– Almeno fosse un maschio! – sospirò la signora Soave.
– Non ne ha abbastanza di Carlino?
– Oh! non per me; ma per le ragazze, poverette, che cos’hanno di buono a questo mondo?
Teresa (1886) è un romanzo di Anna Zuccari (1846-1918), nota con lo pseudonimo di Neera, e fa parte della Trilogia della donna giovane che comprendeva anche Lydia (1887) e L’indomani (1889). Durante la sua vita Neera occupò un posto importante nell’attività sociale e culturale milanese del periodo, scrittrice prolifica, oltre a romanzi, racconti e saggi, scrisse anche per numerose riviste e giornali tra i quali Il corriere della Sera. Intrattenne inoltre una fitta corrispondenza con personaggi di spicco come Benedetto Croce, Giovanni Verga, Luigi Capuana. Dalla nota bio-bibliografica dell’edizione Il Poligrafo (2009) si legge: semplicemente «una signora che scrive» la definì un critico del tempo e Roberto Sacchetti in Milano 1881 ne tracciò questo essenziale ma illuminante profilo: «La scrittrice che tutta Italia conosce col pseudonimo di Neera e di cui ben pochi sanno il nome vero, è una modesta madre di famiglia; molto seria, benché di carattere vivace e giovanissima, vive unicamente per la famiglia; lavora per la famiglia e come: tre o quattro romanzi all’anno, articoli per il “Fanfulla”, per il “Corriere del Mattino” e per la “Gazzetta Letteraria”, per sei o sette giornali minori, e si lamenta che gli editori non gliene stampino quanto si sentirebbe di farne». Dopo la sua morte però ha allungato la schiera delle donne dimenticate delle quali o non rimane traccia o le si abbozza rapidamente con poche parole di circostanza, nelle varie antologie e letterature. Paradossalmente è più strano che fosse famosa in un’epoca in cui la cultura femminile non era tenuta minimamente in considerazione, anzi veniva ostacolata e denigrata da una critica di parte e unicamente maschile.
La posizione della scrittrice in merito alla condizione femminile è parecchio contraddittoria.
Il pensiero di Neera a proposito del confronto uomo-donna si pone fra il classico e l’innovativo. Ha la grande intuizione di affermare che le donne non sono uguali agli uomini e dunque condanna al femminismo la costrizione ad un’uguaglianza impossibile. Ritiene che se l’uomo fosse migliore della donna allora sì che si dovrebbe combattere per essere superiori a lui, ma dato che siamo semplicemente diversi è sufficiente ritagliarsi i propri spazi, anche in ambito lavorativo e risolvere un grosso carico di problemi. Inoltre sa che la donna ha un ruolo fondamentale nell’educazione dei propri figli e questo per lei è il suo compito principale. Difficile darle completamente torto, tuttavia Neera dava per scontata una collaborazione indispensabile tra l’universo maschile e quello femminile, ma invece, come si sa e come la cronaca continua a mostrarci quotidianamente ci sono dei modelli comportamentali, a dir poco inammissibili, che si sono radicati a tal punto nella società, che le stesse donne li sottovalutano, quando addirittura nemmeno li vedono più. E purtroppo per questi motivi si continua a morire inutilmente in ogni angolo della Terra.
Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l’eternità dell’aspettativa, avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso.
Neera approva il ruolo della donna come procreatrice e non condivide le lotte per l’emancipazione femminile. Malgrado tutto questo, e pur non abbracciando la causa delle femministe, anzi dichiarandosi addirittura contro il femminismo, tuttavia dai suoi scritti emerge un forte malessere verso l’ipocrisia di una condizione imposta che relegava la donna al classico ruolo dell’angelo del focolare e traspare chiaramente una forte critica nei confronti di una sottomissione iniqua e senza sbocchi, facilmente individuabile anche nelle descrizioni di certi uomini resi ridicoli proprio dal loro diritto ad essere tronfi e dalla convinzione di predominare per superiorità congenita, per diritto divino.
Lui, il padre, uomo da poco e presuntuoso, che nascondeva la propria nullità sotto una grand’aria boriosa ed arcigna, ligio alle vecchie consuetudini aristocratiche, tirannuccio volgare, aveva già stabilito, col suo precedente, il dominio assoluto del sesso forte.
Teresa, l’eroina del romanzo, si dibatte tra la passione per il bell’Egidio e il rispetto delle convenzioni sociali, tra i sentimenti e l’obbedienza familiare, in particolare ad un padre che si oppone ad un matrimonio d’amore perché manca il requisito fondamentale, ovvero la sicurezza economica e perché il ragazzo non gli piace e dato che può, allora impone la sua autorità.
