazione conseguente ad un’azione e invece si verifica l’opposto, la variabile è sempre pronta a ricordarci non solo che non bisogna mai dare nulla per scontato, ma anche che per quanto un percorso possa essere rettilineo c’è sempre una possibilità imprevedibile che all’improvviso curvi lanciandoci fuori strada e deragliandoci in un ignoto che inverte la direzione e ci catapulta in una nuova realtà, in una nuova prospettiva, in una nuova vita. Cosa abbia spinto l’avvocato Paroli a difendere Interlandi non si comprende se non con la misura letteraria e ideale di un’impresa affascinante, una sfida a colpi di integrità ideologica, il nero da una parte e il rosso dall’altra che si incontrano realizzando quella verità che proviene dalle sfumature e dall’incerto colore di certe commistioni che nell’indeterminatezza della tonalità risolve tutti i dubbi della natura umana.
Ma forse, più di tutto, ciò che ha spinto Paroli è stato rendersi conto che la cosa peggiore non era il fatto che Interlandi, pur non avendo deportato nessuno, aveva fatto sì che si creassero le condizioni perché altri lo facessero e questo già lo rendeva colpevole, ma era l’indifferenza, l’ignavia di così tante persone e di cui l’avvocato stesso si accusava, l’incapacità di comprendere, di compatire gli altri, una colpa della quale si erano macchiati in tanti a quei tempi, rimanendo in silenzio o facendo finta di non vedere ciò che avevano sotto gli occhi. Non è la forza fisica o l’arrogarsi il diritto di vita e di morte sugli altri che rende potenti e giusti, e non è nemmeno la purezza di un pensiero, la vera forza è nel sapere mantenere il controllo di sé stessi, quando le circostanze impongono scelte difficili, è fermarsi un attimo prima di compiere l’irreparabile e soprattutto è nella pietà, nell’accezione di comprensione verso l’umanità e la sua miseria, nel non dimenticare mai che siamo essere transitori e di nessuna importanza.
– Il coraggio che nasce dalla pietà?
– Sì. più che dalla paura o dal senso del dovere.
– Avete pietà di me, dunque?
– Non più che di me stesso. Non sempre è stato così, certo. Ma adesso, in questa notte del tempo, con i partigiani che credono d’aver vinto ed invece hanno solo raccolto le ceneri d’un regime che si è suicidato e vogliono farsi giustizieri di tutti e di ciascuno… la fame, i lutti, le distruzioni… sì, ho pietà di lei e di me. Di lei, per quello che ha pensato e che ha fatto sì che si pensasse. Di me, per la mia stanchezza, la mia paura. E forse, infine, di tutti.
– Di tutti?
– Vedo l’esilio della ragione, la violenza che s’annida ovunque, perfino nelle parole, nei volti, la sete di vendetta. Ogni giorno.
– È vero. Dunque?
– Dunque impariamo ad esercitare la pietà.
Trovo tanti spunti di riflessione che mi riconducono, tra le tante cose, alla situazione attuale della nostro Paese. Il sonno della ragione genera mostri, mi viene in mente. Dobbiamo fare in modo che la ragione prenda il sopravvento, sempre, anche quando siamo in un crogiuolo di emozioni difficili e confuse. La violenza, la ribellione, a volte finiscono per confluire in scelte autoritarie e repressive, persecutorie, impietose. La pietà profonda che si accresce con l’uso della ragione e non un superficiale proposito umanitario è quella che riconosce il male annidato nel bene e viceversa, che rifugga dalle utilità del momento per cui, secondo una strada contorta, il buono passi ad essere cattivo e ci si autorizzi alle peggiori efferatezze per cacciarlo. Bisogna cambiare da dentro, isolando le tendenze distruttive, facendo sforzi razionali continui ed esercitando la saggezza dell’agire. La pietà senza la ragione resta nelle intenzioni.
Invecedistelle, magari la ragione prendesse sempre il sopravvento, allora potremmo essere anche pietosi, come dici tu “la pietà senza la ragione resta nelle intenzioni”… ma ci sono pulsioni molto più forti che hanno la meglio, almeno fino ad ora…
grazie per il bel commento
un abbraccio
Un’argomentazione ampia e profonda che mette in luce la natura dell’uomo, una natura che nasconde in sé invidia, malvagità, spirito vendicativo, come è ben spiegato nella parte introduttiva.
Vorrei aggiungere che sorrido quando, contrapposti agli italiani “brava gente”, si citano i violenti slavi, i perfidi inglesi, i feroci tedeschi.
Gli italiani, poverini, si limitarono a tagliare i testicoli ai prigionieri durante la guerra in Etiopia e a diventare partigiani dopo essere stati fascisti, con lo scopo di perseguire vendette personali.
Grande post! 😛
E un abbraccio*
Cara Ale, diciamo che quando è ora di esercitare un’efferata violenza sul prossimo esiste un’unica “razza” e un’unica nazione…
grazie, un abbraccio
Una storia appassionante ed esemplare, al cui solo contatto ci si arricchisce, come sempre avviene con le cose proposte qui da te, e nel modo in cui sai proporle tu.
