A volte sembra che, senza motivo, la percezione di ciò che ci circonda muti repentinamente, ma in realtà è solo la nostra attenzione che, rafforzata e stimolata, ci permette di accorgerci di come tutto sia collegato, persone, cose, pensieri, e a partire da quel momento quelle che un tempo si ritenevano paradossali coincidenze che lasciavano a bocca aperta per lo stupore, adesso fanno sorridere amorevolmente e nel quadro ben più ampio che ci sta di fronte si intrecciano logicamente in una concatenazione che vibra insieme all’universo.
Naturalmente i libri non fanno eccezione, né i messaggi di cui si fanno portavoce. Così può capitare spesso di essere costretti ad indugiare sulla capacità o meglio l’incapacità della parola ad esprimere determinate emozioni, sensazioni, procedimenti mentali.
Fu la mattina più mite di quell’inverno. C’era il sole, come i primi giorni di aprile. La brina si scioglieva e l’erba bagnata brillava come spruzzata di rugiada… Avevo passato l’unica mattinata di cui disponevo rivedendo mille cose, sempre più malinconico in quella luce d’inverno, sotto quelle nuvole – e avevo dimenticato il vecchio giardino e quel pergolato di tralci di vite all’ombra del quale si era decisa la mia vita… vivere a immagine di quella bellezza: questo avrei voluto saper fare. La nitidezza del paesaggio, la trasparenza, la profondità e il miracolo di quell’incontro dell’acqua, della pietra e della luce… ecco la sola conoscenza, la prima morale. Questa armonia non è illusoria. È reale, e davanti a lei sento la necessità della parola…
Esiste una lingua che possa dire tutto ciò che normalmente è indicibile? Una lingua fatta di suoni, di gesti, di emozioni che saltano fuori dalla parola? Di certo ognuno di noi, lungo il corso della vita elabora un codice personale che segue più o meno queste direttive e che si rivolge sì principalmente ad un dialogo interiore, ma anche all’esterno, si proietta sulle persone amate o particolarmente attente. Più facile, in generale, è trovare l’espressione di quel miscuglio emotivo per esprimere il quale le parole sono sempre in difetto, in altri strumenti della comunicazione, ad esempio nella musica. La musica riesce a farsi strada laddove le parole non arrivano e a penetrare gli anfratti più remoti e spesso sconosciuti che pure ci appartengono.
L’indicibile! Misteriosamente legato, ora lo capivo, all’essenziale. L’essenziale era indicibile. Incomunicabile. E tutto ciò che al mondo mi torturava con la sua muta bellezza, tutto ciò che faceva a meno della parola, mi appariva essenziale. L’indicibile era essenziale. Quella equazione fece scattare nella mia giovane mente una sorta di corto circuito intellettuale. E grazie alla sua concisione arrivai, quell’estate, a una verità terribile: «la gente parla perché ha paura del silenzio. Parla meccanicamente, a voce alta o fra sé, si inebria di quella poltiglia verbale che invischia ogni oggetto e ogni individuo. Parla della pioggia e del bel tempo, parla di soldi, d’amore, di niente. E adopera, anche quando parla di passioni sublimi, parole dette e stradette, frasi logore. Parla solo per parlare. Per scongiurare il silenzio».
Il testamento francese di Andreï Makine è un libro sapiente e delicato, scritto con la grazia dei grandi narratori che fanno la differenza e che usano ogni singola parola con intenti molteplici che vanno sempre oltre la semplice descrizione di personaggi o eventi, poiché sono tutte parole con un’anima e con un’intenzione.
Strade serpeggianti, polverose, che si arrampicavano senza fine sulle colline, steccati di legno all’ombra dei giardini. Sole, viali sonnolenti. E passanti che spuntavano in fondo a una strada e sembravano avanzare eternamente senza mai arrivare alla vostra altezza.
Il protagonista del libro racconta la storia di una donna straordinaria, la nonna, Charlotte Lemonnier, ma anche la storia di due mondi messi a confronto, la Francia da un lato, espressione della creatività della lingua artistica, delle emozioni, dei sentimenti, e la Russia dall’altro, espressione della realtà, della vita dura che si apre sulla steppa sconfinata e che usa la lingua della quotidianità, della sofferenza, del dolore di vivere. Lui e la sorella, da bambini, trascorrono le vacanze estive a casa della nonna, in una cittadina, Saranza, costruita proprio al limitare della steppa e lì, a partire da una vecchia valigia, piena di scartoffie, che custodisce i ricordi di tutta una società, di un’epoca oltre a quelli personali di Charlotte, inizia un percorso a ritroso nella storia dei due paesi, un tragitto che si perde nel groviglio inestricabile dell’interiorità e che sfiora gli eventi prima di penetrarli a fondo per poi librarsi verso altre destinazioni. Ogni sera i nipoti ascoltano la nonna raccontare episodi realmente accaduti legati ai ritagli di giornale o ai suoi ricordi di vita vissuta e seguendo i racconti di Charlotte si finisce per viverli insieme a lei poiché vivere vicino a lei significava già sentirsi altrove.
