Malattia, vecchiaia e morte, ecco gli indigesti ingredienti del film di Michael Haneke, Amour, vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes 2012 e come miglior film straniero alla serata degli Oscar 2013. Haneke ha abituato il suo pubblico ad una durezza che spesso rasenta la crudeltà senz’anima, non è certo un indoratore di pillole, semmai al contrario è uno che ti rende le cose ancora più difficili da accettare e assorbire.
In questo suo undicesimo lungometraggio ci troviamo di fronte ad una coppia di ottuagenari costretti ad affrontare la malattia vana, quella lenta e progressiva che non dà scampo e la morte pietosa.
Una compito fondamentale nella riuscita di questo film lo svolgono gli attori, Jean-Louis Trintignant (Georges) bravissimo, ma soprattutto una Emmanuelle Riva (Anne), addirittura straordinaria, che lascia letteralmente di stucco con la sua interpretazione. Inevitabile domandarsi come sia stato possibile non consegnarle l’oscar come migliore attrice, considerata anche la difficoltà del ruolo da impersonare. Una di quelle misteriose corrispondenze che governano il mondo ha voluto che la parola amour fosse presente nei due film più importanti ai quali abbia partecipato e che l’hanno fatta entrare nella storia del cinema. Riva ha infatti recitato anche nel famoso film di Resnais del 1959, Hiroshima mon amour che vanta la sceneggiatura di Marguerite Duras.
La scena iniziale poteva essere quella finale, un prologo che figura più da epilogo. I pompieri sfondano una porta chiusa e trovano il cadavere di una donna in decomposizione su un letto cosparso di fiori.
Musicisti in pensione, dopo una serata a teatro per il concerto di un ex allievo, l’indomani mattina, durante la colazione Anne ha un vuoto, rimane assente per alcuni minuti, e in quel momento in cui l’esistenza rimane sospesa inizia la fine, anzi è già finito tutto, perché niente sarà più come prima.
Perdita sì, ma anche assenza. Anne perde a poco a poco sé stessa fisicamente e di conseguenza la coscienza di sé, Georges recepisce questo vuoto che pian piano prende forma intorno a lui e comprende che non può rimpiazzarlo in alcun modo, così, anziché avvicinarsi alle persone, se ne allontana. I personaggi secondari svaniscono ad uno ad uno, la figlia già distante e superficiale, le infermiere inadeguate al compito da svolgere, i portinai troppo zelanti, sempre pronti a invadere la privacy rendendo qualche servizio superfluo. E poi c’è la dignità, un argomento così semplice eppure così spinoso. La dignità che dovrebbe essere qualcosa di squisitamente personale, privato, intimo al limite estremo, invasa dalla legge, dalla cultura religiosa, dall’elemento estraneo. Come si può dare dignità alla vita se non la si dà alla morte? Georges finirà per non rispondere più nemmeno al telefono, immergendosi in quella fredda desolazione che lo pone di fronte ad una scelta che non ha più niente a che vedere né con lui, né con la vita precedente. È un “qui e ora” inesorabile, privo di orpelli, definitivo.
Il film segue passo passo il decadimento del corpo, prima l’interruzione, poi la paralisi del lato destro, poi l’allettamento, poi l’afasia, la parola trasformata in un grido, in un lamento continuo e il lento rattrappimento degli arti, ma si capisce anche che Anne comprende, che è prigioniera, rinchiusa in un corpo che non risponde ai comandi, è costretta a vivere la peggiore delle vite, la vita inutile. Quando ad esempio cerca di dire qualcosa alla figlia, facendo uno sforzo disumano, contorcendo i muscoli facciali solo per farfugliare quattro suoni incomprensibili ci si chiede davvero perché, perché si deve essere costretti a vivere?
Il titolo inizialmente doveva essere Ces deux-là, ma poi grazie alla brillante intuizione di una produttrice si è deciso di cambiarlo in Amour e per sottolineare quanto siano importanti i particolari, c’è una differenza così profonda tra i due titoli da modificare radicalmente l’approccio dello spettatore.
