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Marceline Desbordes-Valmore

Marceline Desbordes-ValmoreMarceline Desbordes-Valmore (Douai 1786- Paris 1859) poetessa e scrittrice, ma anche attrice e cantante per necessità, anziché assecondare il proprio destino, che avrebbe voluto piegarla e spezzarla sotto la furia di un vento inarrestabile di avversità, al contrario lo usa per incoraggiare le proprie inclinazioni artistiche, proponendo così una coraggiosa voce di donna anticonformista che si occupa in particolare delle frange più emarginate della società e che si dedica anche alla scrittura di versi politici. Emancipata e intraprendente, è costretta a darsi da fare fin da giovanissima, la sua famiglia cade in rovina dopo la Rivoluzione e una infinita serie di lutti e di traversie la mettono alla prova di continuo. Comincerà a recitare proprio per racimolare i soldi necessari per partire per la Guadalupa, dove un parente della madre aveva fatto fortuna, ma più che recuperare il denaro occorrente, patirà due anni di spostamenti continui, di stenti e di maltrattamenti. Alla fine, tuttavia, le due donne riusciranno a raggiungere le Antille, ma purtroppo proprio dopo la rivolta degli schiavi e il conseguente massacro dei coloni, compreso quello del cugino. Come se non bastasse si diffuse un’epidemia di febbre gialla che portò alla morte la madre e a Marceline non rimase altro da fare che provare a rientrare in Francia. Dopo mesi di tentativi vani riesce finalmente ad imbarcarsi su un mercantile, ma il viaggio non fu affatto tranquillo, oltre agli attacchi del capitano, rozzo e alcolizzato, parteciperà infatti ad un’avventurosa traversata durante la quale non mancherà nemmeno una tempesta spaventosa, con onde altissime e la continua possibilità di naufragare.

Fu apprezzata da poeti del calibro di Lamartine, Béranger, Vigny, Baudelaire, Rimbaud e Paul Verlaine, che oltre a dedicarle un intero capitolo all’interno del suo testo più famoso, Les poètes maudits, dichiarerà: Noi proclamiamo, a voce alta e chiara che Madame Desbordes-Valmore è semplicemente l’unica donna di genio e di talento, di questo e di ogni secolo… (Œuvres en prose complètes, Gallimard, collection « La Pléiade », 1972, p. 678). In particolare Verlaine, sul Figaro dell’8 agosto 1884 dirà: C’è un suo verso che mi sembra il più straordinario della nostra lingua o di ogni lingua umana:

seminai la mia gioia in cima ad una canna

Si può trovare un luogo meno riparato, meno sicuro, più oscillante ed esposto alle intemperie, su cui costruire la propria felicità? C’è una volontà nell’incapacità di essere felici? Nel crudele eppure sublime gioco dell’introspezione, quando a forza di scandagliare, sondare, cercare di comprendere, forse non compiamo che un’opera di lenta desquamazione, uno sfogliare continuo che conduca alla pelle originaria, alla purezza di un tempo remoto, non contaminato dalla cosiddetta vita reale, affinché possiamo sostare in quel limbo senza tempo, senza tensioni, in cui non dobbiamo dire più niente a nessuno, in cui possiamo semplicemente galleggiare, sospinti da un’onda leggera, senza meta, senza sogni, in un silenzio ovattato che ci riporta alle acque rassicuranti del grembo materno, dove la vita è soltanto un mormorio e la luce l’intuizione di un riverbero.

Nel 1808, a ventidue anni, aveva già pubblicato i suoi versi su alcune riviste, Hugo si accorse subito di lei, ne rimase affascinato, e diventò uno dei suoi amici più cari.

Anima mia, librati su questa folla ignara,

libero uccello immergiti nel cielo spalancato.

Vai a vedere! E torna dopo avere toccato

il sogno… il mio bel sogno che questa terra ignora.

 /

Quanto a me, sia silenzio, ne va della mia vita.

Mi chiudo dove nulla, più nulla mi ha seguita.

E dal mio nido stretto, che tace il suo lamento,

di fianco alla mia sorte fluire il mondo sento,

 /

quel secolo che fugge ruggendo a queste porte

e via con sé trascina, simili ad alghe morte,

nomi cruenti e voti e vani giuramenti

e puri fiori in treccia con nomi dolci e ardenti.

