Jacques Mercanton (1910-1996) insegnante, scrittore, saggista svizzero, con il libro Le ore di James Joyce (1988), ha lasciato un emozionante ricordo dello scrittore, in particolare dei suoi ultimi due anni di vita. Si incontrarono per la prima volta a Parigi nel 1935 in occasione della stesura di un saggio sull’Ulisse da parte di Mercanton e da quel momento fra i due ebbe inizio una confidenza che si sarebbe conclusa soltanto alla morte di James Joyce (1882-1941).
Non si tratta di una classica biografia, ma di spaccati di vita, di ricordi, di conversazioni, di momenti che vengono scolpiti nella memoria e lasciano un’immagine diversa dell’artista rispetto a quella alla quale siamo abituati. Come sottolinea lo stesso Mercanton nella prefazione, qui si delinea: un ritratto fedele, ed è il suo unico merito. Non ho risistemato niente, non ho accentuato niente, non ho sintetizzato niente: qui ci sono i momenti o le ore dello scrittore in vacanza e al lavoro. Le parole che gli ho fatto dire sono quelle che ha davvero detto.
La quotidianità più banale entra nell’indagine biografica con grande naturalezza, così nella descrizione di una passeggiata, irrompe una delle sue tante idiosincrasie, la paura dei tuoni, che a quanto pare risaliva all’infanzia, a quando una zia molto devota lo aveva convinto che i tuoni fossero l’espressione dell’ira di Dio:
Poco dopo faremo quattro passi nel parco del Mon Repos, dove il fracasso di un albero che stanno abbattendo gli sembrerà il rombo di un tuono. Terrorizzato, farà dietro-front, trascinandomi nel suo movimento, e avrò un bell’indicare il cielo azzurro e la calma dell’atmosfera; torneremo comunque a metterci al riparo nella hall dell’albergo.
O la fobia dei cani, dopo che era stato morso da ragazzo, tutti episodi facilmente risolvibili, ma che in lui diventarono parte integrante del personaggio e dell’uomo Joyce. E ancora un accenno agli studi compiuti in un collegio gestito dai gesuiti e la sua abilità nel canto che lo aveva indotto a contemplare l’idea di farne la sua attività principale. E poi il dolore per la lontananza del figlio e per l’amata figlia, Lucia, chiusa in un istituto dopo avere manifestato i sintomi della schizofrenia e innalzata al ruolo di musa ispiratrice di Finnegans wake.
Descrive a sua volta il fascino e la grazia di sua figlia Lucia, con straordinario amore, mima con la stessa grazia la maniera in cui giocava con delle arance, il giorno della sua festa, prima di ammalarsi, in una sorta di danza misteriosa, la cui immagine lo turba ancora.
In alcune pagine ci sono delle istantanee che ritraggono lo scrittore in momenti particolari che una biografia tradizionale normalmente non può registrare:
A Vévey mi chiede di portarlo fino al piccolo fiume, la Véveyse, che contempla a lungo, chino, il cappello calato sugli occhi, in quella strana fantasticheria che è la sua, senza riposo, senza gioia, anzi, al contrario, ansiosa e come segretamente agitata. Al tavolino del tè resta muto, a testa bassa, curvo, bocca aperta, gli occhi vaghi, con una tristezza ironica, non nei confronti degli uomini, e nemmeno delle cose, ma dell’ordine delle cose, di quello che lui chiama, usando la parola in senso etimologico, “il carattere idiota dell’universo”.
Quanto avranno influito nella scrittura di Joyce i seri problemi di vista che lo affliggevano? Di certo la semi-cecità lo avrà spinto ad attribuire un’importanza fondamentale al sogno, tanto che nella sua ultima opera la storia si svolge proprio all’interno del sogno di un personaggio, forse perché quello era l’unico spazio in cui si ritrovava integro, in grado di collocare forme e colori, di individuare volti e figure e al tempo stesso di reinventarli facendo confluire dentro di sé e poi trasferendola su carta l’unica verità possibile per lui, ma con il rigore della serietà, dell’integrità dell’uomo-artista.
