Archivi categoria: visioni

Gli “Incontri con uomini straordinari” di Gurdjieff.

copertinaGeorges Ivanovič Gurdjieff (1872-1949) filosofo, santone, mistico, scrittore, maestro di vita, viaggiatore, protagonista di avventure rocambolesche e fuori dall’ordinario, ha avuto un grande numero di discepoli durante la sua vita e ancora oggi i suoi seguaci sono distribuiti in tutto il mondo. Arrivato in Francia nel 1922 fonda l’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo al castello del Prieuré, presso Fontainebleau. Qui i suoi discepoli si riunirono in una comunità indipendente, il cui scopo principale era quello di compiere un’approfondita conoscenza di sé applicando il metodo del maestro, attraverso tecniche ed esercizi ben precisi. Dopo un grave incidente automobilistico avuto nel 1924 Gurdjieff inizia la sua attività di scrittore per tramandare la sua dottrina anche dopo la morte.

Dal mio punto di vista, può venire chiamato straordinario soltanto l’uomo che si distingua da quelli che lo circondano per le risorse del suo spirito e che sappia contenere le manifestazioni provenienti dalla propria natura, pur mostrandosi giusto e indulgente verso le debolezze altrui.

Incontri con uomini straordinari, pubblicato nel 1960 e del quale esiste anche una trasposizione cinematografica realizzata nel 1978 da Peter Brook, suo discepolo, racconta in forma autobiografica dei pellegrinaggi durati circa vent’anni (dal 1887 al 1907) in giro per il mondo insieme ai Cercatori della verità e le storie legate alla conoscenza di uomini determinanti per il suo percorso di crescita interiore, che, volontariamente o involontariamente, hanno agito da fattore vivificante per la formazione definitiva di uno degli aspetti della mia attuale individualità.

Mi propongo di dare all’insieme delle idee che sto per esporre una forma accessibile a tutti, nella speranza che queste idee potranno servire da elementi costruttivi e preparare il cosciente dei miei simili a edificare un mondo nuovo – mondo reale secondo me, e suscettibile di essere percepito come tale da ogni pensiero umano senza il minimo impulso di dubbio – al posto di questo mondo illusorio che i nostri contemporanei si rappresentano.

In effetti Gurdjieff riesce nel suo proposito, l’esposizione è chiara ed accessibile in tutto il libro. Il suo intento principale consiste nel tentativo di risvegliare le coscienze, unico modo per potere cambiare il mondo, modificandone radicalmente la percezione che abbiamo di esso. Gurdjieff parla di risveglio poiché è convinto che attualmente la nostra vita sia più vicina allo stato di sonno che non a quello di veglia, praticamente viviamo una vita da addormentati e solo lavorando con grande disciplina su noi stessi potremo raggiungere il necessario livello di consapevolezza indispensabile per la rinascita.

Sono le convenzioni di cui siamo imbottiti che costituiscono la morale soggettiva. Ma una vita vera esige la morale oggettiva, che può venire soltanto dalla coscienza. La coscienza è la stessa dovunque: qui è come a Pietroburgo, come in America, nella Kamčatka o nelle isole Salomone. Oggi sei qui, ma domani puoi essere in America. Se hai una vera coscienza, e se ad essa adegui la tua vita, dovunque tu sia, tutto andrà bene.

La principale causa dell’assopimento è data dalle famigerate convenzioni. È davvero molto difficile rendersi conto di quanto influiscano sulla nostra esistenza e fino a che punto ci limitino, per quanto in questo blog, ben prima di leggere Gurdjieff, è stata mossa contro di esse una guerra senza frontiere. Egli sostiene che se una coscienza ha l’opportunità di svilupparsi liberamente allora di certo sa più di quanto si possa trovare nei libri o di quanto possano insegnare i maestri, e suggerisce inoltre, nei casi in cui la coscienza non è ancora perfettamente formata, per evitare errori clamorosi, di adeguarsi all’insegnamento di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe subire su sé stessi.

gurdjieffSe i sermoni di frate Seze producono immediatamente una forte impressione, alla lunga tale impressione invece scompare e, alla fine, non ne rimane assolutamente nulla. Quanto alla parola di frate Akhel, in un primo momento essa non fa quasi nessuna impressione. Ma, col tempo, l’essenza stessa del suo discorso acquista di giorno in giorno una forma più definita e penetra interamente nel cuore dove rimane per sempre.

Colpiti da questa constatazione, ci mettemmo tutti a cercare perché ciò accadeva, e giungemmo alla conclusione unanime che i sermoni di frate Seze provenivano soltanto dal suo intelletto, e non agivano, di conseguenza, che sul nostro intelletto, mentre quelli di frate Akhel provenivano dal suo essere e agivano sul nostro essere.

Eh sì, caro professore, il sapere e la comprensione sono due cose completamente differenti. Soltanto la comprensione può portare all’essere. Il sapere di per se stesso non ha che una presenza passeggera: un nuovo sapere caccia via il precedente, e, in fin dei conti, non è altro che del nulla versato nel vuoto.

Un concetto molto importante che viene sviluppato è quello della conoscenza. Non è tanto l’accumulare sapere enciclopedico quanto il comprendere che porta all’essere e si può ben capire fino a che punto potesse essere rivoluzionario e sconcertante un tale modo di pensare per l’epoca. Naturalmente Gurdjieff non rifiuta il sapere in sé, ma mostra come esso sia frutto di altri automatismi, di una concatenazione mnemonica e senz’anima. Se però il sapere, come insieme di informazioni apprese, si unisce alle esperienze personali vissute, alla pratica, allora ecco che abbiamo quella forma di conoscenza che arricchisce e permette una visione d’insieme ampia e nitida che agevola il cammino verso di sé e verso il risveglio.

Gurdjieff, per bocca di un anziano intellettuale persiano, non risparmia stoccate mortali alla cultura europea:

Purtroppo l’attuale periodo culturale – che noi chiamiamo civiltà europea, e che così verrà chiamato dalle generazioni future – è intercalare, se così si può dire, nell’evoluzione dell’umanità; in altri termini, è un abisso, un periodo di vuoto nel processo generale di perfezionamento umano, perché, ed è un fatto acquisito, i rappresentanti di questa civiltà sono incapaci di tramandare ai loro discendenti alcunché di valido per lo sviluppo dell’intelligenza, questo motore essenziale di ogni perfezionamento.

Se la letteratura è uno dei principali mezzi per lo sviluppo dell’intelligenza ecco che la civiltà contemporanea distruggendola ha anche impedito l’ulteriore crescita spirituale e intellettuale dell’umanità, creando un punto di stallo, una frattura forse insanabile per un tempo lunghissimo.

Le esigenze della civiltà contemporanea hanno generato un’altra forma molto specifica di letteratura, che viene chiamata giornalismo. Non posso passare sotto silenzio questa nuova forma letteraria, perché, a parte il fatto che non porta assolutamente nulla di buono per lo sviluppo dell’intelligenza, essa è diventata, a mio avviso, il male dei nostri tempi, nel senso che esercita un’influenza funesta sui rapporti umani.

Ma c’è una forma letteraria ancora più subdola e pericolosa che contraddistingue la società moderna, si tratta del giornalismo, un tema quanto mai attuale in questo periodo. Secondo l’anziano il diffondersi del giornalismo è la diretta conseguenza della debolezza e mancanza di volontà da parte degli uomini di oggi. In questo modo si viene a creare una paralisi del pensiero che impedisce al senso critico di analizzare la realtà esterna con lucidità così da prenderne coscienza e in tal guisa recuperare anche la memoria di sé.

Per sfortuna di noi tutti questo genere di letteratura, che invade ogni anno di più la vita quotidiana degli uomini, fa subire alla loro intelligenza, già molto indebolita, un indebolimento ancora peggiore consegnandola inerme a ogni genere di inganni e di errori; essa li mette fuori strada a ogni passo, li distoglie da qualsiasi modo di pensare più o meno fondato e, invece di un giudizio sano, stimola e fissa in loro alcune tendenze indegne quali: incredulità, ribellione, paura, falso pudore, dissimulazione, orgoglio, e così via.

Se vogliamo fare un paragone con il giornalismo dei nostri giorni non possiamo non trovarci d’accordo sul fatto che manca totalmente di obiettività e oltre ad una sempre più evidente pletora di frasi sgrammaticate, scarsa proprietà di linguaggio e un lessico povero e involgarito, non meno importante è il fatto che spesso, nelle pagine di riviste e quotidiani, si impone un pensiero di maggioranza o si è asserviti a quello dei proprietari dei giornali in questione. Tutto questo sopprime il senso critico, il pensiero personale e contribuisce a rendere sempre più semplice potere ingannare e rendere schiava la popolazione.

Tra questi operai del giornalismo e della letteratura contemporanea lo spirito di corpo è molto sviluppato: essi si sostengono a vicenda e si lodano in ogni occasione in modo esagerato. Mi sembra anzi che questa caratteristica sia la causa principale della loro proliferazione, della loro falsa autorità sulla massa, e dell’adulazione incosciente e servile dimostrata dalla folla per quelli che si potrebbero definire, con la coscienza a posto, delle perfette nullità.

Per abbattere i muri, infrangere tutte le maschere che ci appesantiscono, rallentano, rendono deboli, ipocriti, è necessario imparare a trovare la propria anima, che non è un dono, ma è anch’essa qualcosa che si deve guadagnare anche e soprattutto con la sofferenza. Lo smantellamento delle illusioni, di quello che ci si è abituati a credere di essere, lo sforzo di rinunciare all’assopimento, rinunciare al proprio ego imperante, tutto questo richiede uno sforzo enorme e un dolore cosciente.