Ci vuole un’immensa statura morale, per non abbassarsi alla vendetta.
Io ricordo sempre con orgoglio la storia di mio nonno e di suo fratello (che non feci in tempo a conoscere, nessuno dei due).
A causa di un funerale laico, con le bandiere socialiste, erano stati pestati a sangue (durante il funerale!) dai fascisti chiamati al telefono da un vicino spione.
Ma quando, alla resa dei conti, quel vicino fu sul punto di venire fucilato nel cortile di casa, furono il nonno e suo fratello ad accorrere per salvargli la vita, al termine di un’intera giornata di vibrante discussione (diciamo pure litigio, pare che il nonno sia arrivato al punto di estrarre una pistola) col capo dei partigiani, a rischio di farsi fucilare pure loro!
Caro Nick, grazie per il contributo… il comportamento di tuo nonno è un esempio per tutti, qualunque sia il momento storico o la situazione… non è certo la cieca vendetta a portare avanti il cammino dell’umanità, ma comprendere limiti e imperfezioni, per poterli poi superare…
un bacio
come sempre, un’altra esemplare recensione.
La letteratura, forse mi ripeto non me ne volere, ha questo compito a mio avviso; sondare l’animo umano in tutte le sue sfumature, nel tempo e nel contesto storico in cui si esprime. Con ciò può essere testimone attiva, memoria e insegnamento.
Grazie Maria, un abbraccio
Caro Massimo, grazie a te e fai bene a sottolinearlo, è proprio quello che penso anch’io…
un abbraccio
È giusto: dobbiamo provare pietà di noi stessi come degli altri ben al di sopra del torto e della ragione, degli amici e dei nemici, di quelli che ci hanno aiutato e dei tanti che ci hanno fatto incespicare. Il perdono viene dalla pietà o compassione, nella sua accezione più pulita. La vendetta tanto attesa, pregustata e alla fine perpetrata non può saziare lo spirito umano fatto per l’amore. Eccellente presentazione di un grande libro: al di sopra delle opinioni politiche, religiose e anche razziali esistono LE PERSONE, ciò che ci accomuna tutti è un destino comune che merita la compassione vicendevole.
Cara Mimma, sono d’accordo con te, proprio in quel destino comune dovremmo riconoscerci e ritrovarci tutti quanti, compassionevoli e comprensivi… e invece sembra che abbiano sempre il sopravvento coloro che si credono eterni…
un abbraccio
Leggere questo romanzo o in qualsiasi vesto lo si voglia chiamare, è sicuramente istruttivo perché fa comprendere, come hai giustamente sottolineato in apertura, non esiste una verità assoluta ma nemmeno oggettiva. E’ sempre il frutto di una nostra mediazione con le nostre idea, coi nostri ideali.
Però esiste un modo per capire e comprendere ed è quello che ha scelto l’avvocato Paroli. Lui si è posto in modo acritico di fronte al problema di Interlandi e di quello che ha scritto.
Illuminante è il dialogo che hai riportato in fondo al post.
Cito due frasi di Paroli (almeno credo che sia lui a pronunciarle)
«Vedo l’esilio della ragione, la violenza che s’annida ovunque, perfino nelle parole, nei volti, la sete di vendetta. Ogni giorno.»
e infini
«Dunque impariamo ad esercitare la pietà.»
Due frasi che dovrebbero invogliare chiunque a riflettere e raggionare sui propri pensieri, sui propri scritti e azioni.
Una lezione attualissima. Anzi più che attuale nella presente stagione della politica.
Complimenti per aver scovato un altro libro veramente interessante.
Un abbraccio
Caro Gian Paolo, sì le frasi che hai citato nel libro le pronuncia Paroli. Il confronto con i nostri giorni è inevitabile e drammatico, perché nei momenti di difficoltà quanti riescono a porsi al di sopra delle parti? speriamo non si arrivi a situazioni estreme perché è sempre l’onesto cittadino, chi ha ancora dei valori morali o chi non ha i mezzi per difendersi, a pagare il prezzo più alto, in tutte le società, in qualsiasi epoca…
grazie e un abbraccio
Da sempre si vive e si muore per le idee, hai sintetizzato un concetto profondo, l’onore, la Patria facevano parte di quelle idee del passato che mettevano al primo posto l’ideale Patria e non ne sminuivano l’importanza: battersi per un ideale valoroso, rischiare la vita per esso. Purtroppo esiste anche la vendetta quella che calpesta gli ideali e al tempo dei partigiani gli stessi fratelli divennero spietati assassini. La storia è interessante e mette al primo posto l’altruismo, la pietà, infatti l’avvocato oppositore del regime mise a repentaglio la sua vita per salvare un esponente del fascismo e fu questo comportamento che interessò Sciascia.
Interessante trama, sezionata e analizzata con grande competenza, grazie Maria per quest’altra pagina culturale.
