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Il Consiglio d’Egitto. “La menzogna è più forte della verità”.

Quale posto occupano ragione e verità nel mondo? O meglio quale posto devono occupare? Certamente il posto che la storia manipola per loro. Sappiamo tutti di vivere in un mondo di ipocrita finzione, ornata di pensiero filosofico o religioso, di impeto patriottico, di orgoglioso furore in nome dell’onore. Ma cosa sappiamo veramente di questi bei concetti se non quello che l’onda del momento comanda? Altrimenti perché ciò che è vero oggi domani risulterà ignobile menzogna? E perché se si muore da perseguitati per certe idee adesso, domani poi si diventerà eroi, precursori, martiri?

La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita.

copertinaIl Consiglio d’Egitto (1963) di Leonardo Sciascia, racconta del creativo imbroglio filologico, letterario e sociale di don Giuseppe Vella che, in occasione del fortunoso arrivo a Palermo dell’ambasciatore del Marocco, Abdallah Mohamed ben Olman, vede e coglie la possibilità di cambiare la propria vita assurgendo ai vertici della società, che fino a quel momento lo aveva snobbato. Non essendoci in città esperti di arabo, il viceré chiama il cappellano dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, Giuseppe Vella appunto, che a quanto pare è l’unico a poter fare da interprete e quindi a potersi occupare dell’ambasciatore durante il suo soggiorno a Palermo. Vella, che fino a quel momento è vissuto di espedienti, tra i quali anche dell’attività di smorfiatore di sogni, convocato insieme all’ambasciatore per prendere visione di un codice arabo conservato nel monastero di San Martino, finge, malgrado il dignitario riveli subito che si tratta di una delle tante vite di Maometto, che sia invece un manoscritto dove si racconta della conquista della Sicilia. Siamo nel dicembre del 1782 e grazie ad una società superficiale e ottusa, intenta a perseguire solo i propri interessi, dall’ansia di perdere certe gioie appena gustate, dall’innata avarizia, dall’oscuro disprezzo per i propri simili, prontamente cogliendo l’occasione che la sorte gli offriva, con grave ma lucido azzardo, Giuseppe Vella si fece protagonista della grande impostura.

L’altro protagonista del libro è l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, illuminista, rappresentante della ragione e seguace delle iniziative giacobine, convinto sostenitore delle idee di uguaglianza tra gli uomini. Complotta contro il vecchio ordine a favore della repubblica pagando un prezzo altissimo per le proprie convinzioni.

Guardando dalla platea, Di Blasi credeva di scorgere, sotto le alterne apparenze di noia e ironia, la profonda malinconia di quell’uomo. Acutissima, pensava il giovane avvocato, doveva essere in un uomo simile la coscienza della sconfitta e della morte [] Con la sua mente vigorosa, col suo carattere che da ogni ostacolo, da ogni resistenza, attingeva decisione ed energia, aveva subito attaccato il secolare edificio della feudalità siciliana. E aveva dovuto affrontare l’aperta resistenza della nobiltà, gelosa fino alla cecità dei propri privilegi, e quella ora aperta ora subdola del governo di Napoli, dove come ministro sedeva il siciliano marchese della Sambuca. Quel che era riuscito a fare, stretto in tale condizione, poneva nella storia di Sicilia le premesse di una possibile rivoluzione. Aveva individuato e messo a nudo i punti dolenti, i gangli paralizzati della vita siciliana: e anche se non era riuscito a sanarli o a reciderli, ne lasciava chiara diagnosi alle poche persone effettivamente preoccupate e sinceramente ansiose che nella loro patria il diritto prendesse il luogo dell’arbitrio, che uno Stato ordinato, giusto, civile si sostituisse al privilegio e all’anarchia baronale, al privilegio ecclesiastico.

All’inizio della narrazione era viceré il Caracciolo, un uomo illuminato che desiderava eliminare dalla Sicilia i privilegi baronali e clericali, perciò era inviso a tutti gli uomini di potere, laici od ecclesiastici e a tutti i nobili che lo vedevano come una minaccia costante alle proprie fortune. Per questo si organizzò una magnifica festa in occasione della partenza definitiva del viceré richiamato a Napoli.

E allora don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie!»

Dopo avere impiegato lungo tempo nella “traduzione” del manoscritto intitolato il Consiglio di Sicilia, Vella pensa bene di procurarsi dell’altro materiale con il quale creare di sana pianta il Consiglio d’Egitto, un codice tramite il quale prendeva in mano i diritti delle varie famiglie nobiliari, attribuendo loro magari illustri origini, ma restituendo alla Corona il legale possesso dei feudi, un forte segnale d’allarme per la nobiltà siciliana, che comunque egli si guarda bene dallo scontentare oltre un certo limite.

[] il Vella si improvvisa autore di due codici diplomatici, il Consiglio di Sicilia e quindi il Consiglio d’Egitto, nei quali pubblica il carteggio degli emiri di Sicilia coi principi d’Africa e quello dei principi normanni coi califfi d’Egitto.

Pura invenzione del furbo maltese che, «consapevole che persona alcuna in quella città fosse in grado di conoscere la sua lingua, e di conseguenza di comprendere l’impostura, adultera a suo capriccio codici e monete, creando racconti, descrizioni, storie genealogiche, principi giuridici dai quali sarebbe derivata una convenienza per la corona e che comunque giovassero a mantenerlo in buono stato ed a fargli godere il favore del Re e della nobiltà siciliana, nonché onorificenze, pensioni, abbazie».

(Paolo De Gregorio, Vita di Rosario Gregorio, 1996, Sellerio)

Tra il 1783 e il 1795 l’Europa si interesserà della vicenda dell’abate Vella rendendolo famoso, il suo destino si incrocerà con quello di Di Blasi e alla fine del romanzo (e della storia) Vella verrà scoperto e condannato a 15 anni di reclusione, mentre l’avvocato finirà in carcere, torturato e decapitato, per aver sognato la repubblica siciliana.

Vella e Di Blasi sono i portavoce dell’innovazione, il primo, anche se autore di un’impostura, in realtà non fa che prendersi gioco della stoltezza di chi sta ai vertici della società, mentre il secondo apre la strada ad un cambiamento radicale, ovvero un settore che esige sempre un numeroso esborso di vittime.

«Eh no, questo non è un volgarissimo crimine. Questo è uno di quei fatti che servono a definire una società, un momento storico. In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione, continua finzione e falsificazione della realtà, della storia… ebbene, io vi dico che l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile… Dico di più: l’abate Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine, rovesciandone i termini… Di un crimine che la Sicilia consuma da secoli…»

Il tentativo di smantellare il feudalesimo, il privilegio, radicato nelle abitudini, nella mentalità, in ogni fibra dell’essere, comincia dunque col Caracciolo, prosegue poi con l’inganno del Vella e fallisce definitivamente col sacrificio di Di Blasi.

Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla. Il suo corpo era un contorto tralcio di vite, una vite di dolore: grave di racimoli, incommensurabile. I racimoli di sangue, l’oscuro sangue dell’uomo. [] Il tuo corpo non ha più niente d’umano: è un albero di sangue… Bisognerebbe farla provare ai teologi, ché finalmente capiscano che la tortura è contro Dio, che devasta l’immagine di Dio che è nell’uomo…

Di colpo precipitò in un mare buio, il cuore come un’ala spezzata. Quando riebbe luce, era di nuovo davanti al tavolo dei giudici: i suoi piedi toccavano la terra, l’onda del dolore gli batteva soltanto, ardente e violenta sui polsi.

Amare e bellissime le pagine sulla tortura, una delle tante beffe perpetrate alla ragione e all’intelligenza, eppure, malgrado sia chiaro ad ogni essere pensante che la tortura non può portare alla verità, bensì alla mortificazione dell’essenza stessa di essere individui, di fare parte del consorzio umano, tuttavia la si è applicata per legge e ancora oggi la si applica laddove il diritto è un optional e non ha nemmeno la parvenza d’esistere. Perfino l’abate Vella, per quanto mosso fino a quel momento da meri interessi personali, grazie al sacrificio dell’avvocato si accorge di non essere indifferente a certi destini, di provare simpatia per l’uomo e di avere anche delle idee sulla rivoluzione e sulle varie forme di governo. Insomma nessuna sofferenza è vana, anche se poi, in generale la storia segue sempre le stesse coordinate.

La ferocia delle leggi, l’esistenza della tortura, le atroci esecuzioni di giustizia, di cui una volta era stato perfino spettatore, non avevano mai tubato i suoi sentimenti: li metteva in conto di eventi naturali o, a pensarci bene, li considerava come opera di correzione della natura non dissimile, e altrettanto necessaria, della potatura delle viti e della rimonda degli ulivi. Sapeva che c’era un libro, di un certo Beccaria, contro la tortura, contro la pena di morte: lo sapeva perché monsignor Lopez, proprio in quei giorni ne aveva ordinato il sequestro. E conosceva le idee di Di Blasi in proposito. Ma ci sono tante belle idee che corrono per il mondo; solo che il verso delle cose è un altro, violento e disperato. Ora però, a figurarsi una persona che conosceva, un uomo per il quale aveva stima e affetto, straziato dalla tortura e destinato alla forca, sentiva improvvisamente l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia: lo sentiva come un malessere fisico, come un urto di vomito.

E, malgrado siano trascorsi secoli e tutto l’apparato si sia mascherato d’altra effigie, viviamo tempi poi così diversi? Non abbiamo una classe di impostori privilegiati che vive a spese del cittadino lavoratore onesto? Blaterando di agire per interesse del paese e della collettività? Quando capita di rivedere sketch del passato nei quali i comici criticano il governo, sembra sempre che parlino del momento attuale, ulteriore prova che nel tempo cambia pochissimo, che l’uomo ha sempre la stessa sete di potere e di prevaricazione, mentre libertà, uguaglianza e fraternità rimangono concetti buoni per qualche slogan, campagna elettorale o per i nostalgici, ma nel campo della realtà attuabile equivalgono alla più lontana utopia.

L’analisi di Sciascia è impietosa e i fatti di cui narra sono emblematici, si prestano ad aderire perfettamente ad ogni epoca e a tratteggiare un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione sono sempre destinate a soccombere.

Il Consiglio d’Egitto è anche un film del 2002 diretto da Emidio Greco, con Silvio Orlando e Tommaso Ragno.

 

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Tramonti fatali. A sud del confine, A ovest del sole.

copertinaLa nostra vita è disseminata di porte temporali attraverso le quali tante volte passiamo senza nemmeno rendercene conto, perché la mente è sempre pronta a riordinare le coordinate spazio-temporali nel modo più vicino possibile all’idea di realtà che ci siamo costruiti. Murakami Haruki in A sud del confine, A ovest del sole (1992) mantiene la tradizione che troviamo in tutti i suoi libri, ovvero quella di trasportarci con leggerezza da una dimensione all’altra, con la naturalezza tipica degli eventi quotidiani e senza dare troppe spiegazioni a proposito della stranezza di certi avvenimenti che alla fine rimangono, com’è peculiare della scrittura giapponese, “aperti”, dal momento che è impossibile esaurire tutte le possibilità e dunque fornire una soluzione unica che valga per tutti.

Per noi occidentali è difficoltoso accettare l’idea di un libro che propone misteri che poi non vengono risolti, tuttavia la capacità di Murakami come narratore è tale da lasciare il lettore ugualmente affascinato e perfino arricchito, più che da un libro con domanda e risposta, sia perché il lettore diventa co-creatore e sia perché si viene in contatto con quella parte di noi che è oltre la materia e che in fondo è la nostra componente principale benché spesso ce ne dimentichiamo.

Sono nato il 4 gennaio 1951. Nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare, ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime – «inizio».

Il libro racconta la storia di Hajime, un quarantenne di successo che gestisce due jazz club a Tokio, a partire dall’infanzia segnata dal fatto di essere figlio unico e dall’incontro, a dodici anni, con Shimamoto, anche lei figlia unica e con la quale stabilirà un legame profondo, che si manterrà nel tempo attraverso il ricordo, malgrado i due si separeranno e non si vedranno per più di vent’anni.

Se non fosse piovuto o se io non avessi avuto l’ombrello (cosa possibilissima visto che prima di uscire dall’albergo quel giorno ero stato indeciso se portarmelo o no), non avrei incontrato mia moglie. E se ciò non fosse avvenuto, a quest’ora probabilmente lavorerei ancora nella casa editrice di libri scolastici, e la notte, appoggiato al muro della mia camera, berrei parlando da solo. Quando ci penso mi rendo conto che viviamo in un numero veramente limitato di possibilità.