«Dopo quell’incontro, il mio mondo interiore e il mio mondo esteriore sono completamente cambiati. Nelle concezioni che si sono radicate in me, è avvenuta spontaneamente una revisione di tutti i valori. Prima di questo incontro ero un uomo completamente assorbito dai propri interessi e dai propri piaceri personali, come pure dagli interessi e dai piaceri dei propri figli. Ero sempre rivolto, col pensiero, a cercare di soddisfare il meglio possibile i miei bisogni e i loro. Posso dire che fino a quel momento tutto il mio essere era dominato dall’egoismo e tutte le mie emozioni e manifestazioni provenivano dalla mia vanità. Il mio incontro con padre Giovanni ha fatto giustizia di tutto questo e da allora, a poco a poco, in me è apparso qualcosa che ha portato tutto me stesso alla convinzione assoluta che al di fuori delle agitazioni della vita esiste qualcos’altro che dovrebbe essere lo scopo e l’ideale di ogni uomo più o meno capace di pensare – e che questo altro soltanto può rendere l’uomo veramente felice e offrirgli dei valori reali, invece di quei ‘beni’ illusori che, nella vita comune, gli vengono prodigati sempre e dovunque».

Non so molto di e su Gurdjieff, ma qualunque mortale venga mitizzato, osannato, elevato al rango di semidio, suscita in me innumerevoli perplessità. Anche in presenza di insegnamenti validi e affascinanti, non bisogna mai dimenticare che ci si trova sempre di fronte a delle persone. Perciò se si vuole seguire un certo orientamento va tutto bene, purché non si perda mai il senso critico e non si ponga nessuno su un piano oltre-umano. La tendenza principale dell’uomo è la natura gregaria, molti sentono il bisogno di riunirsi in gruppo, di sentirsi dire cosa fare, cosa è giusto, cosa è sbagliato e soprattutto il fatto di prendere come punto di riferimento qualcuno in particolare da idolatrare (e responsabilizzare) è qualcosa che nella storia dell’umanità si verifica sistematicamente, a volte con effetti devastanti. Se c’è un leader c’è anche un corteo di adoratori sperticati, pronti a servirlo, riverirlo e a sacrificare sé stessi pur di assecondarlo. Se non vogliamo scomodare personaggi storici di cui si parla e si è parlato in ogni epoca, basta pensare all’incessante proliferare di sette e congregazioni varie, in tutte le parti del mondo, dal credo spesso farneticante e malgrado ciò con un folto seguito di adepti di ogni ceto e cultura.

41 commenti

Archiviato in biografie, dilemmi, percorsi simbolici, visioni

Tramonti fatali. A sud del confine, A ovest del sole.

copertinaLa nostra vita è disseminata di porte temporali attraverso le quali tante volte passiamo senza nemmeno rendercene conto, perché la mente è sempre pronta a riordinare le coordinate spazio-temporali nel modo più vicino possibile all’idea di realtà che ci siamo costruiti. Murakami Haruki in A sud del confine, A ovest del sole (1992) mantiene la tradizione che troviamo in tutti i suoi libri, ovvero quella di trasportarci con leggerezza da una dimensione all’altra, con la naturalezza tipica degli eventi quotidiani e senza dare troppe spiegazioni a proposito della stranezza di certi avvenimenti che alla fine rimangono, com’è peculiare della scrittura giapponese, “aperti”, dal momento che è impossibile esaurire tutte le possibilità e dunque fornire una soluzione unica che valga per tutti.

Per noi occidentali è difficoltoso accettare l’idea di un libro che propone misteri che poi non vengono risolti, tuttavia la capacità di Murakami come narratore è tale da lasciare il lettore ugualmente affascinato e perfino arricchito, più che da un libro con domanda e risposta, sia perché il lettore diventa co-creatore e sia perché si viene in contatto con quella parte di noi che è oltre la materia e che in fondo è la nostra componente principale benché spesso ce ne dimentichiamo.

Sono nato il 4 gennaio 1951. Nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare, ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime – «inizio».

Il libro racconta la storia di Hajime, un quarantenne di successo che gestisce due jazz club a Tokio, a partire dall’infanzia segnata dal fatto di essere figlio unico e dall’incontro, a dodici anni, con Shimamoto, anche lei figlia unica e con la quale stabilirà un legame profondo, che si manterrà nel tempo attraverso il ricordo, malgrado i due si separeranno e non si vedranno per più di vent’anni.

Se non fosse piovuto o se io non avessi avuto l’ombrello (cosa possibilissima visto che prima di uscire dall’albergo quel giorno ero stato indeciso se portarmelo o no), non avrei incontrato mia moglie. E se ciò non fosse avvenuto, a quest’ora probabilmente lavorerei ancora nella casa editrice di libri scolastici, e la notte, appoggiato al muro della mia camera, berrei parlando da solo. Quando ci penso mi rendo conto che viviamo in un numero veramente limitato di possibilità.

Il viaggio di Hajime alla ricerca di sé ci mostra un uomo che fino a quel momento della vita aveva limitato le sue possibilità di cambiamento ad una sorta di fatalismo immobile, quello che lascia le persone chiuse in una forma che si adatta ai mutamenti del tempo, ma che nella sostanza non cambia. Man mano che procede però è costretto ad accorgersi che certi avvenimenti di cui ci facciamo carico in verità appartengono al regno di una sorta di casualità voluta. Nel senso che magari siamo noi i motori che portano a una determinata situazione, ma non i creatori della stessa che si sarebbe verificata comunque, affinché un determinato soggetto potesse compiere quell’esperienza.

Certo che il tempo cambia le persone in vari modi. Non so che cosa ci sia stato allora tra te e lei, ma comunque sia andata, tu non hai nessuna colpa. A chi più, a chi meno, è capitato a tutti di avere un’esperienza del genere, perfino a me. Dico sul serio, è successo anche a me. Così vanno le cose a questo mono! La vita di una persona appartiene a quella persona. Non ci si può sostituire a lei e assumersi la responsabilità della sua esistenza.

Benché Hajime avrà dalla vita ciò che desidera, un lavoro che gli piace, una moglie che ama e due bambine deliziose, egli incarna la necessità della ricerca continua, insita nell’uomo, che sente sempre che gli manca qualcosa, quell’assoluto che non può mai raggiungere perché lo cerca nel luogo sbagliato. Hajime crede che il suo assoluto sia Shimamoto e vive creando un vuoto dentro di sé che è il vuoto dell’assenza, ma quando la ritrova e pensa di potere finalmente colmare la propria esistenza, dovrà fare i conti con quanto di artificioso si era insinuato nel ricordo e quanto di distruttivo, oscuro e inafferrabile ci sia nella Shimamoto che rivede. A volte viene perfino il dubbio che la ritrovi davvero nella realtà, sembra appartenere piuttosto ad un mondo di ombre, ad una dimensione differente, che a tratti la risucchia e dalla quale emerge solo per costringere Hajime a riprendere in mano la sua vita.

Conservavo ancora il ricordo vivido di ciò che vidi in fondo alle sue pupille in quel momento: uno spazio buio, duro come il ghiaccio sotterraneo. E c’era nei suoi occhi un silenzio così profondo da assorbire qualsiasi suono e impedirgli di riemergere. Solo silenzio, gelido silenzio.

murakami harukiMetaforicamente è come se Hajime e Shimamoto fossero le due facce della stessa medaglia, in una sorta di mitologia personale, le due metà vengono separate e la vita scorre nel tentativo di ricongiungersi. Quando diventiamo spettatori della nostra vita raccontandocela ci accorgiamo di quante sfaccettature ci appartengano e compongano la superficie apparente che costituisce la nostra storia. A volere ricomporre il tutto, inevitabilmente ci si rende conto di quanto la realtà sia fragile ed effimera, una patina, un fantasma che aleggia senza poter mai prendere consistenza, l’ombra caduca di un’esistenza altra che ci sfugge. Per questo ci aggrappiamo a strutture mentali in realtà inesistenti, per non perderci in quel vuoto inconsistente che l’esperienza umana ci impedisce di comprendere, ma verso il quale non possiamo fare a meno di sentirci attratti, come il simile riconosce il proprio analogo, la nostra vera essenza non è certo la materia.

La nostra memoria e le nostre sensazioni sono troppo incerte e unilaterali e quindi, per provare la veridicità di alcuni fatti ci basiamo su una “certa realtà”. Ma quella che per noi è la realtà, fino a che punto lo è davvero e fino a che punto è quella che noi percepiamo come tale? Spesso è addirittura impossibile distinguere tra le due. Quindi, per ancorare nella nostra mente la realtà e provare che sia tale, abbiamo bisogno di un’altra realtà attigua che possa relativizzare la prima. Questa realtà attigua però, necessita come base, a sua volta, di una terza. Questa catena all’interno della nostra coscienza continua all’infinito ed è proprio grazie ad essa che noi esistiamo. A un certo punto però, può accadere che la catena si spezzi e ci faccia confondere: non capiamo più se la realtà si trovi da questa parte della catena o dall’altra.

L’insegnamento che se ne trae è che a voler scandire il tempo in passato e futuro che rendono inaccettabile il presente non si fa altro che limitare la propria esistenza infarcendola di necessità fittizie e vuoti incolmabili. Ciò che conta è l’attimo in cui sai di essere presente a te stesso, in quel momento quello che ti circonda diventa esattamente tutto ciò di cui hai bisogno.

Il titolo del libro è diviso in due parti, la prima è il titolo di una canzone, South of the Border (a sud del confine), una canzone la cui interpretazione Murakami attribuisce erroneamente a Nat King Cole, e che parla di un uomo che lascia andare via l’amore della sua vita, salvo poi pentirsi quando ormai è troppo tardi, mentre la seconda si riferisce ad una malattia che colpisce i contadini che vivono in Siberia, detta appunto isteria siberiana.

Giorno dopo giorno, vedi il sole sorgere a est, attraversare la volta celeste e tramontare a ovest e alla fine dentro di te qualcosa si spezza e muore. Lasci a terra la zappa e cominci a camminare con la mente svuotata da ogni pensiero, verso ovest, a ovest del sole. Continui a camminare per giorni, senza mangiare né bere, come un invasato. E un giorno ti accasci al suolo e muori. È questa l’isteria siberiana.