 /

Anima mia, librati su questa folla ignara,

libero uccello immergiti nel cielo spalancato.

Vai a vedere! E torna dopo avere toccato

il sogno… il mio bel sogno che questa terra ignora.

(Maria Luisa Spaziani, Donne in poesia)

 

Nel 1817 sposa l’attore Prosper Lanchantin, detto Valmore, anche se il vero amore della sua vita fu Henri de Latouche, a parere di molti suo amante per ben 30 anni, anche se andava e veniva di continuo e spesso spariva per lungo tempo senza dare notizie di sé. Lo si ritrova in numerose poesie con il nome di Olivier, in particolare nelle raccolte Elegie (1819), Poesie (1820), Pianti (1833), Poveri fiori (1839), Preghiere (1843).

Taci, sorella, ché il passato brucia.

Taci il suo nome, ché il suo nome è lui.

Ostinarsi sui beni perduti

è come andar con l’onda che ripiega.

 /

Quel nome che mi è ardore e mi è dolcezza,

quel nome, quando appena ora mi tocca,

come un fuoco mi avvampa nella bocca.

Sorella, non parlare.

(Maria Luisa Spaziani, Donne in poesia)

 

La povertà fu una costante di tutta la sua vita. Malgrado l’indulgenza di Valmore e il suo affetto per lei, dopo una decina d’anni di matrimonio il talento artistico dell’uomo declina sempre più e lei, per non abbandonarlo è costretta a rinunciare a parti importanti e perfino a supplicare il suo editore per avere una mano d’aiuto, anche perché le continue malattie dei figli richiedono ulteriori spese.

Mia cara Pauline, se penso alle due figure centrali della mia vita, ai due pilastri del mio povero tempio, penso a te e a Valmore. Nessun altro mi è stato vicino, e dopo il 1843, dopo l’ultimo mio libro accettato da un editore senza dover insistere e supplicare, “Preghiere”, la mia vita non è stata che miseria, dolore, lutti e delusioni. Odio i traslochi a cui mi ha sempre costretto la mia vita difficile ed errabonda, verso case sempre più povere e scomode, al quarto o al quinto piano dove appunto vivono i poveri. La lotta per procurarmi denaro non ha smesso un giorno. Per tutta la mia vita. È duro, a settant’anni, fare cinque piani con le borse della spesa. Mi aiuta un fatto ben strano: nonostante le terribili esperienze continuo a pensare che una risoluzione ci sia, che i tempi cambieranno. Ma mi contraddico e piango. Sono come quelle creature impacciate nei movimenti, legate da qualche incantesimo, che sentono il suono della diligenza che sta per partire e che se la vedono sfilare via sotto gli occhi senza riuscire a salirci.

(Maria Luisa Spaziani, Donne in poesia)

Tutti i suoi cinque figli morirono quando lei era ancora viva, soltanto uno, Hippolyte, le sopravvisse e le fu talmente legato da rinunciare addirittura a sposarsi. Tormentata per tutta la vita da problemi materiali, turbamenti sentimentali e continue perdite di persone amate, Marceline riversò il dolore che la devastava in un’abbondante produzione poetica, completata da novelle, racconti per bambini e romanzi. A partire dal 1825 circa, abbandonò le scene per dedicarsi unicamente alla scrittura i cui temi saranno, oltre al classico amore romantico, anche altri meno sfruttati: handicappati, infermi, poveri, carcerati (L’esclave, Le banni, Un pauvre, Dans la rue, Le mendiant…) e l’inevitabile voce della morte e dell’assenza.

Les femmes, je le sais, ne doivent pas écrire ; / J’écris pourtant

(Le donne, lo so, non devono scrivere, tuttavia io scrivo)

Ha scritto ben 25.000 versi, un migliaio di pagine di prosa e più di 3.000 lettere. A proposito del suo stile, Marc Bertrand, uno dei maggiori studiosi di Marceline ha detto: Diciamo subito che il suo stile non è tradizionale. Non è andata a scuola e non ha studiato la retorica. Direi più che altro che è creativo, cioè al tempo stesso innovativo e soprattutto indipendente. Marceline è fra i primi autori a tenere in considerazione la sonorità delle parole.