Il viaggio di Hajime alla ricerca di sé ci mostra un uomo che fino a quel momento della vita aveva limitato le sue possibilità di cambiamento ad una sorta di fatalismo immobile, quello che lascia le persone chiuse in una forma che si adatta ai mutamenti del tempo, ma che nella sostanza non cambia. Man mano che procede però è costretto ad accorgersi che certi avvenimenti di cui ci facciamo carico in verità appartengono al regno di una sorta di casualità voluta. Nel senso che magari siamo noi i motori che portano a una determinata situazione, ma non i creatori della stessa che si sarebbe verificata comunque, affinché un determinato soggetto potesse compiere quell’esperienza.

Certo che il tempo cambia le persone in vari modi. Non so che cosa ci sia stato allora tra te e lei, ma comunque sia andata, tu non hai nessuna colpa. A chi più, a chi meno, è capitato a tutti di avere un’esperienza del genere, perfino a me. Dico sul serio, è successo anche a me. Così vanno le cose a questo mono! La vita di una persona appartiene a quella persona. Non ci si può sostituire a lei e assumersi la responsabilità della sua esistenza.

Benché Hajime avrà dalla vita ciò che desidera, un lavoro che gli piace, una moglie che ama e due bambine deliziose, egli incarna la necessità della ricerca continua, insita nell’uomo, che sente sempre che gli manca qualcosa, quell’assoluto che non può mai raggiungere perché lo cerca nel luogo sbagliato. Hajime crede che il suo assoluto sia Shimamoto e vive creando un vuoto dentro di sé che è il vuoto dell’assenza, ma quando la ritrova e pensa di potere finalmente colmare la propria esistenza, dovrà fare i conti con quanto di artificioso si era insinuato nel ricordo e quanto di distruttivo, oscuro e inafferrabile ci sia nella Shimamoto che rivede. A volte viene perfino il dubbio che la ritrovi davvero nella realtà, sembra appartenere piuttosto ad un mondo di ombre, ad una dimensione differente, che a tratti la risucchia e dalla quale emerge solo per costringere Hajime a riprendere in mano la sua vita.

Conservavo ancora il ricordo vivido di ciò che vidi in fondo alle sue pupille in quel momento: uno spazio buio, duro come il ghiaccio sotterraneo. E c’era nei suoi occhi un silenzio così profondo da assorbire qualsiasi suono e impedirgli di riemergere. Solo silenzio, gelido silenzio.

murakami harukiMetaforicamente è come se Hajime e Shimamoto fossero le due facce della stessa medaglia, in una sorta di mitologia personale, le due metà vengono separate e la vita scorre nel tentativo di ricongiungersi. Quando diventiamo spettatori della nostra vita raccontandocela ci accorgiamo di quante sfaccettature ci appartengano e compongano la superficie apparente che costituisce la nostra storia. A volere ricomporre il tutto, inevitabilmente ci si rende conto di quanto la realtà sia fragile ed effimera, una patina, un fantasma che aleggia senza poter mai prendere consistenza, l’ombra caduca di un’esistenza altra che ci sfugge. Per questo ci aggrappiamo a strutture mentali in realtà inesistenti, per non perderci in quel vuoto inconsistente che l’esperienza umana ci impedisce di comprendere, ma verso il quale non possiamo fare a meno di sentirci attratti, come il simile riconosce il proprio analogo, la nostra vera essenza non è certo la materia.

La nostra memoria e le nostre sensazioni sono troppo incerte e unilaterali e quindi, per provare la veridicità di alcuni fatti ci basiamo su una “certa realtà”. Ma quella che per noi è la realtà, fino a che punto lo è davvero e fino a che punto è quella che noi percepiamo come tale? Spesso è addirittura impossibile distinguere tra le due. Quindi, per ancorare nella nostra mente la realtà e provare che sia tale, abbiamo bisogno di un’altra realtà attigua che possa relativizzare la prima. Questa realtà attigua però, necessita come base, a sua volta, di una terza. Questa catena all’interno della nostra coscienza continua all’infinito ed è proprio grazie ad essa che noi esistiamo. A un certo punto però, può accadere che la catena si spezzi e ci faccia confondere: non capiamo più se la realtà si trovi da questa parte della catena o dall’altra.

L’insegnamento che se ne trae è che a voler scandire il tempo in passato e futuro che rendono inaccettabile il presente non si fa altro che limitare la propria esistenza infarcendola di necessità fittizie e vuoti incolmabili. Ciò che conta è l’attimo in cui sai di essere presente a te stesso, in quel momento quello che ti circonda diventa esattamente tutto ciò di cui hai bisogno.

Il titolo del libro è diviso in due parti, la prima è il titolo di una canzone, South of the Border (a sud del confine), una canzone la cui interpretazione Murakami attribuisce erroneamente a Nat King Cole, e che parla di un uomo che lascia andare via l’amore della sua vita, salvo poi pentirsi quando ormai è troppo tardi, mentre la seconda si riferisce ad una malattia che colpisce i contadini che vivono in Siberia, detta appunto isteria siberiana.

Giorno dopo giorno, vedi il sole sorgere a est, attraversare la volta celeste e tramontare a ovest e alla fine dentro di te qualcosa si spezza e muore. Lasci a terra la zappa e cominci a camminare con la mente svuotata da ogni pensiero, verso ovest, a ovest del sole. Continui a camminare per giorni, senza mangiare né bere, come un invasato. E un giorno ti accasci al suolo e muori. È questa l’isteria siberiana.

È Shimamoto che ne parla a Hajime, chiara indicazione di una fine inevitabile, sintesi di una vita che non può ricomporre i pezzi mancanti altrimenti finirebbe per condurre alla follia, ad un’esistenza alterata dall’intromissione di troppi elementi, salti nel tempo, piccole morti quotidiane, tutti tasselli che rendono impossibile ritrovare quello si è perduto, semplicemente perché non esiste più, così come nemmeno quello che eravamo noi esiste più. Il ricordo nostalgico deve rimanere inarrivabile, senza raggiungere mai il momento presente, altrimenti darebbe a sua volta quel senso di incompletezza che porterebbe a una nuova ricerca, a un nuovo vuoto da colmare, a volte perfino alla morte, mentre il suo destino è rimanere ancorato in quel serbatoio di potenzialità irrealizzate di cui è piena la vita. Il “tutto” insomma sta sempre nella “possibilità”.

Hajime, purtroppo a volte accadono fatti per cui non si può più tornare indietro. Per quanti sforzi si facciano, è impossibile annullare tutto e ripartire da zero. Se in quel momento qualcosa è andato storto, anche di pochissimo, rimarrà per sempre così.

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Jorge Semprún. La scrittura o la vita. Il Male assoluto.

«È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza…»

Un sogno all’interno di un altro sogno, forse. Il sogno della morte all’interno del sogno della vita. O meglio: il sogno della morte, unica realtà di una vita che è essa stessa solo un sogno. Primo Levi esprimeva quell’angoscia comune con una concisione inarrivabile. Niente era vero all’infuori del campo. Il resto, la famiglia, la natura in fiore, la casa, solo breve vacanza, inganno dei sensi.

semprunJorge Semprún (1923-2011) è sopravvissuto ai campi di concentramento tedeschi, spagnolo di nascita, durante la guerra civile si rifugiò a Parigi e lì entrò a far parte della Resistenza antinazista, fu però catturato dalla Gestapo e, nel gennaio del 1944, deportato a Buchenwald come prigioniero politico. Ma si sopravvive davvero ad un’esperienza devastante come quella dei campi nazisti? Non credo che ci sia un termine adatto per descrivere chi è uscito “vivo” da quei luoghi dell’orrore, dove la stessa vita è diventata morte e il significato del linguaggio quotidiano è stato stravolto e ribaltato. Semprún crea La scrittura o la vita (1994) molti anni dopo la Liberazione e non si tratta del solito libro-cronaca di quei fatti terribili, ma di una riflessione profondissima che va al di là delle descrizioni, al di là degli eventi in sé, che si concentra su aspetti della natura umana e del pensiero che offrono una prospettiva ancora diversa rispetto a questo argomento sul quale forse pensiamo, sbagliando, che sia stato detto tutto il possibile.

Ad Ascona, nel Ticino, in un giorno d’inverno pieno di sole, del dicembre del ’45, si era imposta una scelta: la scrittura o la vita. Ero stato io, certo, ad imporre a me stesso di fare quella scelta. Ero io, soltanto io, a dover scegliere. Il racconto che brandello su brandello, frase su frase, strappavo ai miei ricordi, come un cancro luminoso divorava la mia vita. O quantomeno il mio desiderio di vivere, di perseverare in questa misera gioia. Ero convinto di arrivare al limite in cui avrei dovuto prendere atto del mio fallimento. Non tanto perché non riuscivo a scrivere, quanto perché non riuscivo a sopravvivere alla scrittura.

Al contrario di molti prigionieri scampati alla morte che hanno sentito la necessità, per poter continuare a vivere, della scrittura, Semprún si concentra sulla politica, e dopo la Liberazione entra a far parte dei gruppi comunisti che combattevano contro Franco, è questa la sua spinta alla sopravvivenza. Ma negli anni Sessanta verrà espulso dal Partito Comunista e comincerà a sentire, sempre più pressante, l’esigenza di raccontare. Oltre ai libri si dedicherà all’attività di sceneggiatore e molti film verranno tratti dai suoi adattamenti, tra i registi più famosi con i quali ha lavorato figurano Alain Resnais e Konstantínos Costa-Gavras.

Avevo pensato che sarei potuto ritornare alla vita, dimenticare nella quotidianità della vita gli anni di Buchenwald, non tenerne più conto nelle conversazioni, con gli amici, e portare a termine comunque il progetto di scrittura che mi stava a cuore. Ero abbastanza presuntuoso da pensare che avrei potuto gestire quella concertata schizofrenia. Ma appariva chiaro che scrivere, in un cero senso, significava rifiutare di vivere. Ad Ascona, quindi, sotto il sole invernale, ho deciso di scegliere il silenzio frusciante della vita contro il linguaggio mortale della scrittura. Ne ho fatto una scelta radicale, era l’unico modo di procedere. Ho scelto l’oblio, ho messo in atto, senza troppa indulgenza nei confronti della mia identità, fondata essenzialmente sull’orrore – e forse sul coraggio – dell’esperienza del campo, tutti gli stratagemmi, la strategia, crudelmente sistematica, dell’amnesia volontaria.

Sono diventato un altro, per poter rimanere me stesso.

copertinaSemprún ha scelto per lungo tempo di non raccontare, di non ricordare, di cancellare il periodo trascorso a Buchenwald come un insopportabile incubo da dimenticare, la sua voce è stata il silenzio. Quest’oblio volontario è durato per ben sedici anni. Ma si sa, quello che siamo prima o poi emerge sempre e la memoria è un processo che non conosciamo appieno, talvolta si svincola da ogni regola e segue un suo cammino che prescinde da quello che vogliamo. Così, come Proust intingendo la madeleine nella tisana di tiglio si accorge che un semplice sapore può fare riaffiorare ricordi apparentemente perduti, lo stesso processo di memoria involontaria avviene in Semprún attraverso il fumo di una sigaretta o il candore della neve che lo riportano all’improvviso nel campo. Nel 1961 lo scrittore era dirigente del Partito comunista spagnolo e per una settimana fu costretto a rimanere nascosto in un appartamento di Madrid senza mai uscire. Il padrone di casa era stato deportato a Mauthausen e non smetteva di raccontare la sua esperienza, ma Semprún si rendeva conto di come un racconto mal fatto non potesse dare minimamente l’idea di quello che era successo davvero. Alla fine della settimana ecco che si presenta anche per lui l’esigenza non più rimandabile di narrare quegli avvenimenti ed è così che prende forma Il grande viaggio (1963) dove si descrive il terribile itinerario di cinque giorni, insieme ad altri 119 detenuti ammassati all’interno di un vagone merci, diretto a Buchenwald. Nella genesi del romanzo La scrittura o la vita, invece è stato il suicidio di Primo Levi l’elemento scatenante della memoria.

Ricordare però è stato come consegnare la vita al mondo effimero dell’illusione, come se la morte e il male fossero divenuti una costante interrotta solo provvisoriamente dal sogno di vivere.

«Crematoio, spegnete!»[]

Così, dopo il ritorno da Buchenwald, nei soprassalti del risveglio, o del ritorno in sé, ci capitava di sospettare che la vita non fosse stata altro che un sogno, a volte piacevole. Un sogno da cui quelle due parole ci risvegliavano d’improvviso, gettandoci in un’angoscia strana per la sua serenità. Poiché non era la realtà della morte, d’improvviso ricordata, ad essere angosciante. Era il sogno della vita, seppure sereno, ricco di piccole gioie. Era il fatto di essere vivi, seppure nel sogno, che era angosciante.