È Shimamoto che ne parla a Hajime, chiara indicazione di una fine inevitabile, sintesi di una vita che non può ricomporre i pezzi mancanti altrimenti finirebbe per condurre alla follia, ad un’esistenza alterata dall’intromissione di troppi elementi, salti nel tempo, piccole morti quotidiane, tutti tasselli che rendono impossibile ritrovare quello si è perduto, semplicemente perché non esiste più, così come nemmeno quello che eravamo noi esiste più. Il ricordo nostalgico deve rimanere inarrivabile, senza raggiungere mai il momento presente, altrimenti darebbe a sua volta quel senso di incompletezza che porterebbe a una nuova ricerca, a un nuovo vuoto da colmare, a volte perfino alla morte, mentre il suo destino è rimanere ancorato in quel serbatoio di potenzialità irrealizzate di cui è piena la vita. Il “tutto” insomma sta sempre nella “possibilità”.

Hajime, purtroppo a volte accadono fatti per cui non si può più tornare indietro. Per quanti sforzi si facciano, è impossibile annullare tutto e ripartire da zero. Se in quel momento qualcosa è andato storto, anche di pochissimo, rimarrà per sempre così.

25 commenti

Archiviato in scrittori contemporanei, visioni

Il libro della sovversione non sospetta. “La banalità non è inoffensiva: rende furiosi”.

La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte.

Uno scritto non è uno specchio. Scrivere è affrontare un volto sconosciuto.

Folle è il mare per non poter morire con una sola onda.

edmond jabesCosì inizia Il libro della sovversione non sospetta, di Edmond Jabès (1912-1991) scrittore naturalizzato francese, nato in Egitto da una famiglia ebrea di origini italiane. All’età di 12 anni un avvenimento tragico, la morte della sorella a causa della tubercolosi, rimarrà in lui come un dolore indelebile, supportato dal ricordo delle ultime parole che lei gli rivolge poco prima di morire: «On n’échappe pas à sa destinée» (non si sfugge al proprio destino). Dopo gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la scoperta di Auschwitz e l’orrore dei campi di concentramento lo sconvolgeranno in profondità. Costretto all’esilio, dopo la crisi del Canale di Suez, nel 1957 si trasferisce a Parigi e qui, inizialmente senza soldi, né nazionalità, né lavoro, imparerà l’esperienza dell’anonimato e prenderà anche coscienza del suo essere ebreo, esperienze che permetteranno al suo percorso poetico di delinearsi nettamente, cadenzato da temi ricorrenti quali, l’esilio, il deserto, l’identità, la scrittura.

Il primo a notare le sue poesie, pubblicate in una rivista letteraria franco-egiziana L’Anthologie mensuelle, fu Max Jacob nel 1931, tra i due inizierà un’intensa corrispondenza che durerà per lunghi anni, a proposito della quale rimane anche la prefazione di Jabès (Préface aux lettres de Max Jacob à Edmond Jabès) pubblicata nel 1945 l’anno successivo alla morte di Jacob.

Forse sovversivo è quel libro che denuncia, dentro la scia d’un pensiero aggredito, la sovversione della parola nei confronti della pagina e della pagina nei confronti della parola, e l’una con l’altra confonde.

In questo senso, fare un libro vuol dire offrire un sostegno alle forze sovversive che attraversano il linguaggio e il silenzio, un sostegno che segua il ritmo delle loro riprese. []

Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura. []

E se la sovversione fosse solo lo scarto tra la cosa creata e la cosa scritta?

Uno stesso abisso separerebbe, allora, l’uomo dall’uomo e il libro dal libro.

Quanti autori si sono cimentati nel tentativo di descrivere e spiegare l’atto creativo? Decodificare la parola? Giungere al suo senso primigenio? Jabès con l’ausilio della poesia, strumento potentissimo del non detto, che aleggia sopra ogni lemma, esplora il pensiero fin dalle origini e tenta di tracciare una mappa ricca di riferimenti e allusioni che toccano tutte le sfere del sapere fino ad un prima del tempo che esclude perfino Dio, un Dio che viene creato dal Libro.

Tutto dimorava nell’attesa di Dio.

Così la Creazione venne prima del Creatore.

così Dio anticipò Dio nell’Idea di Dio.

Tutto dimorava nell’attesa del Nulla e il Nulla precedette l’attesa.

Dio è per aver risposto alla domanda: Sei tu?

Se l’esistenza di Dio fosse posteriore a quella dell’uomo, nulla ci impedirebbe di pensare che il niente avrebbe avuto una voce più antica di quella del mondo, e il deserto avrebbe avuto, nella sua relazione con il vuoto, una parola, prima ancora che la luce sferzasse le tenebre.

Voce del mare soffocata. Voce della sabbia sommersa.

Ciò che importa è sempre la domanda, un succedersi di domande, è lì il lampo dell’intuizione, non nella risposta, anzi la risposta riporta indietro, oscura quel fulmine, vanifica la domanda.

L’interrogazione crea. La risposta uccide.

il libro della sovversioneLa sovversione è in atto, è atto stesso di parola e si sa, come ogni cosa contiene anche il suo contrario, anche la parola non fa che sovvertire il proprio significato. È come la sabbia del deserto che non avendo forma può assumere qualsiasi configurazione, essere e non essere al tempo stesso, ferma eppure in movimento a ricordarci che non siamo nulla di quel che la materia ci illude, né dobbiamo o possiamo fermarci in una fissità di morte, ma semplicemente scorrere, come fa la sabbia che si vorrebbe trattenere in una mano.

Si legge soltanto e sempre quel che manca alla lettura totale della parola.

Sicché ogni volta si è portati a intraprendere d’essa una lettura differente.

Jabès vuole ricostruire il Libro, per lui Libro e Scrittura coincidono. I riferimenti al Libro sacro dell’ebraismo non mancano, ma la sua è una religiosità molto personalizzata, ri-creata, poiché la scrittura va oltre tutto. La parola si colloca in un continuum che contiene vita e morte, quindi è, sempre.

L’opera non è mai compiuta. Essa ci lascia nell’incompiuto, nel cui spazio moriamo. Quel che ci rimane è solo la sua parte bianca, e non si tratta di utilizzarla, ma solo di tollerarla. Lì dobbiamo installarci.

Accettare il vuoto, il nulla, il bianco. Tutto quel che creiamo è dietro di noi.

Oggi io sono, di nuovo, in quel bianco: senza lingua, senza gesti, senza parole.

Quel che ancora è da compiere si presenta volentieri come compiuto: il deserto, dove l’impotenza ci risospinge.

La parola di Jabès è sempre intensa, carica di una potenzialità che solo il lettore può fare implodere dentro di sé. La vita si confonde con la morte, la pagina bianca contiene il maggior numero di frasi, il silenzio è la voce più eloquente, nell’assenza si coglie la presenza, in tutti questi paradossi apparenti e perfino scontati c’è la chiave di comprensione più semplice per noi, quella che abbiamo tutti e sempre davanti agli occhi, la struttura stessa del nostro essere: siamo divisi in due e una metà non può capire nulla senza l’altra. A partire dai lobi del nostro cervello, ogni cosa per la nostra mente ha un senso solo in relazione al suo opposto.

A questo punto anche l’indicibile si può dire attraverso il dicibile.

Se l’ombra è un’interrogazione alla luce, essa è anche un’interrogazione all’ombra; se la luce è una risposta all’ombra, essa è anche una risposta alla luce. Oh! Anello dentro l’anello!

Se Dio fosse l’Uno, Egli sarebbe doppio, dal momento che l’unico non è altro che l’impensato dell’Uno, il quale, non appena pensato, cessa di essere unico.

La sua opera appare frantumata, sgretolata da un passato di dolore, quasi come se volesse dire per immagini e frasi lapidarie la diaspora così tristemente nota agli ebrei. Di cammino in cammino, di frase in frase non si deve mai arrivare perché il Luogo è il non-luogo, riparo ambito del non-detto.

Il niente è il luogo eterno del nostro esilio: l’esilio dal Luogo.

Il gesto di scrivere è un gesto solitario dice il poeta, ma la stessa solitudine è una creazione di chi scrive, ogni catena che l’uomo si impone è una sua scelta precisa, altrimenti non potrebbe esistere e la solitudine è nella parola stessa che la anticipa e poi la designa. Pertanto il libro è prima intuito e soltanto dopo lo si può costruire attorno al suo vuoto.

La scrittura è una scommessa con la solitudine. Flusso e riflusso della non-quiete. Essa è pure riflesso d’una realtà riflessa, colta nella sua rinascita, una realtà della quale andiamo costruendo l’immagine, nel cuore dei nostri desideri confusi, nel cuore dei nostri dubbi.

Tutta la sua scrittura si basa su ciò che manca, sull’ombra, sulla parte invisibile che permette la concretizzazione dell’esistenza. Ma come posso permettere senza avere già un’esistenza? Si tratta di un continuo inseguirsi e oltrepassarsi, una sorta di condanna d’eternità.

Dinanzi a una rosa ci comportiamo in modo incomprensibile.

Conquistati dalla sua bellezza, con un gesto di meraviglia, le togliamo la vita.

Scrivere è rinnovare su di sé quel gesto.

Quel che muore in noi può morire soltanto insieme con noi.

Il libro è forse il quotidiano far parte di tutte queste morti.

26 commenti

Archiviato in poesia, visioni

Dio è taoista?

Mortale: Perciò, o Dio, io ti prego, se hai un briciolo di pietà per questa tua creatura sofferente, liberami dal dover avere il libero arbitrio!
Dio: Tu rifiuti il dono più grande che io ti abbia fatto?
Mortale: Come puoi chiamare dono ciò che mi è stato imposto? Io ho il libero arbitrio, ma non per mia scelta. Non ho mai scelto liberamente di avere il libero arbitrio. Devo avere il libero arbitrio, che mi piaccia o no!
Dio: Perché vorresti non averlo?
Mortale: Perché il libero arbitrio significa responsabilità morale e la responsabilità morale è un peso che non posso sopportare!
(Raymond M. Smullyan, Dio è taoista? Da The Tao is silent, 1977)

In questo divertente ed interessante dialogo tra Dio e un Mortale a proposito del libero arbitrio, venuto fuori dalla penna arguta di Raymond M. Smullyan, e inserito nel libro di Hofstadter e Dennett, L’io della mente, vengono posti quesiti molto importanti che ci riguardano e che possono appesantirci enormemente o, al contrario, renderci la vita più leggera. Come sempre questo dipende da noi, anche se siamo così abituati a cercare cause esterne, da dimenticarcene.