Buon fine settimana
un caro abbraccio
annamaria
Cara Annamaria, purtroppo gli esempi non mancano, anche ai giorni nostri, per constatare che l’accanimento dell’uomo contro il suo simile è sempre di grande attualità e finché sarà l’economia a muovere il mondo le cose non cambieranno, perché niente è più proficuo di una bella bella guerra cruenta…
grazie e un bacio
Sciascia è uno dei miei scrittori preferiti, perciò ti sono grata di avermi fatto conoscere il libro di Vincenzo Vitale, che in questa narrazione ne raccoglie il retaggio morale, tutti gli appunti, e ne scrive così bene, a quel che ne riporti in questi stralci, tanto da invogliare a leggere tutta la storia.
Spesso ho pensato alla casualità di un’appartenenza, qualunque essa sia, e come sia determinante partecipare di ideali, giusti o sbagliati, qualora si assorba una cultura o ci si rifaccia a un modello sociale proposto o imposto.
La fermezza con cui ci si ispira e di conseguenza si agisce, parte sempre dal presupposto di stare dalla parte giusta.
Certo, a definire ideologie e relative regole comportamentali sono sempre gli uomini, e sempre sono originate per interessi.
Tanto si è scritto su questo argomento. Ne abbiamo letto ultimamente, e sempre abbiamo considerato la manipolazione delle menti come fattore condizionante.
Tuttavia, come hai ben evidenziato: “la vera forza è nel sapere mantenere il controllo di sé stessi, quando le circostanze impongono scelte difficili, è fermarsi un attimo prima di compiere l’irreparabile e soprattutto è nella pietà, nell’accezione di comprensione verso l’umanità e la sua miseria, nel non dimenticare mai che siamo essere transitori e di nessuna importanza.”
Grazie di questo tuo porgere sempre altri spazi alla mente, allo spirito.
Un abbraccio
cri
Cara Cri, certo è difficilissimo liberarsi dai condizionamenti che si propagano a macchia d’olio fino a ricoprirci per intero… tuttavia una volta iniziato il percorso di bonifica, sembra che ogni giorno si diradi un po’ di quella fitta nebbia e alla fine diventa possibile anche vedere “mentre” e dunque fermarsi un attimo prima di compiere l’irreparabile…
grazie e un bacio
Le idee sono il libero progetto della nostra mente alla continua ricerca di un verosimile e degno modo di vivere. Restano vitali fintanto che si avvicinano a questa verosimiglianza, perciò devono poter essere modificate.
Quando l’ideologia, soprattutto l’ideologia di un partito, le cristallizza nel tentativo di farle diventare un apparente progetto collettivo, diventano una maschera di cui è difficile liberarsi: negare anche solo una parte di questa ideologia rappresenta, quasi, un dissenso da ciò che è stato deciso, fissato, ed è perciò immutabile.
Un giovane può cambiare maschera perché non si è ancora radicato in alcuna maschera: la vitalità delle sue idee lo salva e gli impedisce di accettare ciò che non lo soddisfa completamente o non lo convince.
Quando l’ideologia diventa un Potere e ricorre alla violenza (qualsiasi tipo di violenza), le idee sono morte.
Un bacione,
Rosalba
Cara Rosalba, un’analisi ineccepibile la tua, che condivido in pieno…
bentornata! un bacio
Il libro introduce un argomento affascinante, anche se spinoso. Personalmente credo che nella vita serva molta determinazione… ma solo se accompagnata dalla flessibilità di riuscire a cambiare qualora ci si renda conto di essere in errore o di stare su una strada sbagliata. Questo comporta usare sempre e comunque occhi, orecchie e testa, senza affidarsi ciecamente a regole scritte mai mettendole in dubbio.
Sposare una ideologia, senza più metterla in dubbio, è quanto mai pericoloso e può essere deleterio per sé stessi e per gli altri.
E naturalmente ci vuole un mare di coraggio per svoltare quando è il caso di farlo.
http://www.wolfghost.com
Caro Wolf, sono d’accordo ed è proprio questo il punto, sposare un’ideologia senza metterla in dubbio allontana inevitabilmente dall’avere ragione…
un abbraccio
Difficile non vedere il pericolo di un ritorno all’odio tra fazioni anche nell’attuale situazione politica. Veramente la storia non insegna nulla, anche perché l’ignoranza è diffusa, almeno quanto l’incompetenza, la disonestà, l’arroganza. Oggi non si usa (ancora) il manganello, ma l’insulto è ampiamente diffuso e non si risolvono i problemi insultando l’avversario. Bisogna invece cercare di capire i bisogni dell’altro, senza cancellarli in funzione di un’ideologia, pensare che ogni scelta non è verità, ma una scommessa sul futuro. Confesso di aver molta paura di svegliarmi con un tizio con strani baffetti, che inizia a far politica sbraitando in una birreria e che spazza via tutti gli avversari, colpevoli a loro volta per l’arroganza di non voler cedere neppure un pezzetto del loro potere.
Caro Guido, per quanto sia possibile, speriamo di non dover più vedere tizi con strani baffetti in azione, anche perché oggi gli effetti potrebbero essere ancora più devastanti… purtroppo è vero che l’atteggiamento più diffuso è quello di puntare il dito addosso e insultare in continuazione piuttosto che proporre strategie d’intervento mirate ad un miglioramento generale delle condizioni di vita della gente, ma che ci vuoi fare? è pur sempre la via più comoda e dunque la preferita…
un abbraccio