Marceline aveva già fecondato la fantasia di Baudelaire scoprendo, lei, le famose corrispondenze, osando, contro ogni logica, dire che il verde è acido, che il silenzio è verde, che l’azzurro è caldo. La sua nuova sensibilità apre una strada importantissima, che porterà fino a Proust e oltre.

(Maria Luisa Spaziani, Donne in poesia)

Tutto questo però non è stato sufficiente a renderla famosa attraverso i secoli, mantenendone vivo il ricordo. Essere donna, se da un lato ha reso più facile farla cadere nell’oblio, d’altra parte le ha concesso la libertà di osare. Partendo dunque da una posizione di inferiorità si è sottratta più facilmente alle ferree leggi che la metrica e la retorica dell’epoca imponevano, cosa che le ha permesso di creare una poesia innovativa, più attenta alla musicalità e ai contenuti.

foto di Nadar 1854Marceline, muore nel 1859 a 73 anni a causa di un cancro che l’aveva colpita tre anni prima, con lei si spegne la voce di una donna che era riuscita a raggiungere il massimo grado di espressività lirica, che fece da precursore ai maestri della poesia francese moderna e che, per usare le parole di Baudelaire, di qualunque argomento scrivesse, il suo canto conservava sempre l’accento delizioso dell’eterno femminino: niente cose orecchiate, niente ornamenti fittizi. Perché Marceline è stata una donna, sempre e assolutamente una donna, e in tutte le bellezze naturali della donna ha raggiunto un grado straordinario di espressione poetica.

Maria Luisa Spaziani ha tradotto Marceline Desbordes-Valmore in Liriche d’amore (Gallino), di più recente pubblicazione è il contributo di Danilo Vicca, Marceline Desbordes-Valmore. Poesie (Aracne). Qui di seguito propongo due esempi di impressionante modernità, due poesie tradotte letteralmente, senza pretese, proprio per mettere in evidenza la potenza della sua voce:

Les roses de Saadi

J’ai voulu ce matin te rapporter des roses ;
Mais j’en avais tant pris dans mes ceintures closes
Que les nœuds trop serrés n’ont pu les contenir.

Les nœuds ont éclaté. Les roses envolées
Dans le vent, à la mer s’en sont toutes allées.
Elles ont suivi l’eau pour ne plus revenir ;

La vague en a paru rouge et comme enflammée.
Ce soir, ma robe encore en est tout embaumée…
Respires-en sur moi l’odorant souvenir.

(poésies inédites, 1860)

Le rose di Saadi

Stamattina volevo portarti delle rose
ma ne ho messe così tante nel mio corsetto
che i lacci troppo stretti non hanno potuto trattenerle.

I nastri sono saltati. Le rose sono volate via
nel vento, e sono giunte tutte al mare.
Hanno seguito la corrente per non ritornare più;

l’onda appariva rossa, come se fosse in fiamme.
Stasera il mio vestito ne conserva ancora il profumo…
Respirane su di me l’odoroso ricordo.

(Poésies inédites, 1860)

Dors !

L’orage de tes jours a passé sur ma vie ;
J’ai plié sous ton sort, j’ai pleuré de tes pleurs ;
Où ton âme a monté mon âme l’a suivie ;
Pour aider tes chagrins, j’en ai fait mes douleurs.

Mais, que peut l’amitié ? l’amour prend toute une âme !
Je n’ai rien obtenu ; rien changé ; rien guéri :
L’onde ne verdit plus ce qu’a séché la flamme,
Et le coeur poignardé reste froid et meurtri.

Moi, je ne suis pas morte : allons ! moi, j’aime encore ;
J’écarte devant toi les ombres du chemin :
Comme un pâle reflet descendu de l’aurore,
Moi, j’éclaire tes yeux ; moi, j’échauffe ta main.

Le malade assoupi ne sent pas de la brise
L’haleine ravivante étancher ses sueurs ;
Mais un songe a fléchi la fièvre qui le brise ;
Dors ! ma vie est le songe où Dieu met ses lueurs.

Comme un ange accablé qui n’étend plus ses ailes,
Enferme ses rayons dans sa blanche beauté,
Cache ton auréole aux vives étincelles :
Moi je suis l’humble lampe émue à ton côté.

(Elégies, 1819)

DORMI!