Il dialogo inizia con un Mortale decisamente risentito per avere ricevuto in dono il libero arbitrio e con un Dio incuriosito da tale risentimento, che cerca di comprendere cosa ci sia di male nella possibilità di decidere. L’incontro-scontro che viene proposto è quello tra il pensiero occidentale e quello orientale. È il Mortale a radunare in sé tutti i preconcetti, i condizionamenti e le chiusure tipici del mondo occidentale, che trova comodo uniformarsi ad una serie di dogmi e regole che mettano ordine e spieghino anche quel che non ha spiegazione. Dio invece rappresenta l’apertura, l’armonia, l’equilibrio del pensiero orientale, che cerca di sfatare miti, leggende, luoghi comuni che soffocano ogni forma di spiritualità.
Ad un certo punto del dialogo la questione si sposta sul perché Dio abbia dato il libero arbitrio agli uomini. La prima risposta del Mortale ben indottrinato si concentra sulla possibilità di meritare oppure no la salvezza eterna. Ma Dio pare non essere d’accordo.

Dio: […] E così te la sei proprio bevuta l’idea che ti hanno insegnato, che la vostra vita sulla terra è come un periodo di esame e che lo scopo per cui vi è stato dato il libero arbitrio è di mettervi alla prova, per vedere se meritate la beatitudine eterna. Ma una cosa mi lascia perplesso: se tu credi veramente che io sia così buono e benevolo come si va sbandierando, perché dovrei imporre agli uomini di meritarsi cose come la felicità e la vita eterna? Perché non dovrei concedere queste cose a ciascuno, che le meriti o no?
Mortale: Ma mi è stato insegnato che il tuo senso della morale, il tuo senso della giustizia, impone che il bene sia ricompensato con la felicità e il male sia punito con la sofferenza.
Dio: Allora ti hanno insegnato male.

Non siamo un po’ troppo arrendevoli verso tutti i mortali che si fanno portavoce della parola di Dio? Come potrebbe il pensiero limitato contenere quello illimitato?
Continuando a ragionare, Dio cerca di riportare il Mortale, a colpi di logica inconfutabile, lungo una linea di forte razionalità, anche se in contrasto con la letteratura religiosa e i moralisti classici, fonti della sua formazione.

Mortale: Dunque tu dici che il motivo non è quello di mettere alla prova il nostro merito. E hai confutato il motivo che per godere delle cose noi abbiamo bisogno di sentire che dobbiamo meritarle. E sostieni di essere un utilitarista. E la cosa più significativa di tutte è che mi sei sembrato contentissimo quando mi sono reso conto d’un tratto che non è il peccare in sé che è il male, ma solo la sofferenza che esso provoca.
Dio: Ma certo! Che cos’altro ci potrebbe essere di male nel peccare?
Mortale: D’accordo, tu lo sai e adesso lo so anch’io. Ma purtroppo io ho passato tutta la vita sotto l’influenza di quei moralisti che ritengono che il peccare sia male in sé. Comunque sia, mettendo insieme tutti questi pezzi, mi viene da pensare che l’unica ragione per cui ci hai dato il libero arbitrio è perché credi che col libero arbitrio gli uomini probabilmente causeranno meno sofferenza agli altri – e a se stessi – che senza il libero arbitrio.

L’idea di una divinità unicamente buona è in effetti in netto contrasto con la logica e l’evidenza, ma anche con il dualismo che ci caratterizza. Per concepire la perfezione noi abbiamo bisogno di due elementi, pertanto per essere perfettamente buono devi anche essere cattivo. Il male invece viene separato e dato in carico al Diavolo e all’uomo stesso, che proprio con il libero arbitrio sceglie di essere malvagio. Sì ma come la mettiamo con l’onnipotenza?

Il dialogo si estende anche su altri argomenti come: chi parla a chi? E sempre il povero Mortale viene messo con le spalle al muro perché non è abituato a ragionare con la mente aperta. Ancora una volta l’affondo contro una cultura invadente e accecante segna un punto.

Mortale: Se non ti posso vedere come faccio a sapere che esisti?
Dio: Domanda giusta! Come fai appunto a sapere che esisto?
Mortale: Be’, non sto forse parlando con te?
Dio: Come fai a sapere che stai parlando con me? supponi di dire a uno psichiatra: “Ieri ho parlato con Dio”. Che cosa pensi che ti direbbe?
Mortale: Dipende dallo psichiatra. E poiché gli psichiatri sono per lo più atei, probabilmente mi direbbero che ho parlato con me stesso.
Dio: E avrebbero ragione!
Mortale: Come? Vuoi dire che non esisti?
Dio: La tua capacità di trarre conclusioni false è sbalorditiva. Solo perché stai parlando con te stesso ne segue che io non esisto?

Effettivamente la nostra capacità di trarre conclusioni false è piuttosto frequente. Il punto è che partiamo dai presupposti sbagliati e cioè non ci rendiamo conto che il nostro vedere è più o meno frutto di convenzioni e non di realtà oggettiva (ammesso che esista), ma il nostro strumento visivo a senso unico ci provoca molte percezioni illusorie. Noi non siamo in grado di vedere oltre e quindi riteniamo inaccettabile quello che non ci sembra manifesto. Se si conversa con Dio e anche con se stessi, una cosa non esclude necessariamente l’altra perché se ci si sente parte di un tutto, si è anche il tutto.

Mortale: Ma se tu sei davvero un processo, cioè una cosa astratta, non riesco a capire che senso possa avere che io parli con un semplice “processo”.
Dio: Mi piace il modo in cui dici “semplice”. Allo stesso modo potresti dire che vivi in un “semplice universo”. E poi, perché ogni cosa che si fa dovrebbe avere un senso? Ha senso parlare con un albero?
Mortale: No, naturalmente!
Dio: Eppure molti bambini e molti primitivi lo fanno.
Mortale: Ma io non sono né un bambino né un primitivo.
Dio: Eh già, purtroppo.
Mortale: Perché purtroppo?
Dio: Perché molti bambini e molti primitivi hanno un’intuizione primordiale che quelli come te hanno perduto. Francamente penso che ti farebbe un gran bene parlare con un albero ogni tanto, anche più che parlare con me!

La perdita delle intuizioni delle origini, sostituite dalle sovrastrutture culturali non ha fatto altro che allontanarci da quella che è la nostra vera natura, fatta di fusione con tutto ciò che ci circonda. Se ritrovassimo il nostro sguardo primitivo non solo riusciremmo a parlare con gli alberi, ma anche a sentirne le risposte, senza per questo avere bisogno di uno psichiatra.

La conversazione converge poi sullo scontro tra determinismo e libero arbitrio e giunge ad una singolare connotazione del Diavolo con il tempo lunghissimo che occorre agli esseri senzienti per arrivare all’illuminazione.
Alla fine della discussione Dio rivela al Mortale che hanno affrontato tutto il dibattito con una falsità di base, ovvero che il libero arbitrio non può essere un dono a parte, ma è la caratteristica fondamentale di un essere pensante, altrimenti come potrebbe essere tale?

Dio: […] No, il libero arbitrio non è un “extra”: esso è parte integrante dell’essenza stessa della coscienza. Un essere cosciente senza libero arbitrio è semplicemente un assurdo metafisico.

Il Mortale a questo punto si rende conto di avere scambiato un dilemma metafisico per un problema morale. La moralità è spesso un veleno che ottunde la mente e impedisce una visione più chiara, perché scaccia, con lo spauracchio di terribili punizioni, quello che il pensiero logico invece fa affiorare di continuo. Come suggerisce dunque questo saggio Dio taoista, solo avvicinandoci il più possibile alla natura è possibile ritrovare un po’ dell’antica attenzione e allungare il passo verso la luce.

Dio: […] Nulla vale quanto un orientamento naturalistico per dissipare tutti questi morbosi pensieri di “peccato”, di “libero arbitrio” e di “responsabilità morale”. A un certo stadio della storia queste nozioni furono effettivamente utili: mi riferisco ai giorni in cui i tiranni avevano un potere illimitato e solo il timore dell’inferno era in grado di frenarli. Ma da allora l’umanità è cresciuta e questo raccapricciante modo di pensare non è più necessario.
Potrebbe esserti d’aiuto ricordare quanto dissi una volta attraverso gli scritti del grande poeta Zen Seng-Ts’an:

Se vuoi raggiungere la nuda verità,
non preoccuparti di giusto e sbagliato.
Il conflitto tra giusto e sbagliato
È la malattia della mente.

16 commenti

Archiviato in dilemmi, letteratura e scienza, visioni

Che cosa si prova a essere un pipistrello? Variazioni sul tema dell’«essere».

Nel suo articolo del 1974, Che cosa si prova a essere un pipistrello? (riportato nel libro di Hofstadter e Dennett, L’io della mente), Thomas Nagel affronta il problema del rapporto tra la mente e il corpo.

Senza la coscienza il problema mente-corpo sarebbe molto meno interessante; con la coscienza esso appare senza speranza di soluzione.
(Thomas Nagel, Che cosa si prova a essere un pipistrello?)

Si tratta di un quesito molto interessante perché siamo troppo abituati a dare tutto per scontato, perfino il fatto di esistere. Quante volte durante il giorno ci rendiamo conto di “essere”? e poi cosa vuol dire esattamente? Il fatto di avere una coscienza, nel senso di avere delle esperienze coscienti, non vuol dire essere in grado di spiegare certi fenomeni mentali, che magari intuiamo e subito lasciamo correre via.

È la nostra esperienza che fornisce il materiale di base alla nostra immaginazione, la quale è perciò limitata. Non serve cercare di immaginare di avere sulle braccia un’ampia membrana che ci consente di svolazzare qua e là all’alba e al tramonto per acchiappare insetti con la bocca; di avere una vista molto debole e di percepire il mondo circostante mediante un sistema di segnali sonori ad alta frequenza riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in giù, in una soffitta. Se anche riesco ad immaginarmi tutto ciò ne ricavo solo che cosa proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma questo non è il problema: io voglio sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all’altezza dell’impresa.
(Thomas Nagel, Che cosa si prova a essere un pipistrello?)