Passavo le vacanze dalla nonna, in quella città ai margini della steppa dove aveva deciso di fermarsi alla fine della guerra. Era quasi il crepuscolo, un crepuscolo estivo caldo e pigro che inondava le stanze di una luce viola. Quel chiarore vagamente irreale si posava sulle fotografie che stavo osservando davanti a una finestra aperta. Erano le foto più vecchie degli album di famiglia; immagini che arrivavano e superavano il limite immemorabile della rivoluzione del 1917, risuscitavano il tempo degli zar e aprivano addirittura un varco nella cortina di ferro, allora impenetrabile, trasportandomi sia sul sagrato di una cattedrale gotica, sia lungo i viali di un parco la cui vegetazione mi lasciava perplesso tanto era inesorabilmente geometrica. Piombavo nella preistoria della nostra famiglia.
La Francia si trasforma dunque in una sorta di Atlantide, un mito perduto all’interno del quale rifugiarsi e che diventerà la patria del protagonista, il regno della scrittura. Allo stesso modo Makine, russo di nascita, trasferitosi in Francia deciderà di scrivere i suoi libri in francese. E sembra che sentire di appartenere a qualcuno o a qualcosa, a una patria, ad una cultura e perfino ad una lingua sia estremamente importante per le persone. Nel protagonista bambino si crea una scissione, una dualità solo per il fatto di essere un po’ russo e un po’ francese e dunque per non appartenere interamente a nessuna delle due parti. Questo gli causerà addirittura problemi di socializzazione, i compagni infatti lo emargineranno come se fosse un appestato, qualcuno di cui non ci si può fidare. Ma questa scissione diverrà poi utile all’adulto che comprenderà meglio l’esclusione della Russia dal resto del mondo ai tempi della cortina di ferro e la conseguente diffidenza per il diverso, tipica di tutte le popolazioni costrette a vivere un isolamento prolungato. Ma sarà anche fonte di apprendimento, di conoscenza e di scelta di libertà attraverso lo studio e la lettura degli autori francesi che lo accompagneranno verso la maturità e ad un tempo ritrovato d’ispirazione proustiana.
A quel punto capii che l’Atlantide di Charlotte mi aveva lasciato intravedere, fin dall’infanzia, quella misteriosa consonanza di istanti eterni. E a mia insaputa essi avevano tracciato, da allora, una specie di altra vita invisibile, inconfessabile, parallela alla mia. Allo stesso modo, un falegname che per tutto il giorno sagoma gambe di sedie, o pialla assi non si accorge di una trina di trucioli che forma sul pavimento un bell’arabesco scintillante di resina e, con la sua trasparenza chiara, cattura oggi un raggio di sole che filtra attraverso una finestrella ingombra di attrezzi, domani, il riflesso azzurrino della neve.
Era questa la vita che ora si rivelava essenziale. Bisognava, ancora non sapevo come, farla sbocciare in me. Bisognava, con una elaborazione silenziosa della memoria, imparare a riconoscere i passaggi graduali di quegli istanti. Imparare a preservare la loro eternità nella routine dei gesti quotidiani, nel torpore delle parole banali. Vivere, consapevole di quella eternità.
Un libro sull’identità e sulla memoria tracciato dalla vita di una donna che attraversa pezzi di storia intrisi di orrore, ma che comunque alla fine fa l’unica scelta possibile, sebbene agli altri risulti incomprensibile, quella della libertà di creare e ri-creare di continuo la propria storia, al di fuori dei limiti temporali.
Perché la capivo molto bene io la ragione per cui Charlotte teneva tanto a quella sua cittadina di provincia, e mi sarebbe stato facile spiegare la sua scelta agli adulti riuniti nella nostra cucina. Avrei evocato l’aria secca della grande steppa che nella sua muta trasparenza distillava il passato. Avrei parlato di quelle strade polverose che non portavano da nessuna parte perché sbucavano, tutte, sulla stessa pianura infinita. Di quella città dalla quale la storia, decapitando le chiese ed estirpando le “ridondanze architettoniche”, aveva scacciato ogni nozione di tempo. La città in cui vivere significava rivivere di continuo il proprio passato compiendo meccanicamente i gesti quotidiani.
Ma quanti di noi sono pronti a prendersi la libertà della scelta a prendere per mano la propria esistenza e condurla passo dopo passo, istante dopo istante in un flusso continuo di avanzamenti e ritorni, salti nel vuoto, cambiamenti di prospettiva, universi paralleli, dolore, sfortuna, errori eclatanti, ma con la sensazione di poterla sempre riplasmare, fuori dall’abitudine di vedere tutto a senso unico?
Il fatto è che per quanto iniziato alla magia della memoria, all’arte di ricreare un istante perduto, l’uomo resta essenzialmente attaccato ai feticci materiali del passato: come quel prestigiatore che, avendo acquisito per grazia di Dio facoltà da taumaturgo, a quel dono preferiva l’abilità delle dita e le valigie a doppio fondo, che avevano il vantaggio di non turbare il suo buon senso.
[…] Gli occhi afferrano prima della mente, soprattutto quando si tratta di qualcosa che la mente non vuole capire. Nel breve attimo d’indecisione, lo sguardo cerca di spezzare l’implacabile concatenazione delle parole, come se potesse cambiare il messaggio prima che il pensiero accetti di coglierne il senso.