La bufera dei tuoi giorni ha attraversato la mia vita;

mi sono piegata alla tua sorte, ho pianto le tue lacrime;

ovunque la tua anima conducesse la mia, io l’ho seguita;

per alleviare i tuoi dolori, li ho fatti miei.

 

Ma, cosa può fare l’affetto? L’amore ghermisce l’anima intera!

Non ho ottenuto nulla; niente è cambiato; niente guarito:

l’onda non fa più rifiorire quel che la fiamma ha inaridito,

e il cuore pugnalato rimane freddo e straziato.

 

Io non sono morta: su! Io amo ancora;

allontano le ombre dal tuo cammino:

come un pallido riflesso originato dall’aurora,

io illumino i tuoi occhi; io riscaldo la tua mano.

 

Il malato assopito non si accorge della brezza

dell’alito rianimante che gli asciuga il sudore;

ma un sogno ha piegato la febbre che lo spezza;

dormi! La mia vita è il sogno in cui Dio ripone la luce.

 

Come un angelo abbattuto che non spiega più le ali,

imprigiona i raggi nella sua bianca bellezza,

nascondi la tua aureola risplendente:

io sono l’umile lucerna commossa al tuo fianco.

(Elegie, 1819)

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Cristina Bove. Mi hanno detto di Ofelia.

Quasi_volo

un tempo diverso

per camminare astratti

non proprio volare

ma quasi

come essere foglie e pappi

in sentieri di vento

 

appoggiare a mezz’aria

passi senz’orma

vestiti solamente del tacere

 

le parole comprimono l’estasi

intralciano i poeti

li definiscono in cataloghi

 

allora ammutolisco per sentire

e non vendermi agli echi.

Sarò d’ali permesse appena

in tempo

per proseguire a lato di me stessa.

mi hanno detto di ofeliaDall’assenza prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo, fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che offende la Poesia.

Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove, poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.

Appaio

il tempo di far credere che esisto

e poi scompaio

geco fantasma

m’inerpico sui vetri

e dico al vento

amico mio non scuotere

le imposte

respirami profondo, a distaccare.

[…]

Come tutti i precursori, gli sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce, presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).

Si potrebbe obiettare che è un percorso già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio. La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.

Aperture a latere

Il sole non candeggia

la biancheria ammuffita o il seno brullo

né l’ala del cucù

filtra soltanto tra listelli e buchi

disegnato di punti su piastrelle

                            il piatto cede, rifornisce rose.

In deltaplano

funambola in assetto

gioca la mia ragazza dei silenzi

la muta dei ritorni e degli infissi

cardini sottotraccia

                             sa di quella finestra mai richiusa.

Qualora fosse il caso

se le porte sprangate a fil di buio

reggessero per anni

avrebbe almeno via d’uscita

il non ritorno sugli stessi passi…

                              un volo finalmente completato.

Cristina non offre soltanto la voce, ma sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti). E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria, dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa, piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei paesaggi interiori, della memoria.

VERSO il TACERE

Saranno secoli? Attimi che mi giro

a tascapane, a giustacuore, a scudo

e di necessità virtù mi allaccio scarpe

 

camminare dovrò

per la carrozza han già preso la zucca

a me non resta che la mezzanotte

la mia fata madrina s’è distratta.

 

Mi cucio sulla lingua un che di fiato

zenzero e cinnamomo retrogusto

enzima di saliva mordiefuggi

e mi farò bastare ancora il gioco.

 

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio

quello che non sopporta ancora voci

né le cose sospese

quello che non s’inganna con le impronte

di parole calcate nella sabbia.

 

E avrò la colpa d’essere poeta

per abuso di suono.

Ma allora qual è il reale segreto di tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza, essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e senza fine.

[…]

semplice non è mai piegare il tempo

né tantomeno mascherare il dire

m’accompagna il silenzio

presuntuoso

di sussurrargli al cuore.

E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.

[…]

noi venimmo dal tempo

ch’era il mare un ritaglio di cielo

ed esultanze, ignote geometrie

carezzavano addosso.

 

E poi dimenticammo.

 

Adesso veglio – sola – a ricordare.