Il problema della soggettività e dell’oggettività e della soggettività dell’oggettività crea un ostacolo insormontabile. In effetti tutto quello che passa attraverso la nostra mente viene in un certo senso corrotto dalla nostra visione. Non possiamo fare a meno di essere il principale punto di riferimento per collocarci nel mondo, pertanto in date circostanze risulta impossibile avere dei dati oggettivi. Nel caso specifico, non essendo noi pipistrelli e volendo immaginare cosa si prova ad esserlo alla fine sapremo solo che cosa proveremmo noi ad essere un pipistrello, ma non cosa prova il pipistrello ad esserlo. E perfino ogni singolo pipistrello potrebbe percepire ciò che è dal suo punto di vista, del resto così come noi possiamo immedesimarci in un altro essere umano, ma non saremo mai quell’altro, allo stesso modo non esiste un mezzo per comprendere cosa si provi ad essere pipistrelli in modo oggettivo.

Essere o non essere, questo è il dilemma. Sì ma qual è il criterio dell’esseribilità?

Proprio come “io” e “ora” sono termini strettamente legati, così lo sono anche “io” e “qui”. Supponiamo di fare adesso l’esperienza della morte, in un modo piuttosto curioso. Quelli di noi che in questo momento non sono a Parigi sanno che cosa si provi a essere “morti a Parigi”: niente luci, niente suoni, niente di niente. Lo stesso vale per Timbuctu. In effetti noi siamo morti “dappertutto”… tranne che in una piccola zona. Si pensi quanto poco ci manca per essere morti dappertutto! E siamo anche morti in tutti gli altri momenti che non siano “questo preciso momento”. Il piccolo frammento di spazio-tempo in cui siamo vivi non si trova per caso dove si trova ora il nostro corpo: esso è definito dal nostro corpo e dal concetto di “ora”.
(Hofstadter, Dennett, L’io della mente, Riflessioni)

È chiaro a questo punto perché fin dall’antichità l’uomo attraverso il mito e il rituale ha posto fine al tempo cronologico, che ci fa morire di continuo, per realizzare la nostra peculiare tendenza all’immortalità ricreando un eterno presente. Tuttavia egli avrebbe fatto meglio a riflettere di più sulla possibilità non tanto di essere morti quasi dappertutto, quanto invece di essere sempre dappertutto. Il problema principale è dato proprio dalla nostra mente limitata che ci impedisce di credere a possibilità lontane dall’esperienza, ma in verità tutti sappiamo che accadono cose apparentemente inspiegabili ad ognuno di noi. Ad esempio quando sogniamo chi è l’essere che vive quelle esperienze? E come mai certi scrittori di fantascienza parlano decenni prima di assurdità che invece poi diventano realtà tangibile?
Io sono è sicuramente rapportabile al mio corpo che si trova in un certo posto e che ha coscienza delle proprie conoscenze, ma quell’io ne racchiude tanti altri, molto più liberi che attraversano di continuo porte invisibili e dimensioni insondabili.

C’è un famoso rompicapo che viene posto nei corsi di matematica e di fisica: “Perché lo specchio scambia la destra e la sinistra, ma non l’alto e il basso?”. […]La risposta è imperniata su quello che noi consideriamo un modo giusto di proiettare noi stessi sulle nostre immagini riflesse. La nostra prima impressione è che avanzando di qualche passo e poi girandoci sui tacchi potremmo metterci al posto di “quella persona” là dentro lo specchio, dimenticandoci però che il cuore, l’appendice, eccetera, di “quella persona” sono dalla parte sbagliata.
(Hofstadter, Dennett, L’io della mente, Riflessioni)

L’irrefrenabile tentazione di proiettarci a destra e a manca ci fa superare qualsiasi inganno. Lo specchio non si trova solo tra gli enigmi matematici, ma anche in psicologia, in sociologia ed impazza in letteratura correlato al tema del doppio, dalla mitologia alla fiaba, alla fantascienza, al racconto gotico, fino al romanzo classico. Vedere la propria immagine riflessa corrisponde ad una identificazione dell’Io, tuttavia il fatto di non essere esattamente quelli che vediamo può fare ragionare su quanto sia effimera la realtà, che pure ci sembra così importante e solida. In fondo basiamo la nostra vita su delle illusioni, eppure per qualcosa che forse nemmeno esiste ci logoriamo fino all’ultimo respiro.
Chi è dunque quell’altro che ci guarda dallo specchio? E siamo proprio sicuri di conoscerlo?
Lo specchio come porta che permette il passaggio attraverso varie dimensioni ha avuto le sue valenze più suggestive dal fatto che ci rendiamo conto, guardandoci, di essere e non-essere, siamo quelli e al tempo stesso comprendiamo che quello che ci interessa veramente sta lì dietro, ma dal momento che la nostra mente non riesce a codificare questo altrove, ecco che l’immagine riflessa lascia spazio all’immaginazione. In alcune società antiche lo specchio aveva capacità divinatorie, mentre ancora ai giorni nostri vige l’usanza di coprire gli specchi della casa dove muore qualcuno per paura che l’anima del defunto venga imprigionata e la credenza che rompere uno specchio porti sventura.
Insomma il punto ignoto che separa il corpo reale da quello riflesso è un’ottima metafora che ci permette di proiettare la nostra atavica paura della morte e di tutto ciò che non riusciamo a comprendere.

Alla fine però è sempre la parola che crea il problema e che, in un certo senso, lo risolve.

L’unica cosa che Nagel nel suo articolo non sembra aver riconosciuto è che il linguaggio è un ponte che ci consente di penetrare in un territorio che non è il nostro. I pipistrelli non hanno alcuna idea di “che cosa si provi a essere un altro pipistrello” e nemmeno si pongono il problema. E la ragione è che i pipistrelli non hanno una moneta universale per lo scambio delle idee, che a noi invece è fornita dal linguaggio, dai film, dalla musica, dai gesti e via dicendo. […] La conoscenza è una curiosa mescolanza di oggettivo e di soggettivo.
(Hofstadter, Dennett, L’io della mente, Riflessioni)

Naturalmente rimangono i problemi di fondo per cui è pressoché impossibile che, pur usando lo stesso strumento comunicativo, due persone percepiscano le identiche sfumature, tuttavia, malgrado gli spazi vuoti o le esuberanze di significato che si attribuiscono ci si può fare almeno un’idea comune delle esperienze.

Grazie ai mezzi come il linguaggio e i gesti , “possiamo” sperimentare (talvolta in modo vicariante) che cosa si provi a essere o a fare X. Non è mai una cosa autentica, ma che cos’è poi una conoscenza autentica di ciò che si prova ad essere X? Non sappiamo neppure bene che cosa si provava a essere noi dieci anni fa: lo possiamo dire solo rileggendo il nostro diario, e anche così, mediante una proiezione! È sempre un modo vicariante. Peggio ancora, spesso non sappiamo neppure come abbiamo potuto fare ciò che abbiamo fatto ieri. E tutto sommato, a pensarci bene, non è neppure tanto chiaro che cosa si provi ad essere me in questo momento.
(Hofstadter, Dennett, L’io della mente, Riflessioni)

Io non sono io, non so nemmeno se esisto. E voi?

23 commenti

Archiviato in letteratura e scienza, visioni

Pina Bausch e il Tanztheater. La parola annullata.

Siamo tutti vittime consenzienti della parola e su di essa basiamo in genere un’intera esistenza. Una parola ti può cambiare la vita, ferirti profondamente, renderti la persona più felice del mondo, perderti oppure salvarti. Ma sono davvero così importanti le parole? Certo per chi scrive la risposta è ovvia, anzi per chi trascorre buona parte del proprio tempo leggendo o scrivendo giunge sempre un periodo, più o meno lungo, in cui la parola sembra addirittura onnipotente, salvifica, indispensabile, salvo poi ritrovarsi in tarda età e rendersi conto che si è vissuti sempre nella menzogna. E questo perché tutto ciò che passa attraverso la parola inevitabilmente mente. E non soltanto perché ad esempio una descrizione cambia se cambia l’occhio che guarda e nemmeno soltanto nell’accezione pirandelliana, omaggio all’incomunicabilità:

Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non c’intendiamo mai! (L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore)

C’è qualcosa che va ancora più oltre, qualcosa di indefinibile appunto, quel misto di emozioni, sensazioni, brividi, tuffi al cuore, inondazioni interiori, immersioni che la parola non è capace di descrivere, se non falsando tutto.
Per questo nella comunicazione intervengono così tanti strumenti, che la parola in verità diventa quello marginale, si va dalla più piccola contrazione muscolare ad un lampo negli occhi, alla gestualità, alla postura, fino alla capacità ad esempio della musica classica di fare raggiungere una sorta d’estasi a chi l’ascolta non solo con l’udito, alla comprensione del linguaggio della danza moderna o, ancora meglio, del teatrodanza che si spinge a livelli di comunicazione che la parola potrebbe mantenere solo come abbozzo. Ma se abbiamo così tanti modi per esprimerci, perché ci limitiamo sempre, ci restringiamo nell’angusto regno della parola regolamentata da dogmi, regole e leggi varie? Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un tipo di condizionamento del quale è quasi impossibile rendersi conto, certo il regno della parola fa comodo a chi comanda per mantenere l’ordine, però in questo modo abbiamo dimenticato la nostra vera natura. Ciò che siamo non è quello che possiamo definire, ma tutto il resto che di tanto in tanto riusciamo a percepire, prima di rifugiarci di gran lena nel microcosmo a misura d’uomo che ci siamo costruiti.