Amour non è solo l’amore di coppia, ma anche l’amore per la musica, per l’arte e l’amore per la parola, per i rituali quotidiani, per il piacere delle piccole cose come prepararsi un tè o leggere un libro. Il film parla della perdita dell’amore inteso in tutte quelle accezioni e lentamente, un’immagine dopo l’altra, ti toglie tutto, lasciando spazio solo ad uno spettatore immobile, al cospetto di se stesso, spoglio, senza nemmeno più la speranza, ma con una certezza definitiva, quella che l’uomo è sempre in perdita, comunque vadano le cose. Eppure qui l’amore è soprattutto nel gesto estremo di un uomo che ama sì la sua compagna di una vita, ma in particolare ama un altro essere umano, privato di tutte le peculiarità che lo rendono tale, costretto a vivere senza poter vivere. Quando la verità è così lampante e monumentale non si può che rimanere pietrificati.
D’altra parte c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui abbiamo impostato la nostra esistenza ovvero basandola sull’idea di essere eterni e negando la morte con una forza tale da dimenticare che fa parte integrante della vita, che ne è una sua componente specifica e inevitabile. Si nasce con la morte addosso.
Haneke ce lo ricorda in ogni immagine. La telecamera è spietata, si muove con accanimento sui corpi dei due anziani che deambulano con una certa difficoltà e poi sul cammino devastante della malattia di Anne. Lo scenario è un enorme appartamento parigino dal quale, fatta eccezione per una breve sortita a teatro, non ci si sposterà più. Qualcosa tuttavia manca, volutamente, ed è un certo tipo di emozione, quella che ti travolge, quella nella quale ti puoi immergere, immedesimarti ed esorcizzarla piangendo, perché vedi qualcosa che tanto capita sempre agli altri. Ma qui non funziona, perché questo è un film da subire, due ore angoscianti che riprendono il declino di un corpo e di due vite. Ciononostante è così intenso che ti entra dentro e lì rimane, te lo porti appresso l’indomani e nei giorni seguenti, forse perché non c’è alcuna stimolazione della fantasia o del vagheggiamento, forse perché non vieni trasportato in mondi immaginari o in una storia d’amore indimenticabile, forse perché invece si tratta proprio di te, del fatto che sei umano e quindi ti ammali, invecchi, muori.
In una intervista Trintignant, a proposito della freddezza voluta di Haneke, ha raccontato che il regista non voleva assolutamente che si piangesse e che addirittura quando in una scena particolarmente commovente Riva è stata sopraffatta dall’emozione ed ha pianto, lui ha fermato le riprese ed ha tagliato la scena. Secondo Haneke infatti non è l’attore che deve mostrare, ma è la telecamera che deve sorprendere la sua emozione. E qui l’amore è anche tra la cinepresa e gli attori.
Se la vita del singolo finisce, se la vita di coppia chiude la parabola, l’esistenza comunque continua, la scena finale ritrae, in quel vuoto immenso, la figlia della coppia, Eva (il nome non è certo un caso), unica presenza viva nell’assenza, tocca a lei continuare, così com’è prescritto dalle leggi della natura.
Maledetta umanità, povera umanità. Amour.
Ho sentito parlare di questo film: ingredienti davvero difficili da masticare e digerire. Non sapevo del cambio di titolo, che pare anche a me veramente provvidenziale.
Cara Giulia, infatti… l’ho saputo leggendo un’intervista a Trintignant su una rivista francese. All’inizio sembrava che si dovesse rinunciare anche all’idea di intitolarlo Amour perché c’era già un altro film con quel titolo e non era ancora trascorso il tempo necessario per legge per poterlo utilizzare di nuovo. Ma poi, andando a fondo, si è scoperto che si trattava di un film porno e tutto si è risolto…
un abbraccio
Meravigliosa recensione, che mi persuade ancor di più a vedere un film che era comunque in prima posizione nella mia lista.
Proprio in questi giorni parlavo in un altro blog di un caro amico della morte come parte integrante della vita, e del come questo accadimento (che la nostra società banale e cretina rimuove) non sia da considerarsi l’opposto della vita, ma appunto un compimento di essa (e anche a lui ricordai questa cosa che ora dico a te: da ragazzino, quando amavo “filosofeggiare”, avevo inventato una parola per unire vita e morte: “VIRTE”).