Vivere la morte, fare esperienza dell’unica cosa che non si può sperimentare, ovvero morire appunto. Per Semprún non si pone nemmeno l’ostacolo del linguaggio, secondo lui non esiste infatti l’indicibile, ma semmai l’invivibile. Allora il punto fondamentale non sta nella forma, ma nella sostanza, ed è proprio questa l’essenza che non è trasmissibile.

Si può sempre dire tutto insomma. L’ineffabile di cui tanto si parla è solo un alibi. O un segno di accidia. Si può sempre dire tutto, il linguaggio contiene tutto. Si può dire l’amore più intenso, la crudeltà più tremenda. Si può nominare il male, il suo gusto soporifero, i suoi piaceri deleteri. Si può dire Dio e non è poco. Si può dire la rosa e la rugiada, lo spazio di un mattino. Si può dire la tenerezza, l’oceano custode della bontà. Si può dire l’avvenire e i poeti vi si avventurano con gli occhi chiusi e la bocca feconda.

Sì si può dire tutto, ma è un tutto che riguarda la pienezza filologica, una ripetizione infinita di orrore e morte che però non riesce a far emergere anche il resto. Il racconto si può fare, ma quello che Semprún vuole ottenere è qualcosa di più, è la possibilità di esprimere anche tutto quello che sta dietro alle parole e che non appartiene al codice linguistico.

L’essenziale? Sì, credo di saperlo. Credo di cominciare a saperlo. L’essenziale è riuscire ad andare oltre l’evidenza dell’orrore per tentare di raggiungere la radice del Male radicale.

Perché l’orrore non era il Male, o almeno non era la sua essenza. L’orrore non era altro che l’addobbo, l’ornamento, l’apparato. L’apparenza insomma. Si sarebbero potute passare delle ore a fornire testimonianze sull’orrore quotidiano, senza sfiorare l’essenziale dell’esperienza della vita nel campo. Anche se si fosse testimoniato con un’assoluta precisione con una costante oggettività – per definizione negata al testimone individuale – anche in quel caso si sarebbe perso l’essenziale. Perché l’essenziale non era l’orrore accumulato, di cui potremmo elencare all’infinito i particolari. Si potrebbe raccontare una qualunque giornata, a cominciare dal risveglio alle quattro e mezzo del mattino, fino all’ora del coprifuoco: il lavoro massacrante, la fame perenne, la continua mancanza di sonno, le angherie dei kapo, le corvè delle latrine, gli schläge delle SS,  il lavoro alla catena nelle fabbriche belliche, il fumo del crematoio, le esecuzioni pubbliche, gli interminabili appelli sotto la neve degli inverni, lo sfinimento, la morte dei compagni, senza con questo toccare l’essenziale, né svelare il mistero glaciale di questa esperienza, la sua tetra scintillante verità: la tenebra che ci era toccata in sorte. Che è toccata all’uomo come sorte, fin dall’eternità. Meglio ancora, fin dalla storicità.

«L’essenziale», dico al tenente Rosenfeld, «è l’esperienza del Male. Certo, la si può fare dappertutto, questa esperienza. Non c’è bisogno dei campi di concentramento per conoscere il Male. Ma qui sarà stata cruciale e totale, avrà invaso e divorato ogni cosa… è questa l’esperienza del Male radicale…»

La sostanza qui è il Male, non il racconto delle azioni supportate da una crudeltà senza limiti, ma proprio il fondamento immorale che porta alla negazione dei principi fondamentali dell’umanità, e che, al tempo stesso, fa parte integrante dell’essere umano che racchiude in sé l’umano e l’inumano, è questo forse il punto inaccettabile, il fatto che non ci si può opporre al Male assoluto, né negarlo come qualcosa che non appartenga alla specie umana, poiché ne è parte integrante.

La guerra è certamente il terreno più fertile per dare libero sfogo all’inumanità dell’umanità e l’uomo che recepisce, gli artisti, i poeti, si fanno carico di un dolore impotente, diventano anche portavoce, educatori, coloro che sono chiamati a trasmettere la conoscenza, la totalità dell’essere umano e l’inconcepibile vicinanza tra bene e male, animato e inanimato, vita e morte, tanto che, a ben guardare, a volte sembra proprio che non ci sia alcuna differenza.

Sono una creatura

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

(G. Ungaretti)

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John Williams. Stoner

Spietatamente, vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro.

Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia, e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva avuto due amici, e uno dei due era morto insensatamente prima che potesse conoscerlo, mentre l’altro si era ormai ritratto a tal punto tra i vivi, che…

Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio. Aveva avuto anche quella e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katherine, pensò. «Katherine».

Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre.

Aveva sognato di mantenere una specie d’integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro?, pensò. Che altro?

Cosa ti aspettavi?, si domandò.

stonerCosa si aspettava William Stoner dalla vita? Ed è stata un fallimento? Per certi versi sì sicuramente, ma nello stesso modo in cui lo è per ognuno di noi, proprio per quella domanda fondamentale e inutile: cosa ti aspettavi? Il problema di fondo è lì, nelle aspettative, che sono il metodo migliore per falsare i propri desideri, le proprie attitudini. Ma allora se si inverte l’informazione, forse la vita di Stoner è stata un vero successo, dal momento che lui non ha assecondato affatto le aspettative, ma ha seguito l’improvvisa folgorazione della passione per la letteratura. Ha fallito se si seguono le norme del successo sociale e quindi non è diventato famoso, non ha avuto fortuna all’università, anzi al contrario è stato vessato, non ha avuto un matrimonio felice e perfino il rapporto con la figlia, carico di promesse si è rivelato poi fallimentare. Socialmente William Stoner ha fatto fiasco, ma spostandolo dal circuito pubblico le cose cambiano. Figlio di un contadino, che ha passato la vita coltivando una terra che lo porterà alla tomba, riesce ad entrare all’università di Columbia nella facoltà di Agraria, ma ecco che qualcosa succede e il suo destino segnato muta all’improvviso direzione. Stoner scopre le parole, i libri, la poesia ed è un amore dal quale non si separerà mai, che darà un senso a tutta la sua vita e ne farà un successo.

Non si tratta di ambizione, di inseguire una meta a tutti i costi (questo lo porterebbe al fallimento) si tratta di sé, della voce che lo anima, della scoperta dell’essenza e della semplicità della consapevolezza. Il tempo nel quale vive Stoner è estraneo a quello strutturato, il suo è il tempo sempre presente e sempre diverso della letteratura, delle storie che s’intrecciano, delle vite fatte di emozioni e l’università è il rifugio perfetto per mantenere un certo equilibrio, per far sì che una “realtà” giunga a compenetrare l’altra, fondendo reale e irreale nella dimensione personale di William Stoner.

Per William Stoner, invece, il futuro era una certezza fulgida e immutabile. Ai suoi occhi non appariva come un flusso di eventi, mutazioni e potenzialità, ma come un territorio che attendeva solo di essere esplorato. Gli sembrava simile alla grande biblioteca dell’università, che poteva essere arricchita dalla costruzione di nuove ali, cui potevano aggiungersi nuovi libri o esserne tolti di vecchi, ma che manteneva essenzialmente invariata la sua vera natura. Immaginava il suo futuro solo nell’istituzione a cui si era votato, e che comprendeva in modo tanto imperfetto. Non escludeva di poter cambiare in quel futuro, ma considerava il futuro stesso come lo strumento, piuttosto che l’obiettivo, del cambiamento.

La presa di coscienza avviene gradualmente. Quando è ancora studente di Agraria viene in contatto con l’insegnante che lo trascinerà in mondi per lui ancora insospettabili e del tutto incomprensibili, il professor Sloane. Senza alcun preavviso, il settantatreesimo sonetto di Shakespeare, sul quale verrà invitato ad intervenire, gli aprirà un varco attraverso il quale sarà risucchiato senza possibilità di tornare più indietro.

In me tu vedi quel periodo dell’anno

Quando nessuna o poche foglie gialle ancora resistono

su quei rami che fremon contro il freddo,

nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.

 /

In me tu vedi il crepuscolo di un giorno

che dopo il tramonto svanisce all’occidente

e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,

ombra di quella vita che tutto confina in pace.

 /

In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco

che si estingue fra le ceneri della sua gioventù

come in un letto di morte su cui dovrà spirare,

consunto da ciò che fu il suo nutrimento.

 /

Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce

per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

La breccia che si apre potrebbe essere proprio nell’intuizione della fugacità dell’esistenza, nella consapevolezza di doversi porre di fronte a una scelta fondamentale, nella possibilità di non dover per forza accettare una strada, vedere che si può cambiare perché l’immagine di noi stessi che la società ci proietta sullo specchio, raramente coincide con le nostre potenzialità, con la splendida fioritura interiore che non sappiamo nemmeno di possedere, questa è la rivelazione.

L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.

Nella prefazione all’edizione francese Anna Gavalda che l’ha anche tradotto dice: c’est un roman qui ne s’adresse pas aux gens qui aiment lire, mais aux êtres humains qui ont besoin de lire (è un romanzo che non si rivolge alle persone che amano leggere, ma agli esseri umani che hanno bisogno di leggere) e ormai non ci si sorprende più quando si scoprono romanzi di un certo livello che tuttavia necessitano di decenni prima di trovare la luce insieme ai loro autori, anche se molti di più nemmeno ci riescono. Così John Williams (1922-1994) ha insegnato all’università di Denver per trent’anni, scrittore texano autore di diversi romanzi, ha pubblicato, senza successo, Stoner nel 1965, mentre nel 1973 ha vinto il prestigioso premio letterario National Book Award con il libro Augustus e tuttavia rimane un illustre sconosciuto.

Trovava sollievo e appagamento solo durante le lezioni che frequentava come studente. Lì era ancora in grado di cogliere l’emozione che aveva provato il primo giorno, quando Archer Sloane gli aveva rivolto la parola e, in un solo istante, si era trasformato in un uomo nuovo. Mentre la sua mente era impegnata in quegli argomenti e si confrontava con il potere della letteratura cercando di comprenderne la vera natura, avvertiva un continuo cambiamento: e come se ne fosse consapevole, usciva da se stesso entrando nel mondo che lo conteneva e comprendeva così che la poesia di Milton, o il saggio di Bacon, o la commedia di Ben Jonson che stava leggendo cambiavano il mondo che avevano per oggetto, e lo cambiavano in virtù della loro dipendenza da esso.

A lettura ultimata ci si chiede inevitabilmente il perché di questa scelta da parte dell’autore e cioè quella di descrivere un personaggio che non si ribella a certi avvenimenti (subisce le vessazioni di un collega, si lascia tormentare dalla moglie, non lotta per l’amore finalmente trovato, si lascia scivolare via dalle mani la vita della figlia…) e, pur potendo, non tenta nemmeno di migliorare la propria situazione lavorativa e quindi sociale facendo carriera all’università. Fin dalla prima pagina veniamo avvertiti dal narratore che non succederà nulla di eccezionale, eppure alla fine ci rendiamo conto che non è affatto vero, che accadono cose straordinarie in questo libro e in questa vita apparentemente fallimentare. Si tratta di un romanzo “esistenzialista” in senso letterale ed è proprio l’esistenza la protagonista principale, l’esistenza semplice di chi sceglie, anzi di chi è scelto dall’amore per la letteratura, amore che allontana dalla strada consueta e per questo fa sembrare certe preferenze incomprensibili, addirittura fastidiose, poiché si tratta di una vita che si svolge su piani differenti dove vigono regole diverse per ognuno, regole che dipendono dalla sensibilità individuale, che si adattano alle caratteristiche del soggetto prescelto. E tuttavia, anche la vita “normale” di Stoner non lascia indifferenti, anzi nel lettore si scatenano reazioni molteplici che vanno dalla rabbia alla commozione più profonda e questo perché nessuna vita, anche quella apparentemente più banale è mai incolore e, soprattutto, nessuno può mai sapere cosa si scateni nell’animo di un’altra persona.

Fuori era buio, e una brezza primaverile soffiava nell’aria. Stoner respirò a pieni polmoni e sentì il suo corpo ritemprato dal freddo. Oltre il profilo discontinuo del caseggiato, le luci della città brillavano nella nebbia, che gravava sottile nell’aria. Dopo l’angolo, un lampione baluginava solitario, avvolto nell’oscurità. Dal buio emerse all’improvviso una risata, che ruppe il silenzio, indugiò un istante e svanì. La nebbia tratteneva il fumo della spazzatura, che bruciava nei cortili sul retro, e mentre camminava lento nella sera, respirandone l’odore e sentendo sulla lingua il sapore tagliente dell’aria, gli parve che quel momento fosse abbastanza e che non avesse bisogno di molto di più.