Pina di Wim Wenders è un omaggio alla meravigliosa Pina Bausch (27 luglio 1940 – 30 giugno 2009) che ho avuto il privilegio di vedere al teatro Biondo di Palermo, nel 1988 con lo spettacolo Auf dem Gebirge hat man ein Geschrei gehört e nel 1990 con Palermo Palermo. Wenders all’inizio aveva in mente qualcosa di diverso per il suo film che stava creando insieme alla Bausch, con la quale si conoscevano da molto tempo, ma la morte inattesa della coreografa nel 2009 lo ha costretto a trasformare il progetto da una collaborazione tra due vecchi amici a una sorta di commemorazione, documentario, ricordo, testimonianza dell’opera di Pina Bausch e del grande carisma che aveva sui suoi ballerini e collaboratori.
La grande capacità comunicativa del Tanztheater Wuppertal nasce dall’affrancamento totale da qualsiasi retaggio del passato in merito a regole e costrizioni varie, una sorta di rinascita emotiva e spirituale che si trasforma in movimento del corpo. Ciò che si vede (ma è soltanto vedere?) è un film non catalogabile, che sfugge anch’esso ai suoi stessi canoni ed è come se musica, danza, parole uscissero fuori dal palcoscenico innanzitutto e dallo schermo poi e si catapultassero direttamente all’interno di ogni spettatore provocando un flusso di emozioni martellante ed incessante.
Le coreografie sono tratte da alcuni famosi spettacoli della Bausch, Café Müller, Le sacre du printemps, Vollmond, Kontakthof e le immagini sono intercalate da osservazioni della coreografa o dal ricordo che ne tratteggiano i ballerini della compagnia. Ma qui la parola è veramente ridotta all’essenza, assottigliata, minima, sfoltita, resa di modesto valore dalla potenza evocativa delle immagini, dalla fisicità, dalla comunicazione antica, istintiva, gestuale che riporta ai primordi della coscienza, laddove con poco si dice così tanto che la cosa più naturale e semplice del mondo riesce quasi a sopraffarti. È la potenza degli elementi naturali che avvolgono l’uomo e lo riconoscono non più come un estraneo, non più come un nemico che distrugge, ma come una parte del tutto che ci comprende e con cui ci si confonde.
Si assiste in questo modo alla nascita del movimento, alla sua estensione e alla morte dello stesso che coincide con la rinascita in un altro, così che ogni spostamento sul palcoscenico contiene una storia di vita e di morte e al tempo stesso di eternità.
Wenders ha deciso di usare il 3D per questa sua opera, proprio per inserire lo spettatore all’interno della coreografia stessa, quasi ne facesse parte anch’egli e in questa interazione si riesce a collocare non solo la coreografia e l’indagine sul movimento, ma anche l’universo di chi guarda e quello della Bausch che sfiora magicamente corpi, menti e tutto quel bagaglio di emozioni che accompagna la parte di noi che le parole non riescono a descrivere.

Café Müller viene presentato da Dominique Mercy e Malou Airaudo (Mercy è un famoso ballerino di danza moderna. Divenuto collaboratore della Bausch ha partecipato a molti spettacoli del Tanztheater Wuppertal dove ha conosciuto la futura moglie, Malou Airaudo, con la quale ha avuto una figlia, entrata anch’essa a far parte del corpo di ballo del teatrodanza Wuppertal), con l’aiuto di un plastico descrivono le varie fasi della costruzione dello spettacolo, al quale aveva partecipato la stessa Pina Bausch. Entriamo in una grande stanza con delle porte e tante sedie e tavolini sparsi qua e là, che uno dei ballerini sposta come per agevolare i movimenti degli altri che si muovono tutti con gli occhi chiusi. Qualcuno sbatte ripetutamente contro il muro, altri si trovano, ma tutto è esasperato dalla mancanza di una direzione precisa, dall’abitudine di muoversi anche nella vita come dei sonnambuli in un percorso disseminato di ostacoli. Wenders alterna l’intervista ai due ballerini con parti dello spettacolo e inserisce anche immagini di repertorio con l’eterea Pina nel ruolo della cieca.

In Le sacre du printemps i ballerini si muovono su un palco ricoperto da uno strato di terra dando vita ad una danza primitiva, che man mano che procede diventa sempre più ossessiva e feroce, poiché si tratta di un rito che deve condurre alla scelta di una vittima sacrificale e alla sua morte. La suggestione della danza unita alla musica coinvolgente di Igor Stravinskij crea un’atmosfera estatica che rapisce inevitabilmente lo spettatore.

Kontakthof  viene presentato nel film nelle sue tre interpretazioni, quella con i ballerini del teatrodanza, quella di un gruppo di uomini e donne con più di 60 anni e la versione con gli adolescenti dai 16 ai 18 anni. Bausch mostra l’irriverente spettacolo di un’umanità esibizionista e licenziosa, che si dimentica di non essere solo corpo e si abbandona ai propri vizi, rancori, piccole vendette dispettose, che le coppie che si incontrano in una squallida sala da ballo offrono alla platea, con la quale interagiscono attraverso gesti e sguardi d’intesa.

In Vollmond (Luna piena) uno spettacolo fatto di acqua che inonda e si ritrae come il moto ondoso, la vita si frantuma in brevi ritratti che la sintetizzano perfettamente, con il loro linguaggio simbolico che li pone su piani differenti, ma che lo specchio d’acqua ricompone, anche se in una visione diversa, fatta di vuoti, di riempimenti, di riflessi e di materia. D’altra parte non è proprio l’acqua l’elemento principale che evoca la nascita alla vita?

Alla fine Wenders non traccia un percorso biografico vero e proprio, non ci dice nulla della vita privata di Bausch, eppure non se ne sente la mancanza, d’altra parte ha poi così tanta importanza se invece si riesce a sapere e sentire tutto il resto?
Quanto si esca trasformati dopo uno spettacolo della Bausch è difficile da spiegare, ma di certo non si può rimanere gli stessi dopo gli affondi continui di lotta, sofferenza, solitudine, amore trovato, amore negato, situazioni grottesche, altre comiche, una grande paura e la continua spietatezza di una vita fatta di gioia, ma anche di tanto dolore, un dolore che si poggia sulle cose e sui danzatori, sui passi, sulle movenze e sui corpi come le sottovesti sottili che ricoprono le danzatrici, quasi ne fossero solo sfiorate e al tempo stesso protette. Ed è così che dopo questo rito di iniziazione ci si sente pronti ad affrontare un mondo diverso, un mondo come non lo si era mai visto prima.

33 commenti

Archiviato in cinema, donne e arte, visioni

Una solitudine troppo rumorosa

Attraverso i libri e dai libri ho appreso che i cieli non sono affatto umani e che un uomo che sa pensare, anche lui non è umano, non che non lo voglia, ma ciò contrasta col giusto modo di pensare.

Strano come l’universo si organizzi per mantenere costantemente un equilibrio che a volte noi nemmeno sospettiamo. Districarsi tra le spinte che cercano la stabilità e quelle che corrono in avanti senza fermarsi un attimo, è cosa ardua e alla fine il mutamento che segue il progresso lascia sempre dietro di sé qualche vittima, soprattutto tra i non umani abituati a pensare, a perdersi in conversazioni immaginarie con libri filosofici e autori morti da tempo o mai conosciuti.

Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri […] sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari.

Bohumil Hrabal (1914-1997) nel suo libro del 1977, Una solitudine troppo rumorosa, crea una complicata architettura nella quale varie tipologie di parola (parola onirica, parola filosofica, parola descrittiva, parola poetica…) si accompagnano a una visione del mondo tutta sua, concatenando gli avvenimenti con la particolare cadenza che hanno i sogni laddove a volte entrano anche scene perfettamente simili alla realtà della veglia. Del resto tutti gli amanti della lettura, dei libri, conoscono bene quella tendenza al vagheggiamento che li accompagna per l’intera giornata, come se oltre alla verità tangibile e lavorativa ce ne fosse sempre un’altra al di sopra, sospesa, all’interno della quale si trova costantemente un cantuccio confortevole.

E io alle falde della montagna mi raggomitolo come Adamo nel cespuglio, con un libro in mano apro gli occhi su un mondo diverso da quello dove appunto stavo, perché io quando incomincio a leggere sto proprio altrove, sto nel testo, io mi meraviglio e devo consapevolmente ammettere di essere davvero stato in un sogno, in un mondo più bello, di essere stato nel cuore stesso della verità. Ogni giorno io sbigottisco dieci volte, come ho potuto allontanarmi così da me stesso. Così alienato e derubato ritorno anche dal lavoro, silenzioso e in profonda meditazione cammino per le vie, oltrepasso i tram e le auto e i passanti nella nube dei libri che ho trovato quel giorno e che porto a casa nella borsa, passo sognante col verde senza neppure accorgermene, non urto contro i lampioni né contro i passanti, soltanto cammino e puzzo di birra e di sporcizia, ma sorrido, perché in borsa porto libri dai quali mi aspetto che a sera da loro apprenderò su me stesso qualche cosa che ancora non so.

Il protagonista del libro lavora da trentacinque anni alla pressa del macero. In particolare abbiamo a che fare con uno di quegli strani individui che vivono nel sottosuolo e che hanno sempre una visione alterata del mondo esterno. Hanta evita accuratamente l’omologazione e riesce a personalizzare ogni pacco che esce dalla pressa trasformando un’azione meccanica in atto creativo, facendo di ogni parallelepipedo, benché destinato alla distruzione, un esemplare unico. Egli non pressa soltanto libri o riviste, ma anche vecchia carta marcita o proveniente dal macello, ancora intrisa di sangue e seguita da uno stuolo di mosche carnarie, ciò che compie è un’impresa indefinibile e ogni pacco diviene l’improbabile creazione di un tutto inscindibile, dove il marcio, la morte, il sangue, si uniscono all’arte, alla poesia, alla filosofia. Hanta, con molta cura, fa in modo che lungo le pareti dell’involucro risultino ben visibili delle stampe di Van Gogh o alcune pagine scelte di Kant. Vita e morte dunque si comprimono e trovano orrore e bellezza in un connubio simbolico e carico di significati. All’interno del magazzino vivono anche delle colonie di topi che inevitabilmente finiscono nella pressa, insieme alle mosche ed è proprio lì che lo stesso protagonista vorrebbe concludere la propria esistenza, divenendo in tal modo al contempo creatore e opera d’arte. Poiché il confine è sempre molto labile tra ciò che noi suddividiamo e cataloghiamo come importante oppure come insignificante, come sacrificabile oppure no.