Si preoccupa dell’obiezione fondamentale che può venir fatta: di avere tradotto in impressioni uditive le immagini del sogno, che appartengono alla vista. Ma, dice, sarei stato costretto a una lentezza spaventosa. E cita le descrizioni di Flaubert o di Walter Scott, che, mal sostenute dal ritmo del testo, finiscono per non far più vedere assolutamente niente. Questo genere di trasposizioni, gli dico, è l’essenza stessa dell’arte, che non si occupa d’altro che dell’effetto da ottenere. D’altra parte, nei sogni si ascolta più di quanto si creda, più di quanto spesso ci si ricordi; e io gli confermo i miei sogni più belli sono sogni musicali. Si stupisce: il suo amore per la musica, soprattutto, soprattutto per il canto, non gli fa questo regalo. Mentre, pur vedendo così male nella vita diurna, ha delle visioni estremamente precise e complete nei sogni. Ma l’idea della trasposizione necessaria come mezzo dell’arte sembra convincerlo.
La sperimentazione di cui Joyce si fa portavoce era necessariamente legata ad una purezza dello sguardo che doveva espandersi in dimensioni ancora inesplorate dalla scrittura. Ad affrontare, scardinare e quindi superare le classiche strutture sintattiche per proporre un mondo totalmente nuovo non poteva che essere la voce di un uomo chiamato a compiere una missione fondamentale, quella di mostrare che niente è come sembra, che sotto la superficie più semplice, o che ci sembra tale, si nascondono infinite possibilità. Così i personaggi di Joyce si trovano a dover scandagliare i molteplici livelli del linguaggio, a superare le coordinate spazio-temporali, a vivere un presente che è anche passato e futuro, a riversare sul lettore tutte le sensazioni, i ricordi, i sentimenti che vivono in un continuo incrociarsi di differenti piani temporali.
La stessa esigenza di verità rigorosa, di sottomissione al dato, di ortodossia, come ha dimostrato T.S. Eliot, si imponeva alla sua arte così come al suo modo di vedere la vita. Ecco perché l’arte poteva diventare senza danno la sua sola morale: l’uomo restava intatto. Questo grande virtuoso del linguaggio, padrone di tutte le astuzie e le sottigliezze della sua arte, era un uomo sincero, nel senso quasi assoluto che, per definire una persona, egli dava a questa modestissima parola. Sincera la sua totale, terribile volontà di espressione, fin nella enormità di Ulisse. Ma sincera anche quella voce intensa e riservata che, sempre riconoscibile, attraversa tutta la sua opera. C’è un timbro di Joyce che non somiglia a nessun altro, misteriosa bellezza morale di questo universo di rappresentazione pura. Più di quanto non abbia voluto, l’artista resta immanente alla sua creazione: essa ha i tratti del suo volto.
Distogliere Joyce dalla sua opera a quanto pare era impresa vana, d’altra parte era anche l’unico modo per renderlo partecipe, rivitalizzare una conversazione che languiva o contrastare una tendenza all’estraniamento che coglie un po’ tutti i pensatori svagati dal troppo pensare, sospesi in quella apparente distrazione dell’attenzione.
Risuscitato da questa attività che è tutta la sua vita, mi fa vedere come procede, cercando la concentrazione più intensa, più ricca di significati multipli, più adatta a condensare in una frase, in poche parole, in una sola a volte, tutto lo spazio e la durata di avvenimenti vasti e leggeri, ma sempre attento ad ubbidire alle leggi fonetiche e ai fenomeni semantici delle lingue che combina, giacché questa è la sua sola garanzia di verità. Tanto sembrava distratto, solitario, svagato, nel corso della giornata, tanto appare ora vigile, lo spirito teso, o sguardo che trafigge la grossa lente che usa per rileggere le sue note.
La stesura del suo ultimo lavoro richiese un tempo lunghissimo, ben diciassette anni, durante i quali Joyce mantenne segreto il titolo del libro, e i brani pubblicati nelle varie riviste letterarie portavano il nome Work in progress (lavori in corso). Solo alla fine del viaggio Joyce disse che il titolo sarebbe stato Finnegans wake, nome che deriva da una ballata popolare irlandese, Finnegan’s wake, dove si narra della caduta mortale del muratore Tim Finnegan e della veglia funebre che ne segue. L’eccesso di bevande fa scoppiare una rissa e l’odore dell’alcool che si sparge nell’aria fa risvegliare il defunto. Nel titolo Joyce toglie l’apostrofo del genitivo sassone estendendo così il risveglio a tutti i Finnegan del mondo, il gioco tra wake, veglia funebre e wake up, svegliarsi, è esplicito.