Quando si crea per necessità, la spinta arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine, nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)

Case abissali

Parole orfane

come lutto del dire

a fluttuare in uno schermo di

cristalli liquidi

 

nascoste nelle mani

al riaffiorare

d’alga di sale plancton

carezza d’ombra

scena depositata sui fondali

 

si tace

quando

si sta toccando l’anima

di spalle.

E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.

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Il libro della sovversione non sospetta. “La banalità non è inoffensiva: rende furiosi”.

La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte.

Uno scritto non è uno specchio. Scrivere è affrontare un volto sconosciuto.

Folle è il mare per non poter morire con una sola onda.

edmond jabesCosì inizia Il libro della sovversione non sospetta, di Edmond Jabès (1912-1991) scrittore naturalizzato francese, nato in Egitto da una famiglia ebrea di origini italiane. All’età di 12 anni un avvenimento tragico, la morte della sorella a causa della tubercolosi, rimarrà in lui come un dolore indelebile, supportato dal ricordo delle ultime parole che lei gli rivolge poco prima di morire: «On n’échappe pas à sa destinée» (non si sfugge al proprio destino). Dopo gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la scoperta di Auschwitz e l’orrore dei campi di concentramento lo sconvolgeranno in profondità. Costretto all’esilio, dopo la crisi del Canale di Suez, nel 1957 si trasferisce a Parigi e qui, inizialmente senza soldi, né nazionalità, né lavoro, imparerà l’esperienza dell’anonimato e prenderà anche coscienza del suo essere ebreo, esperienze che permetteranno al suo percorso poetico di delinearsi nettamente, cadenzato da temi ricorrenti quali, l’esilio, il deserto, l’identità, la scrittura.

Il primo a notare le sue poesie, pubblicate in una rivista letteraria franco-egiziana L’Anthologie mensuelle, fu Max Jacob nel 1931, tra i due inizierà un’intensa corrispondenza che durerà per lunghi anni, a proposito della quale rimane anche la prefazione di Jabès (Préface aux lettres de Max Jacob à Edmond Jabès) pubblicata nel 1945 l’anno successivo alla morte di Jacob.

Forse sovversivo è quel libro che denuncia, dentro la scia d’un pensiero aggredito, la sovversione della parola nei confronti della pagina e della pagina nei confronti della parola, e l’una con l’altra confonde.

In questo senso, fare un libro vuol dire offrire un sostegno alle forze sovversive che attraversano il linguaggio e il silenzio, un sostegno che segua il ritmo delle loro riprese. []

Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura. []

E se la sovversione fosse solo lo scarto tra la cosa creata e la cosa scritta?

Uno stesso abisso separerebbe, allora, l’uomo dall’uomo e il libro dal libro.

Quanti autori si sono cimentati nel tentativo di descrivere e spiegare l’atto creativo? Decodificare la parola? Giungere al suo senso primigenio? Jabès con l’ausilio della poesia, strumento potentissimo del non detto, che aleggia sopra ogni lemma, esplora il pensiero fin dalle origini e tenta di tracciare una mappa ricca di riferimenti e allusioni che toccano tutte le sfere del sapere fino ad un prima del tempo che esclude perfino Dio, un Dio che viene creato dal Libro.

Tutto dimorava nell’attesa di Dio.

Così la Creazione venne prima del Creatore.

così Dio anticipò Dio nell’Idea di Dio.

Tutto dimorava nell’attesa del Nulla e il Nulla precedette l’attesa.

Dio è per aver risposto alla domanda: Sei tu?

Se l’esistenza di Dio fosse posteriore a quella dell’uomo, nulla ci impedirebbe di pensare che il niente avrebbe avuto una voce più antica di quella del mondo, e il deserto avrebbe avuto, nella sua relazione con il vuoto, una parola, prima ancora che la luce sferzasse le tenebre.

Voce del mare soffocata. Voce della sabbia sommersa.

Ciò che importa è sempre la domanda, un succedersi di domande, è lì il lampo dell’intuizione, non nella risposta, anzi la risposta riporta indietro, oscura quel fulmine, vanifica la domanda.