A volte, nella posizione della sedia Thonet, dormo così fin verso la mezzanotte e quando mi sveglio sollevo la testa e ho la gamba dei pantaloni madida di saliva al ginocchio, tanto mi sono raggomitolato e rannicchiato su me stesso, come un gattino d’inverno, come il legno di una sedia a dondolo, perché io mi posso permettere quel lusso di essere abbandonato, anche se io abbandonato non sono mai, io sono soltanto solo per poter vivere in una solitudine popolata di pensieri, perché io sono un po’ uno spaccone dell’infinito e dell’eternità e l’infinito e l’eternità forse hanno un debole per le persone come me.

Eccola la solitudine rumorosa che ogni lettore sa riconoscere, non si tratta di vera solitudine perché quando la testa è popolata di pensieri, si è in perenne contatto e conversazione con tutte le cose, con l’universo, si è parte di quel meccanismo di correspondances che tanti poeti hanno descritto. E naturalmente in questo fondersi di sogno e veglia, di tattile e impalpabile, non poteva mancare un accenno alla perfezione, che si può trovare nella coincidenza degli opposti e nella circolarità temporale che annulla la separazione tra passato e futuro, offrendo una visione della vita profondamente diversa da come siamo abituati a percepirla.

E così tutto quello che ho guardato in questo mondo, tutto va contemporaneamente indietro, come un mantice da fabbro, come al comando dei bottoni verdi e rossi sulla mia pressa, tutto trapassa scattando nel proprio opposto e unicamente così nulla al mondo zoppica e io ormai da trentacinque anni imballo carta vecchia e per questo mio lavoro uno dovrebbe avere non soltanto l’istruzione universitaria o il liceo classico, ma anche un seminario di teologia. Così la spirale e il cerchio nel suo impiego si corrispondono e il progressus ad futurum si fonde col regressus ad originem ed io per di più tutto questo lo vivo tattilmente e essendo io contro la mia volontà istruito, sono infelicemente felice e ho cominciato a riflettere sul fatto che il progressus ad originem risponde al regressus ad futurum.

Nel magazzino sotterraneo viene riversata la carta alla rinfusa, in una babele al contrario, una torre invertita in cono sprofondato, il controcanto dell’inferno dantesco che accoglie metaforicamente tutta la letteratura e la cultura in generale, bollate dal marchio della distruzione, sono i segni di una società in disfacimento, della quale tutto viene sepolto in questa tomba che ha ancora però un custode attento, colui che seleziona, che differenzia, che non si piega alla triste realtà dell’appiattimento e che nei trentacinque anni di lavoro ha portato in casa tonnellate di libri diventando colto contro la sua volontà. Ma mentre Hanta si affanna tanto nel suo spazio angusto per mantenere l’equilibrio, fuori dal suo magazzino la società corre velocemente verso il baratro, le esigenze produttive hanno creato non soltanto delle presse che triplicano il lavoro della sua, ma anche un personale amorfo, che non si pone domande e che nemmeno guarda cosa getta nel torchio, ma che è efficiente e rapido, e per questo renderà Hanta inutile, e pertanto, similmente alla sua carta marcita, egli verrà sacrificato, sostituito, rimosso dal suo incarico.

[…] Mančinka, senza volerlo, era diventata quella che non aveva neppure mai sognato, che Mančinka era andata più lontano di tutte le persone che avevo incontrato in vita mia, più lontano, mentre io, benché incessantemente leggessi e cercassi segnali nei libri, ebbene i libri avevano congiurato contro di me e io non avevo ricevuto un solo messaggio dai cieli, mentre Mančinka odiava i libri ed era diventata quella che era, era diventata quella di cui si scrive…

Tradito dal datore di lavoro, dai colleghi, perfino dalla sua amata pressa e tradito anche dai libri non gli resta che rifugiarsi in quella dimensione onirica che da sempre lo accompagnava, ma che adesso sarà il suo personale Paradiso Terrestre.

[…] poi lo zingaro col palmo rialzato richiamò anche la mia attenzione e io guardai la macchina che non aveva mai avuto nelle sue viscere la pellicola, così compresi che al mondo non dipende proprio nulla da come le cose finiscono, ma tutto è soltanto desiderio, volere e anelito, somiglianti all’imperativo categorico di Immanuel Kant […]

22 commenti

Archiviato in scrittori contemporanei, visioni

Il labirinto di Bataille e il principio di insufficienza

Basta seguire per poco la traccia dei percorsi ripetuti dalle parole per scoprire, in una visione sconcertante, la struttura labirintica dell’essere umano. Sosteneva Georges Bataille, ed in effetti, oltre ad essere l’immagine perfetta per descrivere certi stati d’animo, una forma labirintica di fondamentale importanza per noi fa addirittura parte del nostro corpo ed è il cervello, con tutte quelle anse che creano cunicoli e percorsi intricati.

In origine il labirinto, riferito al modello cretese, era unicursale presentava cioè un percorso unico che, svolgendosi in sette spire, portava al punto centrale, per poi ritornare all’ingresso. Il suo scopo era quello di simboleggiare un viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi con l’intento di risolvere i conflitti interiori, pertanto era metafora dell’esistenza umana, del cammino che ogni uomo deve compiere da solo, attraverso strade tortuose, ma univoche, come suggerisce un destino segnato. Ma non solo questo, dal momento che ingresso e uscita coincidono, si annulla anche il confine tra vita e morte, realtà e sogno, possibile e impossibile, materia e spirito.
Soltanto in seguito il labirinto è diventato multicursale, realizzato con tante vie, vicoli ciechi, complicato quindi da falsi percorsi introdotti per confondere, ma anche per offrire all’uomo la possibilità di scegliere e di intervenire in tal modo nello svolgersi della propria sorte.

L’uomo è sfuggito alla sua testa come il condannato alla prigione. Ha trovato al di là di se stesso non Dio che è la proibizione del crimine, ma un essere che ignora la proibizione. Al di là di ciò che io sono, io incontro un essere che mi fa ridere perché è senza testa, che mi riempie di angoscia perché è fatto di innocenza e di crimine: tiene un’arma di ferro nella mano sinistra, delle fiamme simili a un sacro cuore nella mano destra. Riunisce in una stessa eruzione la Nascita e la Morte. Non è un uomo. Non è neppure un dio. Non è me, ma è più di me: il suo ventre è il dedalo nel quale lui stesso si è perduto, mi perdo con lui e nel quale io mi ritrovo essendo lui, cioè mostro.
(Georges Bataille, Il labirinto)

Al centro del labirinto si trova il mostro, la nostra parte oscura, ognuno di noi ha un Minotauro da sconfiggere prima di guadagnare l’uscita e la lotta è dura, non solo per la crescita del singolo, ma anche per avere il predominio sull’istinto animalesco che ci portiamo dentro, che risiede nella memoria genetica e che, ultimamente così spesso sembra prendere il sopravvento sulla ragione.

Nei mondi scomparsi è stato possibile perdersi nell’estasi, cosa che è impossibile nel mondo della volgarità istruita. I vantaggi della civiltà sono compensati dal modo in cui gli uomini ne approfittano: gli uomini attuali ne approfittano per divenire i più degradanti di tutti gli esseri che sono esistiti. La vita si svolge sempre in un tumulto senza coesione apparente, ma essa non trova la sua grandezza e la sua realtà che nell’estasi e nell’amore estatico. Chi tiene a ignorare o a misconoscere l’estasi, è un essere incompleto il cui pensiero è ridotto all’analisi.

Come si fa a vincere il labirinto, a neutralizzarlo? La necessità di separarsi dalla volgarità del mondo, di estraniare la mente dal corpo, è stata sempre cercata dagli uomini attraverso varie tecniche di forte concentrazione. Nell’antica Grecia le Baccanti davano vita ai culti misterici dedicati al dio Dioniso attraverso lunghi momenti d’estasi sfrenata. Anche le divinazioni erano frutto dell’attraversamento della soglia tra la realtà contingente e le altre dimensioni, che solo un particolare stato alterato della mente poteva offrire e così via fino alle filosofie orientali che praticano la meditazione come momento culminante, in cui la concentrazione permette di acquisire una consapevolezza che supera i limiti umani. Questa dunque una delle soluzioni possibili per spingersi così tanto dentro la vita da superarla e in tal modo annientare anche la morte. La prima cosa da fare comunque è sempre quella di fermare il tempo, questo tiranno che l’uomo ha voluto creare come convenzione utile nella disposizione di un ordine dominante e contemporaneamente annullarlo attraverso una molteplicità di rituali che hanno sempre confermato la condizione primigenia della temporalità, ovvero il suo eterno presente.

Alla base della vita umana, esiste un principio di insufficienza. Isolatamente, ogni uomo si rappresenta la maggior parte degli altri incapaci o indegni di «essere». In ogni conversazione libera, maldicente, si ritrova, come un tema di animazione, la coscienza della vanità o del vuoto dei nostri simili: una conversazione apparentemente stagnante tradisce la fuga cieca e impotente di ogni vita verso un vertice indefinibile.

La sensazione di incompiutezza ci sovrasta quotidianamente. Più facile è notarla negli altri, vista dall’esterno perde il connotato labirintico che prende forma quando ci mettiamo ad osservare noi stessi e così l’impressione di essere sradicati, estranei, avalla l’imperfezione, il difetto che si abbatte sulle nostre misere esistenze, esautorandoci, privandoci dell’autocontrollo, dunque dell’autorità suprema, rendendoci in tal modo schiavi.

Il più grande dei mali che colpiscono gli uomini è forse la riduzione della loro esistenza allo stato di organo servile. Ma nessuno si accorge che è disperante divenire uomo politico, scrittore o scienziato. È dunque impossibile rimediare all’insufficienza che diminuisce colui che rinuncia a diventare un uomo intero per non essere più che una delle funzioni della società umana.