Di fronte a questo Don Chisciotte del Midwest, come lo aveva definito l’amico Dave Master, gli attacchi del mondo esterno sono impietosi. Edith, la moglie, isterica e anaffettiva tenta di trascinarlo tra i conformismi sociali, non tollera la sua mancanza di ambizione, né la sua remissività. Per buona norma deve fare almeno un figlio e così si concede al marito in un rituale quasi animalesco voluto unicamente dalla necessità dell’accoppiamento al fine di procreare. Nasce una bambina, Grace, che inizialmente la madre allontana da sé e che si lega fortemente a Stoner, il quale la ricambia e la coinvolge nel suo mondo incantato. La bambina collabora, si isola, si ritaglia uno spazio creativo all’interno dello studio del padre. A questo punto però Edith deve intervenire brutalmente, strappandola dalle grinfie del padre e riportandola alla “normalità”, ovvero a una full immersion in società. Il prezzo che dovrà pagare Grace sarà però molto alto. E poi c’è l’ambiente di lavoro, il suo regno, anche qui gli viene sferrato un attacco potente quanto ingiustificato da parte di un collega e a maggior ragione ci si sente amareggiati trattandosi di un luogo in cui si presume che cultura e intelligenza abbiano il sopravvento, mentre ancora una volta ci si ritrova in un microcosmo in cui si riversano tutte le debolezze e le meschinerie sociali umane.

Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce

per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.

William Stoner è uno stoico perché sa che la vita è transitoria, sa che conferiamo importanza a qualcosa di effimero, sa anche che l’uomo è sempre in perdita, non per sfortuna, per malasorte, ma perché non vede l’esistenza nella giusta prospettiva. Se la vita è sottrazione, ma la si vive come addizione si finisce per soffrire inutilmente, al contrario, con la consapevolezza di quello che siamo si può seguire il flusso senza affanno, in accordo con lo scorrere lento e veloce di un’esperienza comunque fuggevole. Così quello che a noi sembra umiliazione, ingiustizia, sofferenza, insensatezza, per Stoner è un problema che non lo riguarda affatto dal momento che la vera vita si svolge altrove, qui è semplice spettatore e come tale è destinato ad uscire indenne da ogni battaglia, a lui non servono armi, né affanni, né crisi di nervi, né sopraffazione, siamo di fronte al più eroico antieroe della letteratura contemporanea.

 

 

Cosa ti aspettavi?, pensò di nuovo.

Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita. Vaghe presenze si affollavano ai bordi della sua coscienza. Non riusciva a vederle, ma sapeva che erano lì, a raccogliere le forze in cerca di una palpabilità che non era in grado di vedere né di sentire. Si stava avvicinando a loro, lo sapeva. Ma non c’era alcun bisogno di correre. Poteva ignorarle, se voleva. Aveva tutto il tempo del mondo.

Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato.

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Non si fa mai giorno. Dall’ordine al caos.

copertinaSebastiano Addamo (1925-2000) scrittore e poeta siciliano, giornalista e saggista, ha ricevuto numerosi riconoscimenti già in vita e si è ritagliato uno spazio importante nel panorama letterario del Novecento, Non si fa mai giorno (1995) è una raccolta di cinque racconti.

È possibile che alcune immagini banali e casuali, si possano legare d’improvviso alle profondità dell’esistenza?

Inizia proprio dall’osservazione minuziosa degli oggetti, dallo strano modo che hanno di comunicare sensazioni, il viaggio dei protagonisti dei racconti alla ricerca di sé e dell’essenza della vita. Attraverso lo scenario inquietante di una psiche compromessa che oltrepassa i vari piani di coscienza confondendoli e perdendosi all’interno di intricati cunicoli interiori, d’improvviso essi colgono l’aspetto fondamentale di ciò che li circonda, come se venissero attraversati da un fulmine.

Così si «diventa». Assieme alle cose, sviluppando la loro trama assoluta e necessaria. Aveva capito che il supremo momento della libertà coincide con la necessità più totale. Che misteri e chiarezza anziché opposti, sono la medesima cosa, due facce identiche d’una stessa entità. E diventando si consiste. Si è.

Non serve un luogo particolare per intraprendere il viaggio. All’inizio è sempre una fuga, un modo per dimenticare sé stessi, ma si tratta ogni volta di un tentativo vano e non perché non si possa scordare, ma perché non si sa mai bene chi siamo. Il mutamento continuo è una caratteristica del nostro esistere, perciò anche se lo volessimo non potremmo mai essere sempre gli stessi. E tuttavia ci ostiniamo a far prevalere l’elemento culturale su quello naturale, costruendo e vivendo vite totalmente immaginarie, a volte orribili e sempre terribilmente infelici.

Poi si parte, generalmente in treno. Per evadere, per fuggire, per cambiare aria, per impegni di lavoro, ma non più per viaggiare, dappertutto ormai si trovano le stesse cose lasciate, cemento, plastica, cocacola, le medesime musiche ad ogni cantone. Forse i veri viaggi restano sempre quelli intorno alla propria stanza.

E non c’è mai un ritorno, nulla rimane identico, né chi ritorna e neppure chi aspetta. Due estraneità non fanno un ritorno: colui che viaggia, lo fa per mutare; e colui che aspetta muta lo stesso, poiché tutto scorre.

Così sto inseguendo immagini nella fuga delle cose, mi avvolgo in pensieri e nei ricordi, mentre gli alberi si avventano contro il finestrino, all’ultimo momento interviene il segnale misterioso e geometrico che li porta appena a sfiorare la corsa, all’ultimo momento si allontanano, agitano rami e foglie come esseri infelici.

La ricerca continua che inevitabilmente conduce alla consapevolezza di essere in divenire suggerisce chiaramente che bisogna cambiare radicalmente la percezione che abbiamo di noi stessi, del mondo circostante e il concetto stesso di movimento.

Intanto è che in treno si sta seduti sopra il movimento, basta chiudere gli occhi per sentirsi introitati dentro il vecchio alveo, ammarati in un luogo di quiete. Immobilità e movimento, intorno a cui si affannano metafisica e poesia, qui sono risolti senza necessità di deduzioni o di metafore

Nel paradosso si colloca la perfetta lucidità del pensiero, riunire immobilità e moto nello stesso nucleo di significato è eresia solo apparente. L’esempio del treno ci suggerisce che la mente spesso ci inganna, che il dualismo in eterno contrasto può trovare una conciliazione. È il famoso punto al centro di un’asse che la pone in perfetto equilibrio, quel punto di pace, di armonia che tutti cerchiamo, consapevolmente o no.

Che stava cercando? E che cercavo io rimestando il passato? È il solito processo dal buio del tempo alla chiarezza del giorno, il cammino che tutti noi di continuo usiamo compiere. Non si fa mai giorno. Di niente e di nessuno conosciamo se non il presente che a sua volta passa. Non si può fermare nulla. Davvero scorre tutto.

Ma allora perché insistere con una comprensione che diventa inevitabilmente il suo opposto?

I personaggi di questi racconti sono convinti che le regole sociali, l’ordine, li collochi dalla parte giusta,  ma esiste una parte giusta? E che cos’è l’ordine se non una delle tante forzature che deformano il pensiero? Così il passaggio dalla logica al caos è presto fatto, trovare una dimensione a nostra misura, che ci accolga, necessita di quella punta di follia salvifica che permette di allargare gli orizzonti e vedere qualcosa che fino ad un attimo prima ci era sfuggito.

Gli accadeva, ormai, di sognare spesso. Propriamente, non gli era chiaro se si trattasse di sogni. Forse immagini oscure e notturne che continuavano nella veglia; forse il contrario. Se erano sogni, quelli della notte, o veglie che mantenevano una loro larvale e tenace consistenza. [] Comprese senza neppure volerlo, senza nemmeno spingere il gioco della riflessione e dell’analisi, che si stava verificando una mutazione. Non capiva se sua o delle cose.

Il passaggio non è facile e il tramite del sogno è un espediente molto efficace, poiché quella è la zona di transizione per eccellenza, sei e non sei, la materia non ti limita più, i confini del corpo sono annullati e puoi spostarti nelle varie dimensioni senza problemi, vivere esperienze inimmaginabili nella vita da sveglio. E questa in fondo è la prova che siamo molto di più di ciò che siamo abituati a credere.

Nel percorso che scardina la vita precedente e che porta alla consapevolezza di non potere governare tutto, anzi che spesso si deve accettare l’idea di subirli determinati eventi, cercando poi di capire perché ci capitano, inevitabilmente ci si scontra con il destino.

Il caso spesso decide gli eventi, giunge inappuntabile e definitivo, quasi losco, scompiglia il giorno.

Talvolta non c’è altro.

Le vicende, i gesti, gli errori dell’esistenza, i difetti s’incrociano e ruotano come gli infiniti mondi dell’universo, e dapprincipio non sembrano che trame gioiose e ilari di quella contingenza varia e caotica che chiamiamo vita, finché poi il caso non viene ad assumere il suo volto serio e reale, scompiglia l’ordine delle cose, si erige come una roccia, un’invalicabile muro, diventa il Signore della Necessità che governa tutte le cose…

A volte capita di finire nella spirale ingovernabile di avvenimenti che sono gli altri a dirigere, mentre tu sei il pezzo finale che si incastra perfettamente nel loro puzzle e pur vedendo con chiarezza ogni aspetto delle cose, dirlo non serve a niente, perché per spiegare la tua visione usi un linguaggio incomprensibile o che può essere trasformato e adoperato proprio contro di te. Se ti senti catapultato in una vita che non ti appartiene o se tuo malgrado finisci come interprete principale del film di qualcun altro può accadere di perdere la partita. Quello è l’attimo che ti può annientare oppure rinsaldare, condurre verso un ignoto momentaneo che soltanto noi possiamo trasformare in meta, del resto, dopo un lungo cammino tortuoso, solo il caos può ricondurre all’armonia.

Ora cammino, come un condannato di cui ne ho visto tanti nei film americani. Sono intontito e già cotto. Almeno vorrei fare una pernacchia. Ma vedo quelle facce morte attorno a me. Ogni gesto è inutile. Non ho idee, né patemi. Mi sto avviando verso non so dove. Camminare, è la cosa più difficile che fino ad ora abbia fatto nella mia vita.

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In questa notte del tempo.

in questa notte del tempoPrima di morire Leonardo Sciascia stava lavorando ad una storia bresciana risalente al periodo successivo alla Liberazione quando, come sempre avviene nella storia dell’umanità, chi diventa vincitore è anche dalla parte giusta, ha l’approvazione divina e di conseguenza il diritto di comportarsi con chi perde esattamente come gli aguzzini contro i quali fino al giorno prima aveva combattuto. Quando la spinta che fa muovere le persone è attivata dalla vendetta capita spesso che il confine tra la ragione e il torto diventi labile e si sconfini dall’una all’altro senza il giusto discernimento.

La storia raccontata è umanissima e ricca di spunti di riflessione, i protagonisti sono il fascista Telesio Interlandi e l’avvocato socialista Enzo Paroli, a scriverla però non è Sciascia, che morì prima di poterlo fare, ma il suo amico magistrato, Vincenzo Vitale, che ne raccolse l’eredità morale e culturale, e facendo ordine tra i numerosi documenti messi insieme e le tante pagine di appunti, ha scritto un libro edito da Sellerio dal titolo: In questa notte del tempo (1999).

Ora, in quella celletta, pensava che nessuno può accettare di essere ridotto a un’idea, per quanto nobile e pura. Un uomo è di più, infinitamente di più. L’idea, dopo tutto, non si vede, non si tocca, non c’è. Le persone invece sono di carne e ossa e nelle loro ossa, sulla loro carne, patiscono la pena del vivere. Anzi, l’idea c’è soltanto quando c’è una persona che la faccia davvero viva, che le faccia strada nella storia, che sappia esserne testimone; e fino in fondo. Per questo – così ancora pensava – le idee orfane degli uomini sono null’altro che fantasmi crudeli e rivoltanti, orrendi simulacri del nulla. Ma lui, Telesio, avrebbe saputo dare alle idee per cui s’era sempre battuto gambe per camminare da sole, dopo la sua morte?

Interlandi aveva sempre mantenuto posizioni estremiste all’interno del partito, ma le aveva manifestate solo con la scrittura senza mai avere un ruolo attivo, una qualsiasi carica all’interno del movimento. Tuttavia contribuì non poco dal momento che espresse ampiamente le proprie posizioni intransigenti ed apertamente razziste e si sa, quando si tratta di oltraggiare una minoranza si trovano sempre dei carnefici volontari subito pronti ad abbracciare la causa. Nel dicembre del 1924 fondò il quotidiano Il Tevere e nel 1933 il settimanale Quadrivio al quale parteciparono autori come Brancati, Moravia, Cardarelli, ma soprattutto lo si ricorda per aver dato vita, nel 1938 al quindicinale La difesa della razza, in concomitanza con la promulgazione delle leggi razziali. La rivista voleva attribuire una base scientifica al razzismo, pertanto si avvaleva della collaborazione di esperti e pubblicò, il 5 agosto 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti firmato da ben dieci scienziati.