Mi permetto una tiratina d’orecchie ad Haneke, i cui freddi atteggiamenti poetico-ideologici non sempre mi convincono: io la preziosa scena in cui l’Attrice spontaneamente piange non mi sarei permesso di tagliarla MAI!
La lacrimosità voluta e magari furbetta no, ma un pianto spontaneo ci dice tutto, più ancora dei discorsi su morte e vita, su cosa significhi essere Umani!
Caro Nick, mi trovi d’accordo su tutto anche se bisogna ricordare che questo è lo stile di Haneke, penso che per come ha impostato il film si possa comprendere perché non volesse lacrime… anche se sembra un paradosso in questo modo lo spettatore si sente coinvolto in prima persona, senza avere la possibilità di esorcizzare le proprie paure con un pianto liberatorio che gli permetta di pensare che in fondo quella cosa sta capitando a qualcun altro…
comunque, con o senza pianto la Riva è superlativa…
un abbraccio
Hai sintetizzato mirabilmente una scomoda verità: “Si nasce con la morte addosso.” Ho provato un brivido quando ho letto quest’ azzeccatissima espressione. Quanto ad Haneke, è un regista che mi piace molto, per la freddezza spietata con cui mette l’uomo davanti alla sua follia e alla sua fragilità. Non ho ancora visto Amour ma rimedierò presto. Un caro saluto.
Caro Ettore ti ringrazio. In effetti quell’espressione mi è venuta proprio mentre sistemavo il post prima di pubblicarlo e di certo sarà affiorata da qualche ricordo sepolto in un angolo remoto della memoria, perché ho scoperto che è anche il titolo di una novella di Pirandello della quale onestamente non ricordo nulla, ma che intendo leggere al più presto…
un abbraccio
tempo fa ne lessi un’ entusiastica recensione sull’Indice dei libri del mese, con la tua hai riacceso quell’interesse che, allora, soffocai quasi per paura di troppa bellezza.
Caro Massimo, sicuramente ne vale la pena…
un abbraccio
Eppure c’è tanta delicatezza in questa cruda verità.
La tua, che indaghi nei luoghi dell’essere con la stessa sapienza con cui annoti gli esterni (una casa, una stanza, dei corpi) e ne percepisci la labilità dei confini.
L’essere umano è qui che assiste agli esiti della vita, ineludibili, e ne subisce le conseguenze fatali. Noi tutti siamo quei due vecchi, già adesso, già dalla nascita, come hai saputo così bene esprimere in quella “morte addosso”. Noi, che per sfuggire a quanto può accadere per il solo fatto di invecchiare, e che per essere vivi dobbiamo necessariamente morire; ma quando si innesta il dolore, l’impossibilità di esistere persona, la mente prigioniera di un corpo che è quasi una bara, allora comprendiamo fino in fondo qual è il nostro destino, e come siamo impreparati ad affrontarlo.
La tenerezza di un uomo che ne è sopraffatto eppure non si arrende.
Amore, dici bene, amore per ogni spicciolo di vita, per ogni ricordo trattenuto nel respiro.
La malattia che piega una persona quasi a renderla cosa… ecco, questo è terribile da accettare o accogliere. E allora un atto definitivo è finalmente tregua, sancisce un punto di non ritorno all’insostenibilità del vivere. E può ancora essere amore.
Grazie per avermi suggerito di vederlo. Grazie infinite.
Un abbraccio forte
cri
Cara Cri, è esattamente ciò che intendevo…
la malattia che ti rende una cosa è terribile ed essere pietosi non è pregare per il moribondo o inumidirgli le labbra, ma sottrarlo rapidamente ad un destino tanto crudele…
baci
Un film crudo che affronta una dura realtà: la malattia debilitante in vecchiaia. Perché qui sta il punto, essere ammalati in gioventù o in un’età in cui si è attorniati da persone nel pieno delle forze che accudiscono, stimolano è avvilente e debilitante, ma non allo stesso modo che in vecchiaia. Il vecchio è considerato un bambino allo stadio finale, il vecchio non riceve la stessa comprensione ed è per questo che l’anziano vive la malattia con maggiore sofferenza.