C’è sempre molta ironia nella vita se si presta la giusta attenzione, così, dopo anni di torpore, il risveglio di Finnegan coincide giusto con il precipitare del mondo nell’oscurità della guerra, nell’orrore del nazismo. Malgrado sia stato tacciato di indifferenza e anche di pensare al suo lavoro piuttosto che alla catastrofe imminente, in verità Joyce vedeva bene cosa stava accadendo, tanto che si preoccupò di mettere in salvo molti amici ebrei. Del resto, dopo tutti quegli anni dedicati alla stesura di un’opera a dir poco avveniristica, si può ben comprendere la tensione che lo attraversava e come il timore di non poterla vedere pubblicata lo potesse affliggere.
Inutile rievocare quell’autunno del 1938: l’Europa era sull’orlo del baratro. Joyce vedeva con nervosismo la minaccia della guerra che incombeva sulla pubblicazione ormai prossima del suo libro. Indifferenza all’avvenimento, come qualcuno ha preteso? Forse, come tutti noi, anche lui pensava a quello che aveva da salvare.
Quello fu un periodo frenetico e molto difficile. La Francia era stata occupata e lui voleva sistemare la figlia e la sua famiglia in Svizzera. Ma non fu un’impresa facile, le pastoie della burocrazia riescono ad impantanare chiunque, e Joyce e il figlio non avevano usufruito del passaporto irlandese che spettava loro di diritto, ma avevano mantenuto quello inglese, ovvero di uno dei paesi belligeranti, eppure, tra i vari ostacoli ve ne fu uno ben più grottesco: Le autorità svizzere poi ne inventarono un altro, alquanto inatteso, prendendo Joyce per ebreo, come mi scrisse incredulo; lo confondevano con Leopold Bloom, il personaggio principale dell’Ulisse.
Non è il caso di citare qui la frettolosa corrispondenza che ci scambiammo negli ultimi mesi di quel terribile anno. Forse però va detto come in mezzo ai disagi, alle ansie e le preoccupazioni che lo tormentavano, Joyce restasse energico, calmo, padrone di sé e dei suoi progetti. Al di là di certe apparenze, dovute al nervosismo e alla stanchezza, mi sembrò altrettanto lucido, sobrio e rigoroso in questa attività pratica quanto lo avevo visto nel suo lavoro. Il Joyce distratto, perso dietro alle chimere, maniacale, è una leggenda, alla quale talvolta egli si prestava. Ma come tutti i grandi artisti sapeva distinguere perfettamente l’arte dalla vita. È vero che quella era un’epoca istruttiva sotto questo aspetto. E se, in mezzo a una simile prova, trovava il tempo di segnalarmi un articolo o di domandarmi un nuovo libro su Vico di cui aveva letto l’annuncio, ebbene, questo era il segno del suo ammirevole equilibrio.
L’ultima immagine di Joyce che rimane nella memoria di Mercanton risale al dicembre del 1940, quando finalmente riesce a raggiungere la Svizzera dopo avere superato tutti i problemi burocratici che lo avevano afflitto. È una sorta di premonizione, un’immagine che porta con sé un futuro prossimo, sia a livello personale, poiché Joyce morirà il 13 gennaio 1941, sia per il precipitare degli eventi che segneranno la storia dell’Europa con il marchio indelebile dell’olocausto.
Rivedo ancora la sua sagoma snella sulla banchina della stazione, nell’ombra di quel crepuscolo invernale, il volto pallidissimo, invecchiato, segnato dalla fatica di quei giorni. Avanzava al braccio di sua moglie come un cieco, in mezzo alla folla, che dominava con la sua altezza, il cappello abbassato sugli occhi, il bastone in bilico al polso, ancora una volta così solo sulla terra. E quella sera mi sembrò che arrivasse da molto più lontano che da quella Francia così vicina, e tuttavia separata, da molto più lontano, anche, che dalla sua Irlanda natale, alla frontiera dei mari. Last trade overseas. Entrava nell’esilio eterno.