Nell’ottobre del 1945 Telesio Interlandi e il figlio non ancora ventenne Cesare furono arrestati e portati in una caserma dei carabinieri a Desenzano.

Il figlio Cesare, arrestato solo per le colpe del padre, contrasse una grave infezione durante la carcerazione. Portato in ospedale il medico si rifiutò di curarlo dopo averne appreso il cognome, per sua fortuna fu poi portato in una clinica gestita da suore tedesche dove guarì. Nel frattempo il padre non sapeva più nulla della sorte del figlio e la madre si rivolse all’avvocato Paroli come ultima chance di salvezza.

Veniva così celebrato, per via d’un uomo qualunque, d’un oscuro medico di provincia, l’ennesimo trionfo della violenza. Una violenza sottile, esperta, sapientemente nutrita di disincanto, di pazienti, sofferte attese; dal sapore da millenni inalterabile, che non scolora anche se è violenza che ribatte a violenza, sopruso a sopruso; ma che anzi alimenta e si alimenta di raffinatissime spirali di sopraffazioni, di inganni. Morti che seppelliscono altri morti, ferite che leniscono ferite: ecco il genio di secoli di storia, il puro distillato di decine di civiltà…

Ed ecco – pensava Telesio – che Dio è veramente morto, ad ogni istante ucciso da noi; da tutti quelli che abbiamo subito e patito, lasciando che ci covasse dentro, come una bestia immonda e silente, il desiderio più maligno, il desiderio della vendetta. Anzi, educandola a saper attendere la stagione propizia. Dicendoci e credendoci vittime, vogliamo farci diversi dai nostri aguzzini. Ma si è tutti eguali, tutti aguzzini gli uni degli altri: intrascendibilmente, per sempre…

Un equivoco all’italiana fu il motivo della scarcerazione di Telesio.

Non si sa bene come Interlandi riuscì a fare breccia nell’animo dell’avvocato che ottenne un ordine di scarcerazione per Cesare. Da qui l’equivoco, ovvero essendo assente Cesare, l’unico Interlandi presente nella caserma era Telesio e dunque fu lui ad essere scarcerato malgrado le proteste dello stesso che voleva evitare eventuali problemi futuri al figlio.

C’era stato evidentemente un errore. Uno di quegli errori cui una sorta di mano invisibile sembra di tanto in tanto, sapientemente guidare i destini dell’uomo per cavarne – da una vicenda dolorosa, da una delle innumerevoli nequizie – un significato nascosto, quello che altrimenti non si sarebbe potuto vedere.

Paroli nascose, rischiando la sua vita e quella dei suoi cari, l’intera famiglia Interlandi nello scantinato della casa dove abitava, per quasi un anno, ovvero fino alla sentenza di innocenza per Telesio avvenuta nel 1946.

Ciò che maggiormente aveva colpito Sciascia era perché Interlandi, un raffinato intellettuale che aveva diretto riviste importanti come Quadrivio, avesse deciso di diventare portavoce del Fascismo, addirittura l’ideologo del razzismo. E di conseguenza come mai Paroli avesse deciso di aiutare proprio lui.

E ora cosa gli si chiedeva? Di rinnegarsi? D’essere altro? E che altro? Cesare, forse, forse lui poteva… era giovanissimo e solo ai giovanissimi è lecito mutare maschera; anzi – pensava Telesio – è questo il loro compito: indossare tutte le maschere possibili per trovarne, alla fine, una soltanto; e restarle fedeli per sempre, ad ogni costo.

Interlandi infatti continua a mantenere i propri ideali intatti, anche dopo la carcerazione, durante i colloqui con Paroli e mai cerca di trincerarsi dietro a un pentitismo di comodo, né finte redenzioni, è e rimane saldo ai suoi principi, un fascista in buona fede insomma, convinto che quella fosse la strada giusta da seguire per il bene dell’Italia e dell’Europa. Lo stesso avvocato rimane colpito da tanta sicurezza:

Allora era vero, dovette ammettere, c’era stato anche questo: un’intelligenza coerentemente fattasi, e lucidamente, strumento d’abiezione.

Non bastava possedere lucido intelletto per non inclinare al male e alla perversione, occorrendo qualcosa d’altro; qualcosa che bisognava trovare altrove, presso qualcuno che invece lo possedesse questo “supplemento d’anima”, perché altrimenti non avrebbe saputo come chiamarlo. E fu allora che si risolse a capire che tutto il ventennio, tutta la retorica del Capo e della Nazione, il fascismo insomma, per la sua ideologia e la stupidità della sua prassi altro non erano che il tentativo di sopprimere o di mettere a tacere quel “di più” che nell’anima di ciascuno minacciava pericolosamente di emergere. Un senso recondito e mai dimenticato del vero e del bene, che poteva riaffiorare dal nulla attraverso il volto stanco d’un uomo, la bellezza struggente d’un tramonto, il ricordo lontano d’una tenerezza paterna.

E c’è davvero da sorprendersi? C’è sempre un gene intellettuale puro alla base della devastazione.

Da sempre per delle idee si vive e si muore, ma quale gioco perverso ne ha stabilito le regole? Esistono delle idee e dunque dei concetti soggettivi spacciati per oggettivi, per cui vale la pena sacrificarsi? Questo continuo rincorrere un qualsiasi significato che renda la vita degna d’essere vissuta non si basa forse su presupposti totalmente errati? Gli stessi concetti di Onore, Patria, Libertà, non sono discutibili? Ogni volta che si combatte una guerra lo si fa per gli interessi economici delle élite che si muovono dietro le quinte, alimentati dal gusto del Potere, ma non c’è mai una realtà nobile alla base. E tuttavia lo si fa credere alla massa, si impone un’ideologia che mandi al macello giovani e meno giovani pronti a morire per nulla. Forse questo è  il modo più sciocco di dare un senso alla propria vita.

E, per quanto lui i fascisti li conoscesse bene e n’avesse avuto qualche guaio soprattutto per via di suo padre, accanito socialista, glien’era venuta una sottile curiosità, come un sotterraneo gusto di provare a se stesso che non esistono categorie d’umanità, nulla insomma che autorizzi a discernere i buoni dai cattivi in quanto i primi stanno tutti di qua e i secondi tutti di là, secondo un facile e grottesco semplicismo manicheo che gli dava nausea; ma che invece esistono uomini, nel bene come nel male, e che anzi forse nessuno può essere capace di seguire il primo senza essere seriamente tentato dal secondo, al quale spesso poi finisce per cedere un po’ per vigliaccheria e un po’ per confusione del cuore e della mente.

Siamo abituati a comprendere le cose solo mettendole in contrapposizione perciò non potremmo capire cos’è il male senza il bene o l’oscurità senza la luce e tuttavia non sempre è possibile catalogare collocando in un reparto piuttosto che in un altro. A volte è necessario ampliare le nostre vedute per riuscire a conoscere cosa ci sta di fronte e mescolare un po’ le carte riunendo le parti contrastanti in un unico essere. Anche le grandi divisioni storiche, sono frutto del pensiero dell’epoca e vedono delle truppe schierate sul fronte del bene e le altre sul fronte del male, ma si tratta solo di concetti che sfuggono ad una realtà oggettiva. La stessa legge è discutibile essendo mutevole e al servizio del pensiero dominante, come dimostrano le leggi razziali appunto, ma gli esempi si perdono nella notte dei tempi.

Paroli non sapeva affatto se la propria anima fosse migliore di quella altrui. Anzi, spesso gli accadeva di pensare il contrario, e tuttavia senti imperiosamente che quella difesa andava assunta, che alla difesa di quell’uomo, all’apparenza indifendibile, bisognava votarsi con la stessa appassionata dedizione dovuta alla vita, al bisogno di vivere e di affermare la propria vita e, attraverso questa, quella altrui.

Alla fine quali siano i meccanismi che muovono certe azioni umane rimane un mistero. A volte sembra di avere la certezza della reazione conseguente ad un’azione e invece si verifica l’opposto, la variabile è sempre pronta a ricordarci non solo che non bisogna mai dare nulla per scontato, ma anche che per quanto un percorso possa essere rettilineo c’è sempre una possibilità imprevedibile che all’improvviso curvi lanciandoci fuori strada e deragliandoci in un ignoto che inverte la direzione e ci catapulta in una nuova realtà, in una nuova prospettiva, in una nuova vita. Cosa abbia spinto l’avvocato Paroli a difendere Interlandi non si comprende se non con la misura letteraria e ideale di un’impresa affascinante, una sfida a colpi di integrità ideologica, il nero da una parte e il rosso dall’altra che si incontrano realizzando quella verità che proviene dalle sfumature e dall’incerto colore di certe commistioni che nell’indeterminatezza della tonalità risolve tutti i dubbi della natura umana.

Ma forse, più di tutto, ciò che ha spinto Paroli è stato rendersi conto che la cosa peggiore non era il fatto che Interlandi, pur non avendo deportato nessuno, aveva fatto sì che si creassero le condizioni perché altri lo facessero e questo già lo rendeva colpevole, ma era l’indifferenza, l’ignavia di così tante persone e di cui l’avvocato stesso si accusava, l’incapacità di comprendere, di compatire gli altri, una colpa della quale si erano macchiati in tanti a quei tempi, rimanendo in silenzio o facendo finta di non vedere ciò che avevano sotto gli occhi. Non è la forza fisica o l’arrogarsi il diritto di vita e di morte sugli altri che rende potenti e giusti, e non è nemmeno la purezza di un pensiero, la vera forza è nel sapere mantenere il controllo di sé stessi, quando le circostanze impongono scelte difficili, è fermarsi un attimo prima di compiere l’irreparabile e soprattutto è nella pietà, nell’accezione di comprensione verso l’umanità e la sua miseria, nel non dimenticare mai che siamo essere transitori e di nessuna importanza.

– Il coraggio che nasce dalla pietà?

– Sì. più che dalla paura o dal senso del dovere.

– Avete pietà di me, dunque?

– Non più che di me stesso. Non sempre è stato così, certo. Ma adesso, in questa notte del tempo, con i partigiani che credono d’aver vinto ed invece hanno solo raccolto le ceneri d’un regime che si è suicidato e vogliono farsi giustizieri di tutti e di ciascuno… la fame, i lutti, le distruzioni… sì, ho pietà di lei e di me. Di lei, per quello che ha pensato e che ha fatto sì che si pensasse. Di me, per la mia stanchezza, la mia paura. E forse, infine, di tutti.

– Di tutti?

– Vedo l’esilio della ragione, la violenza che s’annida ovunque, perfino nelle parole, nei volti, la sete di vendetta. Ogni giorno.

– È vero. Dunque?

– Dunque impariamo ad esercitare la pietà.

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Il giardino delle bestie. Pianificazione di uno sterminio.

Mi sono sempre chiesto come doveva essere stato, per un forestiero, assistere in prima persona all’oscura ascesa al potere di Hierik larsontler. Che aspetto avesse la città, che cosa si sentiva, si vedeva, si respirava, e come i diplomatici e gli altri visitatori interpretassero gli eventi che accadevano intorno a loro. Col senno di poi, ci siamo resi conto di quanto sarebbe stato facile cambiare il corso della storia in quel periodo delicato. E allora perché nessuno ha alzato un dito? Perché c’è voluto così tanto tempo per riconoscere il reale pericolo rappresentato da Hitler e dal suo regime?

È sorprendente notare come la storia si assomigli sempre, malgrado l’inevitabile processo che porta avanti nel tempo, almeno su quella linea retta che è la migliore rappresentazione della cronologia, dove presente, passato e futuro sono facilmente collocabili e comprensibili. Certe similitudini tuttavia sgomentano, soprattutto perché danno l’impressione che numerose atrocità del passato si possano ripetere, magari con modalità diverse, ma comunque grazie alla ciclicità, che la linea retta non contempla, e che pure fa parte della temporalità, ecco che nella mescolanza di presente, passato e futuro, ciò che sembra tornare è in verità qualcosa che non è mai andato via.