Credo si tratti di alzheimer, è la peggiore delle malattie senili: perdere le capacità in maniera progressiva devasta la persona e i suoi cari.
Tu parli della morte che ci appartiene già dalla nascita e infatti anche mia madre esprimeva lo stesso concetto, ma lei usava il termine di condanna.
E’ un film drammatico che avvilisce, ma non per questo non merita di essere visto, credo che siano due ore di totale coinvolgimento e dopo la tua recensione accurata mi è sorta la voglia di immergermi in questo film.
Bravissima come sempre, un abbraccio.
annamaria
Cara Annamaria, credo che per la malattia progressiva e incurabile non ci sia un’età giusta, ma certo la vecchiaia di per sé è già una dura prova per il corpo e per la mente e rattrista ancora di più leggere l’impotenza in uno sguardo consapevole, ma impossibilitato a reagire…
grazie e un abbraccio
È una recensione di grande valore, sei penetrata nella morte, ma anche, e simultaneamente, nel significato profondo della vita. E voglio aggiungere che tenere uno spettatore fermo con un tale argomento è semplicemente geniale sia da parte del regista che degli attori.
Cara Mimma ti ringrazio e sì, hai ragione, è la cosa che ha sorpreso anche me, i due attori poi sono davvero straordinari…
un abbraccio
E’ sufficiente leggere il nome degli attori e soprattutto delle attrici… per piangere. Quando mai in Italia, abbiamo avuto una Isabelle Huppert, una Emanuelle Riva o una Sandrine Bonnaire? Qui da noi si privilegia altro: la carrozzeria 😀
Lo stesso discorso potrebbe essere applicato al mondo dei libri.
Ciò detto, un grande applauso per la tua stupenda recensione, e un bacione parimente grande*
Cara Ale, ti ringrazio e sono d’accordo. Qui la Huppert (che ha lavorato spesso con Haneke) ha un ruolo marginale, ma è sempre bravissima… In Italia si sa, si privilegia la superficie per non scavare a fondo e trovarsi con il solito vuoto (interiore e finanziario!)
un abbraccio
“Abbracciala, abbracciali, abbracciati
Cosa ti dicevo mai?
A che punto ero?
Ho quasi l’impressione che
– io con te –
perdo il sentiero.
Forse la psicologia
può spiegare questi strani vuoti
della mente mia.
Ora mi ricordo che
parlavo di follia
e del grande amore,
grande bugia.
Che ne pensi dimmi,
di un uomo tanto stupido da crederti “sua”?
Anima
alzati
apriti
abbracciala
abbracciali
abbracciati
Che ora è? E’ tardi ormai.
Mia cara, cara amica
che ne dici se noi
portiamo a termine la nostra
dolcissima fatica.
Allontaniamoci verso
il centro dell’universo.”
Mi hai fatto emozionare. Questa stupenda recensione mi ha riportato a galla una canzone spettacolare di Lucio Battisti, che mi permetto di riportare qui per intero oltre a indicarti il link per sentirla:
http://m.youtube.com/?client=mv-google&piggyback=2&rdm=mj8x0l6gk#/watch?v=CCu_qRkjFmM&desktop_uri=%2Fwatch%3Fv%3DCCu_qRkjFmM&gl=IT
Amour
Un abbraccio Franco
Caro Franco, ti ringrazio per il prezioso contributo, come spesso accade arricchisci i miei post con delle chicche geniali…
un forte abbraccio
Non sono un appasionato di cinema ma questa recensione concilierebbe chiunque col grande schermo.
Hai descritto in maniera straordinaria cos ale immagini volevano trasmettere, esattamente come Hanecke ha voluto fare con la cinepresa.
L’argomento è intrigante perché stimola la nostra riflessione sull’amore, inteso come rapporto con la nostra vita e la quella degli altri, quando il nostro corpo fisico imprigiona la noistra anima.
Senza dubbio ha trattato dei temi difficili da coniugare perché il mondo attuale spinge verso dei non sentimenti.
Complimenti.
Un grande abbraccio
Caro Gian Paolo, ti ringrazio. L’argomento è davvero molto complesso, addirittura indicibile, non-rappresentabile, ma grazie alla bravura del regista e degli attori si compie una sorta di magia…
un abbraccio
Dal tuo post l’ho compreso pienamente.