Eppure la riprendeva, nella monotonia dell’abitudine, nella inenarrabile monotonia della vita femminile, trascinando di camera in camera la sua tristezza, meravigliata di trovarsi passiva in tanto dolore.
Che cosa poteva fare? Ribellarsi al padre, far morire di cruccio quell’angelo della mamma, rompere tutte le tradizioni della famiglia, mancare ai doveri di figlia ubbidiente e sottomessa?
La schiavitù la cingeva da ogni lato. Affetto, consuetudine, religione, società, esempi, ciascuno le imponeva il proprio laccio, vedeva la felicità e non poteva raggiungerla. Era libera forse? Una fanciulla non è mai libera non le si concede nemmeno la libertà di mostrare le sue sofferenze. Ella doveva fingere colla madre per amore, col padre per timore, colle sorelle per vergogna.
A tutto questo bisogna aggiungere che il romanzo è ambientato in una realtà provinciale, dove c’è sempre qualcuno nascosto dietro le tende intento a spiare, dove niente sfugge ai mille occhi che osservano, dove c’è sempre un prete ipocrita e un po’ troppo zelante, pronto a far arrivare alle orecchie del padre padrone il resoconto della disubbidienza della figlia e dove ci si ritrova continuamente un dito puntato addosso, insomma dove la libertà è sempre negletta.
La zia Rosa, nella placidezza serena di una vita di pianta, conservava un po’ della bellezza statuaria che l’aveva gettata a diciotto anni nelle braccia di un uomo – senza che né l’uno né l’altra si amassero, perché lui aveva bisogno di trovar moglie per accudire al negozio, e lei era una ragazza da marito.
Neera critica queste consuetudini e la sua eroina, pur senza compiere gesti eclatanti non accetterà un matrimonio di convenienza, continuerà a coltivare il suo amore per Egidio e a macerarsi tanto che le sue sofferenze quotidiane troveranno sfogo in una nevrosi maniaco-depressiva che la minerà dentro, ma anche nel fisico. E tuttavia non si piegherà.
Quale infame ingiustizia pesa dunque ancora sulla nostra società, che si chiama incivilita, se una fanciulla deve scegliere tra il ridicolo della verginità e la vergogna del matrimonio di convenienza?
Si sorprende Neera che una società che si definisce civile possa costringere una donna a scegliere tra la verginità o il matrimonio di convenienza, certo viene da sorridere amaramente pensando che questa è solo una goccia nell’oceano, considerato tutto quello che le donne sono costrette a subire nel mondo quotidianamente, come se fosse normale: stupri semplici, stupri di massa, stupri di guerra, lanci di acido, burqa, infibulazione, bastonate, umiliazioni, diritti negati, ecc. ecc.
Il racconto della vita di Teresa parte da quando è ancora una ragazzina e già viene assunta come seconda mamma per l’ultima arrivata in casa Caccia e prosegue lento, soffermandosi tra i vari passaggi dall’adolescenza fino all’età adulta. Pur non avendo alcuna caratteristica peculiare, non è particolarmente bella, né particolarmente colta, né particolarmente brillante e intelligente, tuttavia è in grado di prendere coscienza di sé stessa, di delineare una propria individualità, riuscendo così a non abbandonarsi al ruolo che una legge esterna le impone e che la rende socialmente attiva solo in correlazione ad un uomo, mentre in caso contrario diventerebbe reietta, malata, un po’ matta e pericolosa.
Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino, – un destino ch’ella non era libera di dirigere – che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta, ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima.
Teresa insieme a tutta la famiglia si era dovuta piegare alle esigenze di utilizzare le risorse economiche a vantaggio del fratello, essendo l’unico maschio, l’erede del nome e delle sostanze, era lui che doveva studiare, che poi fosse poco dotato intellettualmente mentre le sue sorelle avrebbero potuto avere più successo di lui negli studi, non aveva nessuna importanza. Teresa riuscirà alla fine a portare avanti i suoi intenti, ma a che prezzo? E ne sarà valsa veramente la pena? Tutto quello di cui si rende conto l’eroina è il pensiero dell’autrice, che malgrado la sua grande fortuna di potere accedere a un campo normalmente riservato agli uomini e di potere scrivere a suo piacimento, ha voluto regalare alla protagonista, meno fortunata, dopo una vita da vittima perfetta, obbediente e lavoratrice instancabile, un piccolo-enorme sprazzo di libertà, un diritto che chiunque dovrebbe avere, quello di potere decidere della propria vita.
Ebbene, dirai ai zelanti che ho pagato con tutta la vita questo momento di libertà. È abbastanza caro, nevvero?