Un giorno, all’alba di tempi molto bui, un padre e una figlia americani si ritrovarono improvvisamente trapiantati dalla loro accogliente casa di Chicago nel cuore della Berlino nazista. Vi restarono per quattro anni e mezzo, ma sono soltanto i primi dodici mesi i protagonisti del racconto che segue, poiché coincisero con l’ascesa di Hitler da cancelliere a tiranno assoluto, quando tutto era un’incognita e non esisteva alcuna certezza. Quel primo anno si trasformò in una sorta di prologo che conteneva in nuce tutti i temi della grandiosa epica di guerra e sterminio che si sarebbero sviluppati di lì a poco.

william doddWilliam E. Dodd (1869–1940), storico americano, è stato ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino dal 1933 al 1937 dunque in pieno fermento nazista. Quando il presidente Franklin Delano Roosevelt gli offrì l’incarico Dodd era professore di storia all’Università di Chicago ed era impegnato nella realizzazione del suo libro in quattro volumi, che avrebbe intitolato L’ascesa e la caduta del vecchio Sud, del quale però solo il primo tomo stava giungendo a compimento.

Gli eventi della vita seguono sempre strani percorsi, probabilmente Dodd è stato una delle variabili imprevedibili che spesso piombano su una mappa prestabilita, portando lo scompiglio. E tuttavia le cose vanno come devono andare, perché nessuno può svegliare chi sta dormendo se non il dormiente stesso.

Questa è un’opera di non-fiction. Tutto il materiale fra virgolette è ricavato da lettere, diari, memorie o altri documenti storici. Nelle pagine che seguono non ho certo tentato di scrivere l’ennesima epopea del periodo in questione. Il mio scopo era di natura più intima: far conoscere quel mondo del passato attraverso le esperienze e le sensazioni dei miei due protagonisti, padre e figlia, che, giunti a Berlino, intrapresero un viaggio di scoperta, trasformazione e, infine, di profondo dolore.

Il giardino delle bestie. Berlino 1934 è un romanzo storico molto particolare, il titolo è la traduzione di Tiergarten, il nome del parco principale di Berlino. L’autore Erik Larson ha compiuto un’opera minuziosa di cesellatura ed incastro di migliaia di tessere di un mosaico oscuro e nella ricostruzione di quegli anni è riuscito a portare il lettore dentro il libro, riempiendo ogni pagina non soltanto della sua scrittura, ma anche delle parole tratte dai diari e dalle lettere di Dodd, della figlia Martha e dei vari protagonisti dell’epoca ed anche brani estratti da documenti ufficiali. La lettura è talmente scorrevole che ci si dimentica dell’immenso lavoro che c’è dietro.

Tom Hanks sta adattando Il giardino delle bestie per farlo diventare presto un film del quale sarà produttore, ma anche attore protagonista.

dodd alla scrivania 1933Una fotografia di Dodd in ufficio a Berlino durante la sua prima settimana di lavoro lo ritrae seduto a un’ampia scrivania dagli intagli elaborati, con la parete alle spalle interamente coperta di arazzi e un sofisticato telefono alla sua sinistra, a circa un metro e mezzo di distanza. C’è un che di comico in quella foto: Dodd, un uomo esile con il colletto bianco e inamidato, i capelli impomatati e separati al centro da una riga netta, fissa l’obiettivo con espressione severa, ma reso minuscolo da tutto quello sfarzo. La fotografia destò una buona dose d’ilarità fra quelli che al dipartimento di stato disapprovavano la sua nomina ad ambasciatore.

Il sottosegretario Phillips chiuse una sua lettera a Dodd scrivendo: «Una foto che la ritrae alla scrivania, sullo sfondo di uno splendido arazzo, si è diffusa a macchia d’olio, e devo riconoscere che è di grande effetto».

Dodd non perdeva occasione per violare alcune regole del l’etichetta, almeno agli occhi del suo consigliere d’ambasciata, George Gordon, e insisteva per andare a piedi alle riunioni con i funzionari di governo.

All’epoca per ricoprire certe cariche, bisognava fare parte di una élite, il prestigio di una persona si misurava anche dall’aspetto esteriore, dallo sfarzo del quale poteva circondarsi e dalla propensione ad una vita mondana a ritmo serrato che si concretizzava nel passare da una festa all’altra, da un ricevimento all’altro e nel possedere una certa compiacenza ipocrita, il dovere del diplomatico di lasciare ai margini lucidità e lungimiranza in favore di una mediazione fin troppo comprensiva nei confronti dei governi dei paesi ospitanti. Una delle “pecche” di Dodd, che lo aveva messo subito in cattiva luce, era stata proprio quella di non fare parte della giusta casta di aristocratici, di non amare le feste, di mantenere le sobrie abitudini di sempre, ma venne ostacolato anche per la sua perspicacia e per l’attitudine a non conformarsi al pensiero dominante e a ragionare e agire di testa propria.

D’altra parte è sempre stato così, il potere spetta ad una classe di privilegiati e se non ne fai parte o non ti adegui a certe regole, automaticamente vieni tagliato fuori. E noi italiani di caste ce ne intendiamo bene.

Il Presidente spostò quindi la conversazione su quanto si aspettava da Dodd. Prima di tutto, sollevò la questione del debito tedesco, manifestando in proposito sentimenti contrastanti. Riconosceva che i banchieri americani avevano realizzato quelli che definiva «profitti esorbitanti» concedendo prestiti a imprese e a città tedesche e vendendo ai cittadini americani obbligazioni collegate a quegli stessi prestiti. «Ma la nostra gente ha il diritto di essere rimborsata e, sebbene si tratti di una questione che va oltre le responsabilità del governo, voglio che lei faccia tutto il possibile per prevenire una moratoria», ovvero una sospensione dei pagamenti da parte della Germania. «Rischierebbe di ritardare il recupero dei nostri crediti». Il Presidente affrontò poi quello che sembrava ormai di moda chiamare “il problema” o “la questione” ebraica.

Roosevelt sapeva di doversi muovere su un terreno insidioso. Pur essendo sconcertato dal trattamento subito dagli ebrei per mano dei nazisti e consapevole della violenza che aveva sconvolto la Germania qualche mese prima, si asteneva dal pronunciare una condanna esplicita. […] Roosevelt, però, sapeva che il prezzo da pagare in termini politici per un’eventuale condanna della persecuzione nazista o per qualunque sforzo manifesto di favorire l’ingresso degli ebrei in America sarebbe stato con ogni probabilità immenso, perché nell’ambito del dibattito politico americano la questione ebraica era considerata come un problema d’immigrazione. La persecuzione degli ebrei in Germania evocava lo spettro di un massiccio afflusso di rifugiati in un periodo in cui l’America vacillava sotto i colpi della Depressione.

copertinaÈ strano come nel presente, quando si vive qualcosa non si riesca ad essere lucidi, c’è sempre una nebbiolina di fondo che impedisce di avere una visione chiara, soltanto a posteriori si colgono i segnali che invece avrebbero potuto salvare tante vite. L’importanza del particolare è fondamentale, a quei tempi nessuno si era reso conto di quanto la situazione fosse pericolosa, né si dava la giusta importanza a certi episodi apparentemente isolati, ma che in realtà miravano a compiere un disegno ben preciso. Alla base di tutto, prima dell’antisemitismo, come sempre accade, le ragioni erano squisitamente economiche: la Germania aveva infatti un debito enorme con gli Stati Uniti. Non mancò nemmeno naturalmente quel sottile filo di crudeltà che serpeggia negli esseri umani che trovano facilmente un motivo per sentirsi superiori all’altra metà del mondo e gli americani con l’esempio della schiavitù e del razzismo pesante nei confronti della gente di colore non hanno certo lesinato esempi stimolanti per il regime nazista. Addirittura Hitler citò, nel Mein Kampft, proprio lo sterminio americano degli indiani come modello pratico per la soluzione finale.

Chi ha l’ambizione di dominare il mondo o la gran parte di esso, sa che il terreno della violenza è costantemente fertile, perché c’è sempre qualcuno pronto ad odiare qualcun altro per futili motivi e così le menti che regolano i movimenti dei burattini, coloro che sfruttano questa attitudine tutta umana alla brutalità, possono coltivare il loro sogno di potere e denaro ( sì perché non c’è nulla di più remunerativo di una bella guerra), trovando manovalanza sempre fresca e prestante.

martha doddPersonaggio importante è anche la figlia di Dodd, Martha (era alta un metro e sessanta, e aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e un sorriso radioso. Aveva un’immaginazione venata di romanticismo e un atteggiamento civettuolo, due prerogative che avevano acceso la passione in molti uomini, più o meno giovani.) una bella ragazza esuberante e disinibita che frequenterà molti uomini a Berlino, tra i quali il capo della Gestapo, Rudolf Diels, e Boris Vinogradov, un esponente dell’ambasciata russa che la metterà in contatto addirittura con i servizi segreti sovietici con i quali sembra avere collaborato a lungo. Fu attraverso Diels che Martha iniziò per la prima volta a riconsiderare la sua visione idealistica della rivoluzione nazista. «Davanti ai miei occhi da sognatrice iniziò a prendere forma… un’immensa e complessa rete di spionaggio, terrore, sadismo e odio, a cui nessuno – si trattasse di un soldato semplice o di un ufficiale – poteva sfuggire». Sorprendente il mutamento di cui si fa portavoce, inizialmente affascinata, quando il nazismo sembrava un movimento rivoluzionario che tendeva al miglioramento del paese, arriverà ad un’avversione tale da passare all’estremo opposto, al comunismo. Del resto, lo stesso Dodd inizialmente cede al pensiero comune, lusinga un po’ il proprio leggero antisemitismo e parteggia per i nazisti, ma prevarrà in lui lo spirito democratico e una sorta di purezza, di integrità che gli permetteranno di mettere a fuoco la triste realtà.

Qualcosa lo abbandonò: un ultimo, vitale elemento di speranza. Nella pagina del suo diario dedicata all’8 luglio, una settimana dopo l’inizio delle purghe e a pochi giorni dal primo anniversario del suo arrivo a Berlino, scrisse: «il mio compito è lavorare per la pace e per un miglioramento delle relazioni tra Germania e Stati Uniti. Ma non vedo come sia possibile ottenere un qualunque risultato fino a quando Hitler, Göring e Goebbels saranno alla guida del paese. Non ho mai sentito parlare o letto di uomini che fossero meno adatti ad avere in mano il potere. Dovrei forse dimettermi dal mio incarico?»

Giurò che non avrebbe mai ospitato Hitler, Göring o Goebbels all’ambasciata o in casa sua, e concluse: «Non presenzierò mai più a un discorso del cancelliere, né chiederò un colloquio con lui, se non in circostanze ufficiali. Provo una sensazione di orrore anche soltanto a guardarlo».

Dodd è spettatore sottile, ma corrispondente incompreso, le sue intuizioni che avevano anticipato i tempi non vengono tenute nella giusta considerazione, semmai osteggiate e ridicolizzate, anche Martha, si rese presto conto della pericolosità di un regime subdolo che nascondeva le sue vere intenzioni. La lenta costruzione di Larson, la spiegazione minuziosa quasi giorno per giorno del 1934 trova il suo punto di non ritorno in quella che la storia denominerà la notte dei lunghi coltelli, che ebbe inizio il 30 giugno 1934, è quello il momento in cui Hitler scopre le sue carte e si mostra chiaramente come un uomo determinato a raggiungere i propri scopi, eliminando qualsiasi ostacolo si frapponga, con qualsiasi mezzo.

La purga di Hitler sarebbe diventata famosa come “la notte dei lunghi coltelli”, e sarebbe stata considerata dai posteri uno degli episodi più importanti della sua ascesa, il primo atto nella grande tragedia della “pacificazione”. In un primo tempo, però, nessuno ne comprese a fondo il significato. Non vi fu un solo governo che richiamasse il suo ambasciatore o inoltrasse una protesta formale, né la popolazione si ribellò, mossa dal disgusto per quanto era accaduto.

Dodd diventerà sempre più intollerante rispetto alle iniziative dei nazisti tanto da rifiutarsi di partecipare alle adunate e mandando dispacci su dispacci in patria, con l’unico effetto di inasprire fortemente il governo nazista, che ne chiederà formalmente il trasferimento. Ad insaputa di Dodd, che voleva dimettersi, ma non subito per evitare l’impressione che ogni protesta dei tedeschi venisse subito accolta, Roosevelt aveva invece ceduto alle pressioni del dipartimento di Stato e del ministero degli Esteri tedesco e aveva deciso che Dodd sarebbe stato rimosso dall’incarico entro la fine dell’anno 1937. Dodd protestò, ma invano. Soltanto un anno dopo, nel novembre del 1938, dopo la tristemente nota Notte dei cristalli, Roosevelt condannò pubblicamente il governo tedesco. Il resto è l’abominio che tutti sappiamo.

Nel settembre del 1939 le armate di Hitler invasero la Polonia, scatenando la guerra in Europa. Il 18 settembre, Dodd scrisse a Roosevelt che sarebbe stato possibile evitare il conflitto se «le democrazie europee» avessero semplicemente agito di concerto per fermare Hitler, come Dodd aveva sempre suggerito.