L’interrogazione crea. La risposta uccide.

il libro della sovversioneLa sovversione è in atto, è atto stesso di parola e si sa, come ogni cosa contiene anche il suo contrario, anche la parola non fa che sovvertire il proprio significato. È come la sabbia del deserto che non avendo forma può assumere qualsiasi configurazione, essere e non essere al tempo stesso, ferma eppure in movimento a ricordarci che non siamo nulla di quel che la materia ci illude, né dobbiamo o possiamo fermarci in una fissità di morte, ma semplicemente scorrere, come fa la sabbia che si vorrebbe trattenere in una mano.

Si legge soltanto e sempre quel che manca alla lettura totale della parola.

Sicché ogni volta si è portati a intraprendere d’essa una lettura differente.

Jabès vuole ricostruire il Libro, per lui Libro e Scrittura coincidono. I riferimenti al Libro sacro dell’ebraismo non mancano, ma la sua è una religiosità molto personalizzata, ri-creata, poiché la scrittura va oltre tutto. La parola si colloca in un continuum che contiene vita e morte, quindi è, sempre.

L’opera non è mai compiuta. Essa ci lascia nell’incompiuto, nel cui spazio moriamo. Quel che ci rimane è solo la sua parte bianca, e non si tratta di utilizzarla, ma solo di tollerarla. Lì dobbiamo installarci.

Accettare il vuoto, il nulla, il bianco. Tutto quel che creiamo è dietro di noi.

Oggi io sono, di nuovo, in quel bianco: senza lingua, senza gesti, senza parole.

Quel che ancora è da compiere si presenta volentieri come compiuto: il deserto, dove l’impotenza ci risospinge.

La parola di Jabès è sempre intensa, carica di una potenzialità che solo il lettore può fare implodere dentro di sé. La vita si confonde con la morte, la pagina bianca contiene il maggior numero di frasi, il silenzio è la voce più eloquente, nell’assenza si coglie la presenza, in tutti questi paradossi apparenti e perfino scontati c’è la chiave di comprensione più semplice per noi, quella che abbiamo tutti e sempre davanti agli occhi, la struttura stessa del nostro essere: siamo divisi in due e una metà non può capire nulla senza l’altra. A partire dai lobi del nostro cervello, ogni cosa per la nostra mente ha un senso solo in relazione al suo opposto.

A questo punto anche l’indicibile si può dire attraverso il dicibile.

Se l’ombra è un’interrogazione alla luce, essa è anche un’interrogazione all’ombra; se la luce è una risposta all’ombra, essa è anche una risposta alla luce. Oh! Anello dentro l’anello!

Se Dio fosse l’Uno, Egli sarebbe doppio, dal momento che l’unico non è altro che l’impensato dell’Uno, il quale, non appena pensato, cessa di essere unico.

La sua opera appare frantumata, sgretolata da un passato di dolore, quasi come se volesse dire per immagini e frasi lapidarie la diaspora così tristemente nota agli ebrei. Di cammino in cammino, di frase in frase non si deve mai arrivare perché il Luogo è il non-luogo, riparo ambito del non-detto.

Il niente è il luogo eterno del nostro esilio: l’esilio dal Luogo.

Il gesto di scrivere è un gesto solitario dice il poeta, ma la stessa solitudine è una creazione di chi scrive, ogni catena che l’uomo si impone è una sua scelta precisa, altrimenti non potrebbe esistere e la solitudine è nella parola stessa che la anticipa e poi la designa. Pertanto il libro è prima intuito e soltanto dopo lo si può costruire attorno al suo vuoto.

La scrittura è una scommessa con la solitudine. Flusso e riflusso della non-quiete. Essa è pure riflesso d’una realtà riflessa, colta nella sua rinascita, una realtà della quale andiamo costruendo l’immagine, nel cuore dei nostri desideri confusi, nel cuore dei nostri dubbi.

Tutta la sua scrittura si basa su ciò che manca, sull’ombra, sulla parte invisibile che permette la concretizzazione dell’esistenza. Ma come posso permettere senza avere già un’esistenza? Si tratta di un continuo inseguirsi e oltrepassarsi, una sorta di condanna d’eternità.

Dinanzi a una rosa ci comportiamo in modo incomprensibile.

Conquistati dalla sua bellezza, con un gesto di meraviglia, le togliamo la vita.

Scrivere è rinnovare su di sé quel gesto.

Quel che muore in noi può morire soltanto insieme con noi.

Il libro è forse il quotidiano far parte di tutte queste morti.

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