Un abbraccio
amore e intimità sono sinonimi, almeno per me. Quando si è molto vicini non è difficile portarsi verso scelte che altrimenti sarebbe ben difficile fare.
Bellissima rece, cara Super Mary :))
Cara Giacy, sì è proprio vero…
grazie e un bacio
Non l’ho visto, ma desidererei vederlo, da sola. Anche se, confesso, sta crescendo in me una sorta di ‘rifiuto’ dell’età senile e forse sarei turbata. Condivido tutto quanto dici sulla morte, sulla dignità.
Ciao, Maria.
Invecedistelle, ti comprendo perfettamente, infatti sono rimasta imbalsamata per due ore davanti al film e sono certa che non lo rivedrò mai più!
un abbraccio
Analisi impeccabile, la tua, intesa ad indagare dentro una trama tanto deprimente da farmi cambiare subito sala di proiezione . . . Cara Maria, quando l’età incalza, si ha voglia di qualcosa che ci consoli, ferma restando la tua colta e intelligente capacità critica che tutti ben conosciamo e lodiamo.
Bacio.
grazia
Cara Grazia, a dire il vero ho suggerito a tutti di non guardarlo, anche se sembra paradossale visto che ho scritto il post, ma l’ho fatto in modo terapeutico per cercare di togliermi quella pellicola asfissiante che mi si era incollata addosso! Come film è davvero impeccabile e gli attori sono straordinari, ma anch’io faccio fatica a digerire certe tematiche…
un abbraccio
non ti ho dato retta e l’ho guardato, come avrei potuto resistere?
E’ perfetto, è la realtà è quel che non vorremmo che sia, oltre al decadimento del corpo quello del fisico, essere in balia. Non ho versato una lacrima guardandolo, perché è in effetti una cronaca, continua a venirmi da piangere ripensandoci
bacio cris sloggata
Cara Cris, è vero mentre lo guardi non viene da piangere, ma dopo ti lascia un’angoscia disarmante e poi le espressioni della Riva chi se le scorda più?
bacio
Grazie di questa intensa e precisa recensione.
Durante il film una parte di me voleva solo fuggire, l’altra, attonita, assistere a tanto disperato amore per il compagno di una vita
e la vita stessa fino all’estremo gesto amoroso.
Pass, è quello che è successo anche a me…
grazie a te
… e pensare che già arrivarci alla vecchiaia è grasso che cola! 😀
Purtroppo io, ma con me tanti, faccio un po’ eccezione: ho fin troppo presente il nostro ineludibile destino e, se proprio devo dirla tutta, trovo inevitabile che gli uomini si ritirino nella quotidianità rifiutandosi di pensare alla morte come se fossero eterni: credo che se dovessimo tutti avere ben chiaro cosa ci aspetta 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, il tasso di suicidi sarebbe enormemente più alto.
Del tema dell’eutanasia abbiamo parlato molto spesso, e non posso che ripetermi. Oggi ho letto di un cane famoso (un capo-slitta) che era diventato ancora più famoso perché scampato alla morte una volta. Purtroppo poi si è ammalato di nuovo, della solita malattia che, soprattutto se non presa in tempo, non da scampo. Il proprietario, giustamente, gli ha risparmiato una morte inutilmente dolorosa optando per l’iniezione. Gesto di amore diceva l’articolo. E io, bada bene, sono d’accordo.
Ma la domanda è: perché per un animale è un gesto d’amore e per una persona è… omicidio? 😮
Mah…
http://www.wolfghost.com
Caro Wolf, come sai sono d’accordo con te… ma la risposta alla tua domanda è semplice, è omicidio perché così hanno deciso i capi religiosi che ci comandano da millenni, per essere precisi da quando si sono imposte le religioni monoteiste, che oltre ad essere maschiliste e molto materialiste sono anche estremamente intolleranti con chiunque abbia un pensiero autonomo e presentano una spiccata attitudine all’imposizione… mentre col politeismo sì che regnava la democrazia!
un abbraccio
Sì, grande film capace di smantellare luoghi comuni e sbatterti in faccia la realtà della morte laica!