«Se avessero cooperato» scrisse l’ex ambasciatore, «ce l’avrebbero fatta. Adesso è troppo tardi».

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Il ponte sulla Drina. Crocevia del molteplice.

E il ponte continuava a stare, tale quale era da secoli, con la sua eterna giovinezza di perfetto disegno e di buona e grande opera umana, una di quelle opere che non conoscono vecchiaia e trasformazioni e che, almeno così sembra, non condividono la sorte delle cose transitorie di questo mondo.

Il ponte, per definizione, assicura la continuità, è simbolo del congiungimento di ciò che è diviso e nell’unire due versanti può collegare paesi diversi, ottiche opposte, fare da tramite nelle divergenze apparentemente insanabili, diventare il luogo dove l’uno e il molteplice confluiscono, creare una zona neutrale dove gli opposti possono felicemente coincidere.

il ponte sulla drinaFinché durarono i festeggiamenti, e nei primi giorni in generale, la gente attraversò il ponte innumerevoli volte da una riva all’altra. I ragazzi andavano di corsa e gli anziani lentamente, conversando o ammirando da ogni punto le vedute del tutto nuove che adesso si potevano contemplare da quel posto. Gli infermi, gli zoppi e i paralitici vennero portati in barelle, perché nessuno volle mancare e rinunciare alla propria parte di quel miracolo. Ciascun abitante della cittadina, anche il più misero, ebbe la sensazione che le sue capacità si fossero all’improvviso moltiplicate e che la sua energia fosse cresciuta; come se un’impresa meravigliosa, sovrumana, fosse scesa alla portata delle sue forze ed entro i limiti della vita quotidiana; come se accanto agli elementi fino allora conosciuti -terra, acqua e cielo- ne fosse stato scoperto uno nuovo; come se, per benefico intervento di qualcuno, per tutti e per ciascuno fosse stato attuato uno dei più profondi desideri, un antico sogno degli uomini: camminare sopra le acque e dominare lo spazio.

andric il ponte sulla drinaUn ponte è al centro della narrazione del libro di Ivo Andrić, grande scrittore jugoslavo e premio Nobel per la letteratura nel 1961, Il ponte sulla Drina (1945) e grazie a tale espediente, il racconto può comprendere un arco temporale che un personaggio in carne ed ossa non potrebbe coprire. Naturalmente non si tratta di un ponte qualsiasi, Mehmed Paša Sokolović si trova infatti in una zona di frontiera, a Višegrad, una cittadina situata in Bosnia, al confine con l’area Serba della Repubblica Srpska, ma è anche un viadotto tra oriente e occidente, tra cristiani e musulmani. Il ponte diventa così il muto osservatore degli accadimenti storici e di tutte le storie personali che si avvicendano lungo un periodo che va dal 1500 fino alla Prima Guerra Mondiale.

La comunità di Višegrad, composta di ebrei, turchi e cristiani, in eterno conflitto tra loro, viene “salvata” in un certo senso proprio dal ponte, una costruzione sospesa, che sfida gli elementi e che, nei periodi storici più difficili in cui l’intera comunità è in pericolo, si offre come punto d’incontro, come momento di aggregazione, luogo senza tempo dove la lotta contro un nemico comune fa finalmente dimenticare ogni diversità.

Le fondamenta del mondo e le basi della vita e dei rapporti umani sono fissate per secoli. Questo non significa che esse non mutino, tuttavia, misurate col metro della vita degli uomini, sembrano eterne. Il rapporto tra la loro durata e la lunghezza dell’esistenza umana è paragonabile a quello che esiste tra l’irrequieta, mobile e veloce superficie di un fiume e il suo fondo stabile e saldo, le cui trasformazioni sono lente e sfuggono all’osservazione.

Una costellazione di racconti si incastra nella storia più ampia, quella ufficiale, alcuni scavano nella leggenda, altri sono realmente accaduti, altri ancora sarebbero potuti accadere e contemporaneamente trovano posto anche le imprese degli eroi popolari, gli usi, le tradizioni cruente, come la descrizione particolareggiata dell’esecuzione di un uomo condannato ad essere impalato, e tanti altri particolari storici insieme ad altrettanti personaggi che si incrociano tutti sul ponte. In particolare il punto di ritrovo è la cosiddetta porta, una sorta di terrazza che fa da salotto alla città, il luogo di convegno nella terra dell’universalità, laddove non ci possono essere differenze etniche, di ceto sociale o religiose ed è proprio lì che si decide di volta in volta il destino della comunità.

Per una legge di natura la gente s’opponeva a tutte le novità, ma non spingeva questa sua opposizione fino alle estreme conseguenze, dato che, per la maggioranza, la vita è più importante e più rapida delle forme nelle quali si vive. Solo in alcuni individui, eccezionalmente, si svolgeva un lungo, sincero dramma a causa della lotta tra il vecchio ed il nuovo. Per loro il modo di vivere era inseparabilmente e incondizionatamente connesso con la vita stessa.

Ivo AndricTuttavia c’è una forza potentissima di distruzione portata avanti dalla guerra mondiale che apre una nuova epoca, quella della modernità devastatrice che anticipa i venti nazionalisti fomentatori dei prossimi genocidi e proprio quella forza riuscirà a spezzare il vecchio simbolo di immortalità, aprendo, giusto in mezzo al ponte, una voragine che precipita nell’abisso della stupidità umana, energia disgregatrice senza pari, madre dell’arroganza e della prevaricazione, colei che sempre costringe a tornare indietro, affinché tutto il cammino evolutivo rallenti e si perda nei corsi e ricorsi storici, perché nella dimensione terrena è ancora la separazione che trionfa sull’unità. Nel corso della Prima Guerra Mondiale furono infatti distrutte tre arcate del ponte e altre cinque durante la Seconda Guerra Mondiale, oggi il ponte ricostruito fa parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

Tanti anni Iddio ha mandato sulla cittadina accanto al ponte, e tanti ancora ne manderà. Ce ne sono stati e ce ne saranno di ogni genere, ma il 1914 resterà per sempre separato dagli altri. Così almeno sembra a coloro che l’hanno vissuto. Ad essi pare che mai, per quanto si possa raccontare o scrivere, si potrà né si oserà dire tutto quel che s’è veduto allora nel fondo del destino umano, fuori del tempo e al di sotto degli avvenimenti. Chi potrebbe esprimere e riferire (così pensano!) quei brividi collettivi che d’un tratto hanno scosso le masse e che poi, dalle creature viventi, hanno cominciato a trasmettersi alle cose morte, ai quartiere e agli edifici? Come descrivere l’ondeggiare di sentimenti nella gente, passata dalla muta paura animalesca alla follia suicida, dai più bassi istinti di sanguinaria e subdola brama di saccheggio alle più nobili imprese che richiedono spirito di sacrificio e nelle quali l’uomo trascende se stesso e attinge per un attimo sfere di mondi superiori reggentesi su leggi diverse da quelle umane? Ciò non potrà mai essere detto, perché chi contempla simili eventi e ad essi sopravvive, ammutolisce, e i morti, dal canto loro, non possono parlare. Queste son cose che non si dicono, ma si dimenticano. Se infatti non si dimenticassero, come potrebbero ripetersi?

Ma se il viaggiatore è anche il viaggio e dunque anche il percorso, che cosa meglio del ponte può rappresentarne il congiungersi? Un ponte abbraccia una simbologia infinita, oltre a collegare due punti che altrimenti non potrebbero mai unirsi rappresenta anche qualcosa di immobile che però, paradossalmente, è come se fosse sempre in movimento attraverso il continuo viavai di persone, di epoche, di storie che lo attraversano. In effetti come un arcobaleno rappresenta l’idea dell’impermanenza nella realtà, dell’intangibile che pure si vede, così il ponte si spinge oltre la sua natura materiale sconfinando nel campo dell’ideale. Il sentiero che unisce due dimensioni dall’aspetto inconciliabile, che ci rende presenti e assenti, carne e spirito, terreni eppure ad un passo dal cielo. Se non impariamo a guardare, come potremo mai vedere?

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La lingua perduta delle gru. Astengansi perditempo omofobici.

la lingua perduta delle gruRose ed Owen, marito e moglie, vivono in una zona di Manhattan in piena ristrutturazione, e si trovano nella difficile situazione di dovere affrontare una scelta importante ovvero indebitarsi e acquistare l’appartamento dove abitano da tanti anni, oppure lasciarlo e cambiare quartiere. Da un pretesto apparentemente banale come questo si scava intorno a loro tutto un cantiere di menzogne, per cui la perdita della casa diviene metafora di tutta una vita da rimettere in sesto. Entrambi vivono nel proprio mondo e adesso che sono costretti a decidere qualcosa insieme si accorgono che da molto tempo avevano smesso di farlo per tutto il resto. Emblematico l’incontro tra i due, in una domenica fredda e piovosa, durante la quale entrambi escono e casualmente s’incrociano in una strada lontana da casa, persi in una deambulazione distratta al mondo circostante, che li spinge ad osservarsi per ciò che sono diventati, due estranei, sconosciuti l’uno all’altra. Gli altri personaggi importanti sono Philip, figlio di Rose e Owen, e Jerene una ragazza di colore adottata da una famiglia benestante, ansiosa di integrarsi in un mondo di bianchi sposandone principalmente le regole morali. Entrambi decidono di fare coming out, ovvero di dichiarare la propria omosessualità. Nel caso specifico la rivelano ai propri genitori scoprendo amaramente quanto sia già difficile accettare se stessi, ma come diventi un problema insostenibile se ci si aspetta che gli altri facciano altrettanto, a maggior ragione se questi altri sono proprio coloro che pensi ti accoglieranno in qualsiasi circostanza, coloro che ti ameranno a prescindere.

«Allora ti dirò una cosa. Ti dirò che avrei preferito che mi dicessi che avevi un cancro.» Non distolse mai lo sguardo dagli oleandri.

«Papà» disse lei. «Come fai a dire una cosa del genere; come fai a startene lì e dirmi una cosa del genere?»

«Dico sul serio» disse lui, girandosi. «Sei sempre stata una delusione per noi, ci hai sempre dato dei problemi. E adesso tornare a casa con questo… Questa porcheria, questo sacrilegio. Cosa ti aspettavi che facessi, che mi rilassassi sulla poltrona e sorridessi?»

«È come un lutto» mormorò Margaret piano piano dal sofà, tra i singhiozzi. «È come se fosse morta.»

«Mamma!» disse Jerene. «Papà! Non dite queste cose. Io sono ancora la stessa. Sono sempre vostra figlia, la vostra Jerene. Vi prego! Sto solo cercando di essere onesta con voi, di dirvi la verità per una volta.»

Suo padre allontanò gli occhi da lei, guardò ancora una volta fuori della finestra. «Tu non sei mia figlia» disse. «Ringrazio Dio almeno per questo. Tu non sei mia figlia.»

E così strappò il machete che gli era stato piantato nel cuore, lo girò e tagliò via di netto Jerene.

E questo succede in effetti, Jerene sarà tagliata via dalla loro vita per sempre, del resto essere diversi equivale in tutte le circostanze ad una morte sociale e chi vuole avere un morto in giro per casa? Meglio spazzarlo via dalla società e dalla propria vita. La vicenda sembra ancora più paradossale se si pensa che tanta intolleranza proviene da gente di colore che ha vissuto secoli di oppressione da parte di una fetta di privilegiati e che continua a subire discriminazioni in tutti gli ambiti, per un motivo futile come il colore della pelle. Eppure il bisogno di farsi accettare dagli altri supera qualsiasi altra esigenza e riesce a trasformare le vittime in aguzzini.

«Oggi?» fece Jerene. «Oggi ho scritto il mio capitolo su quelle famose gemelle che hanno inventato la loro lingua. Due bambine. Non so se avete sentito parlare del caso, ma dopo che le hanno scoperte c’è stato un grosso dibattito per decidere se bisognava separarle e costringerle a imparare l’inglese, o tenerle unite, in modo che la lingua potesse essere studiata. Come probabilmente potete immaginare, hanno vinto gli assistenti sociali, per il bene delle bambine. Immagino sia stata la cosa giusta da fare. Tuttavia, quando penso a quel che si sarebbe potuto imparare… ci sono dei nastri delle loro conversazioni, sapete. Non assomigliano a niente che si potrebbe imitare. Mi rattrista. Mi sembra che il mondo abbia abbastanza lingue perdute.»

david leavittLa lingua perduta delle gru (1986) è il primo romanzo di David Leavitt, reso famoso da una raccolta di racconti, Ballo di famiglia (1984), il titolo fa riferimento al caso clinico del bambino-gru, la cui storia è narrata nel brevissimo capitolo centrale del libro. Un capitolo che sembra spezzare, dividere a metà il romanzo, ma che in realtà unisce, lega tutti gli elementi, fornendo la chiave di lettura, sì perché tutte le lingue perdute si portano dietro un abisso di solitudine, emarginazione, di dolore, tutte le emozioni che sono costretti a subire coloro che non seguono i dettami sociali, le consuetudini millenarie che vengono reputate “verità”, “salvezza”, “giustizia” e soprattutto “fare la cosa giusta per” e come si fa a contrapporsi a questi colossi di moralità?

Quel che è davvero rilevante è che l’unica scelta possibile, nel caso di queste due gemelle, era la scelta che è stata fatta. La lingua doveva morire. La cosa pertinente è l’integrazione di quelle bambine, quella, e quanto con essa è andato perduto.

Certo una lingua è sacrificabile, un figlio gay è sacrificabile, e con essi tutto ciò che portano dentro di sé, chiunque turbi l’ordine sociale va processato per direttissima e condannato alla pena capitale.

E proprio la reietta Jerene il frutto marcio di un bel cesto di mele perfette penserà la frase più importante del libro, capirà il meccanismo fondamentale che muove le cose:

Come dovevano essere parse meravigliose e grandiose quelle gru a Michel, in confronto alle piccole e goffe creature che lo circondavano. Perché, Jerene ne era convinta, ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo.

Comunque ci si veda davanti allo specchio è quello che amiamo, è quello che siamo, e tutto il resto, ciò che ci sembra provenire dagli altri non è che una parte di noi che proiettiamo in giro per il mondo. Così quando rimaniamo delusi nello scoprire che chi ci sta accanto non è come pensavamo che fosse è solo perché non lo è mai stato e tutte le belle cose che abbiamo visto in passato in verità venivano soltanto da noi.

Il paragone tra il bambino-gru e tutte le forme di comunicazione private, interiori, non esportabili all’esterno e l’omosessualità è un modo molto poetico per trascinare il lettore dentro un problema in realtà inesistente, ma che viene trasformato in tragedia dal bigottismo imperante, solo perché non si ha la capacità e la voglia di comprendere l’altro, per paura di essere contagiati, infettati dal morbo della diversità ed essere costretti a vivere in un mondo a parte.

I genitori di Philip, per quanto colti e senza pregiudizi e complessi pregressi non gradiscono la confessione del figlio. Rose, abituata all’ordine, (non per nulla lei fa l’editor, rimette in sesto i manoscritti altrui ed è appassionata di cruciverba ed acrostici), subisce la rivelazione come un fulmine inatteso: Io non sono una donna senza pregiudizi. Peggio vanno le cose per Owen che si sente messo forzatamente di fronte a uno specchio essendo a sua volta omosessuale, ma che ha vissuto sempre nell’ombra, concedendosi unicamente un cinema porno la domenica pomeriggio per fare poi il marito irreprensibile, serio e lavoratore, per il resto della settimana.

La mescolanza di significato, l’intreccio di un insieme di parole nell’altro, tutto aveva senso come principio curativo, e, all’improvviso, si chiese se tutti i revisori, gli enciclopedisti, i cartografi e i redattori di cruciverba non fossero gente che si era imbattuta nelle proprie carriere perché aveva un bisogno disperato e continuo di dimenticare le cose. “Gli avvoltoi del mondo pensante” li aveva definiti una volta Owen, che si nutrivano degli avanzi del pensiero, di ciò che rimaneva dopo che grandi documenti storici o scientifici erano stati ridotti a dimensioni ragionevoli. Come stava imparando Rose, queste carcasse erano meglio dell’alcol. Questa benigna e inutile attività letteraria imbavagliava il cervello: bloccava dolore, angoscia, panico. In un’esplosione di amara energia, Rose buttò giù Thomas Mann e Timone d’Atene sul cruciverba. Sparò fuori sinonimi come proiettili, ma alla fine le faceva terribilmente male la testa, come se la sua scatola cranica fosse una cosa gonfia e vuota. Il cruciverba ordinatamente completato aveva assorbito ogni ordine; la sua vita rimaneva quella che era.

Come al solito ci troviamo di fronte al terribile problema dei condizionamenti che millenni di religioni monoteiste ci hanno inflitto. Alla base di tutto c’è il verbo, la parola, così imperfetta e fuorviante da poter essere utilizzata a convenienza. In effetti è la confessione di Philip a distruggere l’equilibrio familiare, la parola detta porta lo scompiglio, fino a quel momento infatti, pur vivendo tutti nella menzogna, (perché anche Rose non è scevra da “colpe”, avendo avuto degli amanti durante il matrimonio), l’apparenza di famiglia “normale” era salva. La confessione del ragazzo fa saltare tutti gli equilibri perché anche Owen non può più nascondere la propria natura e su Rose dunque si concentrano tutti gli spettri terrificanti che qualsiasi benpensante vorrebbe tenere molto lontani da sé: un figlio gay, un marito gay e uno sfratto imminente. Ma a cosa serve nascondersi dietro l’ordine e la perfezione se poi le cose non sono così, se si vive tutta una vita di bugie, se poi la vita rimane quello che è, al di là di ogni possibile paravento?

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Yes, yes, yes. Vade retro, redenzione!

Sono arrivato qui con l’intenzione di distruggermi. Avvertivo la necessità di frantumarmi almeno per una volta in mille pezzi.

Hisao Hiruma (1960) ha esordito con il romanzo Yes, yes, yes nel 1989 ed ha avuto un successo immediato malgrado il testo crudo e diretto che descrive la vita di alcuni giovani, per la maggior parte minorenni, che si prostituiscono in un quartiere gay di Tokyo. Jun, il protagonista, inizia questa attività con l’intento di autodistruggersi e finisce con l’essere risucchiato in quella maledizione che colpisce il genere umano quando, a furia di fare una cosa, la svuota, privandola di significato e trasformandola in routine. In questo caso prostituirsi diventerà semplicemente il mezzo per guadagnare molti soldi, lavorando per poche ore al giorno. Ci si abitua a tutto, è proprio vero.

Da quando sono arrivato in questo quartiere la mia vita non è stata altro che un susseguirsi di giornate rarefatte. Da allora è già trascorso un anno e in mano non mi ritrovo nulla: è come se il tempo mi avesse sfiorato. Sarà forse perché per la vita che conduco non vedo mai la luce del sole, ma ormai sono convinto che la linea di demarcazione tra un giorno e l’altro esista solo nei calendari. Il cielo con il sole che al mio risveglio è sul punto di tramontare, quando lascio la stanza è già una visione blu elettrica dove per tutta la notte, come in un foglio di cellofan posto alle mie spalle, scorrono senza interruzione scene di una realtà fittizia come in un copione cinematografico.

Di questo mondo degradato l’autore fa un ritratto attento senza concedere nulla alla morale, al pregiudizio o ad una qualsiasi forma di pensiero religioso e proprio per questo esalta lo squallore di certe situazioni e mette in ridicolo alcune pratiche severamente condannate dall’occhio sociale, ma che sono proprio il frutto di una repressione millenaria che le ha travestite di teatralità, di artificio, performance imprevedibili, alla ricerca di un piacere in perenne fuga e alla fine inafferrabile, sempre irraggiungibile.

D’un tratto, mentre annuivo con la testa, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Qualcosa nella parte più profonda di me si era rotto senza il minimo rumore; un senso di spossatezza come se in un attimo il ghiaccio che mi ricopriva si fosse disciolto, un senso di vuoto come se una parte importante del mio essere non esistesse più. È naturale che avessi il petto gonfio di una tristezza indicibile, di un immotivato, profondo e cupo sconforto, ma per strano che possa sembrare era una tristezza con tinte di felicità, uno sconforto con un non so che di beatitudine. La coscienza e tutti quei sentimenti che mi avevano fino a quel momento oppresso erano spariti con dolcezza; si erano volatilizzati di colpo lasciandomi nella pura, debole ed evanescente condizione di un neonato.

Lo spesso strato di sovrastrutture culturali ci opprime fin dalla tenera età facendo di noi dei personaggi che sono solo il lontano ricordo di ciò che è la nostra vera sostanza. Anzi spesso rimane sconosciuta perfino a noi stessi, perché non è per niente facile, non soltanto rendersi conto di essere delle maschere, ma anche liberarsi dell’intero travestimento.

La lotta intrapresa che era rabbia contro se stessi, desiderio di annullamento, mortificazione di sé, prosegue il suo cammino e porta Jun laddove, forse, non pensava nemmeno di arrivare. Non ha più risentimento contro se stesso, ma lungo il sentiero lastricato di abusi, violenza, a volte vera ferocia, umiliazioni di ogni tipo, giunge a una specie di morte interiore che lo spegne, che non gli fa più provare alcun sentimento.

Per me il primo mattino è un momento intimidatorio in cui la coscienza viene dolorosamente denudata, è un momento incolore in cui la pelle ruvida e secca come un deserto, senza più niente che la protegga, viene profanata.

Hiruma racconta le storie di giovani che si prostituiscono con altri uomini pur non essendo gay ed inevitabilmente arriva a trattare l’argomento sesso in una prospettiva totalmente priva di sfumature romantiche, nella sua accezione meramente fisica dettata dall’istinto. La dimensione che tenta di avvicinare è perciò molto complessa venata di violenza e perversione. Anche in questo campo, come per l’impostazione generale dell’esistenza, tutto si basa su un problema di fondo ovvero desiderio di conquista e desiderio di dominio, entrambi i sentimenti impediscono il raggiungimento reale del piacere, problema che viene acuito dalla consapevolezza che il piacere raggiunto da un uomo è talmente grezzo se paragonato a quello di una donna. É ridicolo da tanto è semplice, e questa impossibilità scatena poi una sorta di rabbia interiore che sfocia spesso in violenza fisica, una violenza che si finisce con l’accettare in quanto inevitabile.

Avrei potuto opporre resistenza, è vero, ma dentro di me un incomprensibile stimolo chiedeva accettazione passiva. Mistero dei meccanismi dell’animo umano. Le corde del mio animo erano tese al massimo, avrebbero potuto rompersi con la stessa facilità di una sottilissima lastra di ghiaccio. Ero terrorizzato e al tempo stesso in attesa di qualcosa: di una speranza tragica, di un brivido puro, cristallino, solenne e soave, di un piacere. Non potei evitare di rilassarmi, come a volere rinunciare a me stesso. Tremavo dal terrore e ardevo dal desiderio.

Sembra quasi che l’unica dimensione possibile perché si svolga la rappresentazione, atto dopo atto, sia quella della tragedia. C’è sempre un punto in cui si oltrepassa la soglia e si sconfina in un eccesso che vanifica e al tempo stesso esalta ogni azione, quasi come se la morte (non sempre solo simbolica) fosse l’unica misura possibile per concludere un amore che non può esplicarsi se non nel dolore e nella sofferenza totali. Questo mondo di uomini offre una varietà completa di personaggi tristi, ridicoli nei loro eccessi, che sembra tentino di esorcizzare una mascolinità socialmente integerrima con atteggiamenti parossistici, quasi fosse la parodia di se stessi offerta in pasto a un mondo di famelici osservatori.

Le emozioni sono le uniche cose sulle quali non ho dubbi; non si possono controllare, erompono spontanee e all’improvviso, quando siamo in sintonia con qualcosa, quando ci sentiamo legati a qualcosa. Quell’uomo era riuscito a scrutare dentro di me, e anche se non era mia intenzione che qualcuno vi riuscisse, lui l’aveva fatto, e ne era rimasto dolorosamente toccato. In quel momento mi bastò questo, e ne fui così felice che quasi iniziai a piangere.

Eppure c’è una debolezza che ci contraddistingue tutti indistintamente, quella ricerca spasmodica dell’amore e della comprensione altrui, finisce sempre col manifestarsi, anche laddove sembra impossibile e anche quando si vuole negarla aprioristicamente. In un modo o nell’altro riesce a farsi strada a scavare un tunnel sottopelle dove si muove la terribile speranza, le cui bolle d’aria di vita prima o poi salgono a galla, anche nella più densa pozza di fango. Ed è qui, nel desiderio di compenetrare entrambi gli universi, maschile e femminile, nel continuo fluire che rende tutti esseri angelici e asessuati che si potrebbe trovare una via di scampo. Ma l’intuizione, come sempre è l’istante del lampo, la fugace visione dell’inafferrabile, poi tutto torna come prima, tranne che per la presa di coscienza, sapere ciò che si è senza mistificazioni, senza volere a tutti i costi sublimare la realtà. Esistere, in fondo, è più che sufficiente.

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