Questo dunque il passaggio da essere tutto a divenirne solo parte. Una soluzione di comodo che in un certo senso deresponsabilizza, che rende lecito il subire il destino, per fare gruppo sociale e sentirsi più forti, anche se in realtà ci si è indeboliti.

È consentito all’uomo non amare niente. Infatti l’universo senza causa e senza fine che gli ha dato la luce non gli ha necessariamente accordato un destino accettabile. Ma l’uomo al quale il destino umano fa paura, e che non può sopportare la sequela dell’avidità dei crimini e delle miserie, non può nemmeno essere virile. Se si allontana da se stesso non ha poi ragione di gemere fino a esaurirsi. Egli non può tollerare l’esistenza toccatagli che a condizione di dimenticare quale essa sia veramente. Gli artisti, i politici, gli scienziati ricevono l’incarico di mentirgli: così coloro che dominano l’esistenza sono sempre quelli che sanno mentire meglio a se stessi e di conseguenza anche agli altri.

Ecco che viene introdotta una massima imprescindibile nella storia dell’umanità, ovvero la menzogna culturale. Essa si è integrata perfettamente nella struttura sociale divenendone colonna portante, fonte inesauribile di un benessere fittizio che tenga al riparo dalla malasorte attraverso la maschera, l’inganno premeditato e la costituzione di condizionamenti millenari di cui ancora oggi siamo vittime e che ci limitano incessantemente.

Felice solamente colui che avendo provato la vertigine fino a tremare in tutte le sue ossa e a non misurare più la sua caduta ritrova d’improvviso la potenza insperata di fare della sua agonia una gioia capace di gelare e di trasfigurare quelli che la incontrano.

Come può l’uomo ribellarsi a questo stato di insufficienza, alla sensazione di essere inghiottito da una spirale vorace che travolge, dissennata, chiunque si trovi al suo cospetto, come può sovvertire l’impero della menzogna e ritornare integro, intero, davanti a se stesso e di fronte al mondo? L’uomo può soltanto “esistere” per sottrarsi al giogo che la mente ha creato per lui, essere re di se stesso (come suggeriva Pessoa), esercitare la gioia davanti alla morte, perché anch’essa fa parte della vita e della totalità, superare l’insufficienza esaltando l’insufficienza stessa, in una danza estatica che ci trascini al di fuori dei confini del corpo, pur rimanendo anche carne, poiché questo è il nostro destino, essere sempre, sia attraverso l’esperienza fisica transitoria, sia nella nostra dimensione più confacente, quella che si svolge oltre, quella spirituale.

La “gioia davanti alla morte” significa che la vita può essere magnificata dalla radice fino alla cima. Essa priva di senso tutto ciò che è al di là intellettuale o morale, sostanza, Dio, ordine immutabile o salvezza. È un’apoteosi di ciò che è perituro, apoteosi della carne e dell’alcool altrettanto che dei trasporti mistici.

24 commenti

Archiviato in visioni

La nube purpurea e Departures. L’ultimo viaggio è anche il primo.

Il balcone era una leggera struttura di ferro, con una pensilina sorretta da tre esili colonnine a volute; e abbracciata alla colonna centrale c’era una donna, in ginocchio, il viso rivolto all’insù… le curve del busto e dei fianchi della donna erano ancora abbastanza bene preservate dentro il vestito rosso, ormai molto sbiadito; i suoi capelli rossicci volavano al vento come una nube intorno al corpo; ma la sua faccia, così esposta alle intemperie, appariva rosa dal vento e dalla tempesta, che l’avevano ridotta a un teschio senza naso, la mascella caduta in un sorriso teso da un orecchio all’altro, in atroce contrasto con la grazia del corpo e la cornice dei capelli.
(Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea)

C’è sempre qualcosa di affettato, di tragicamente grottesco nella morte, specialmente in quella improvvisa, una sorta di scompostezza innaturale nel corpo, il disegno di un’espressione indefinibile sul viso e il destarsi di tante sensazioni in chi guarda, tra l’orrore, la vergogna e la pietà.
La nube purpurea (1901), di Matthew Phipps Shiel, racconta con vivide immagini la ribellione della Natura nei confronti dell’uomo, colonizzatore opportunista e devastatore, di cui si sbarazza in via definitiva attraverso una mortifera nube dal bel colore purpureo, che rievoca un simbolico spargimento di sangue, mentre ai corpi esanimi, apparentemente intatti, verrà risparmiata l’offesa dell’orrida putrefazione e continueranno ad emanare un intenso profumo di pesca. Nell’immobilismo forzato della morte, i corpi rimangono mummificati, fermati in una fissità di statua, intenti a continuare per l’eternità il lavoro che svolgevano un attimo prima che la nube portasse via il loro soffio vitale, in una macabra imitazione della vita in pietra scolpita.

«Assistiamo coloro che partono per dei viaggi».
(da Departures regia di Yojiro Tacita)

Nel film di Yojiro Tacita, Departures (2008), un giovane violoncellista rimasto senza lavoro, attirato dalla frase dell’inserzione e pensando che si riferisca ad un’agenzia di viaggi, si reca al colloquio per ottenere il posto. E di viaggi effettivamente si tratta, ma non quelli che immaginava lui. L’agenzia prepara infatti le salme prima che vengano cremate e Daigo diventerà un abile tanato-esteta. L’accurato cerimoniale inizia con la pulizia-purificazione del cadavere (senza che chi assiste veda un solo lembo di pelle), per prepararlo a iniziare il suo nuovo percorso e prosegue riportando la bellezza della vita nei volti sfigurati dalla morte, come un ultimo gesto d’amore sia verso i defunti, che così manterranno la loro bellezza per sempre, ma soprattutto per coloro che li avevano amati, che potranno mantenere il ricordo di com’erano in vita i loro cari.

[…]queste parole costituiscono il testo di un documento che sarà scritto, o troverà giustificazione -secondo Miss Wilson- in quel Futuro che, né più né meno del Passato, fondamentalmente esiste già nel Presente; per quanto noi, come accade col Passato, non lo vediamo.
(Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea)

Per introdurre il racconto Shiel si serve di una tecnica narrativa a più voci. Il narratore iniziale, che potrebbe coincidere con l’autore, riceve da un amico un plico contenente alcuni quaderni stenografati e una lettera in cui spiega che si tratta delle trascrizioni delle visioni di una veggente, Mary Wilson, alcune delle quali sono talmente avvincenti da poter interessare uno scrittore. E in effetti l’autore decide di trascrivere il quaderno III che contiene appunto la storia della nube purpurea. Egli la racconta in prima persona, in tal modo il narratore e il personaggio coincidono ed il lettore viene trascinato più facilmente nella realtà della narrazione che diventa, di conseguenza, anche la sua realtà. Pertanto abbiamo un narratore iniziale, dietro il quale si cela Shiel, poi l’amico che manda il plico, la veggente e infine il personaggio del racconto. In questo gioco di rimandi, l’autore cerca di interagire con il lettore trascinandolo nella sua ottica e rendendolo parte integrante della narrazione, infatti visto che si tratta del racconto di altre persone è come se entrambi fossero lettori. Per risolvere il problema della verosimiglianza invece si fa dipendere l’intera storia da una visione, in tal modo non soltanto è lecito introdurre elementi di fantasia, ma il tempo si annulla e passato, presente e futuro diventano interscambiabili.

«Non è triste? Risalgono fin quassù per poi andare a morire; se sono destinati a morire perché faticano tanto?»
(da Departures regia di Yojiro Tacita)

Dopo un primo momento di rifiuto e disgusto, quasi una paura di contaminazione che forse ci detta anche l’istinto di sopravvivenza, che vuole allontanare il più possibile il contatto con la morte, Daigo comprenderà invece non solo l’importanza della compassione, ma anche quanto sia sottile la linea che separa vita e morte, anzi quanto facilmente si possa annullare la divisione per arrivare a capire che sono complementari, due facce della stessa medaglia. Emblematica in tal senso è la scena dei due salmoni che risalgono a fatica il fiume sfidando la corrente contraria, mentre uno, morto, ridiscende. Daigo si domanda il perché di tanto sforzo solo per andare a morire e l’anziano che gli è accanto risponde che i salmoni vogliono morire laddove sono nati.

Ogni cosa finisce dove è iniziata e appena finisce, ricomincia.

La luna splendeva serena nel cielo meridionale, a quell’ora, come una vecchia regina morente con tutt’intorno la sua Corte che si affolla ma non osa avvicinarsi a lei, diffidente, pallida, tremula, e tanto più pallida quanto a lei più vicina; e osservavo le ombre delle montagne sulla sua faccia piena e chiazzata, e il suo nimbo nebbioso, e i suoi raggi sul mare, come baci striscianti nel regno del sonno, e tra le navi calme, bianchi strascichi e spolverii di luce, strani, agitati, come i corridoi di un palazzo in un abbandonato paese delle fate, popolato da deboli sussurri, scandali, corse di qua e di là, occhiate maligne e ansanti ultimi abbracci, e fuga della principessa, e letto di morte del re…
(Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea)

Nei molteplici livelli di lettura che il racconto offre, simboli e metafore si succedono a ritmo incalzante e la descrizione di un mondo divenuto sterminata landa di morte, necessita di uno stile delirante e opulento nelle descrizioni, in modo che immagini reali e possibili si fondino con altre scatenate dalla fantasia. Ma quante volte gli scrittori hanno visto situazioni impensabili che poi sono diventate realtà? E se davvero basta concentrarsi col pensiero su qualcosa perché questa poi diventi concreta, non sarà meglio tenere a freno certe fantasie?
Allora questo inevitabile dissidio interiore, questo richiamo del male e del bene attraverso le voci che Adam sente dentro di sé e la lotta tra il bianco e il nero, tra il buio e la luce, che si ritrova in diversi punti del testo, diventano la nostra porzione di divinità, quell’invito ad essere co-creatori e non semplici spettatori di uno spettacolo itinerante senza fine. Certo è che in tutti i suoi deliri di onnipotenza Adam sembra consegnarsi all’insensatezza, al capriccio del gioco crudele, come se non ci potesse essere un modo diverso di essere dei. Egli impiega ben diciassette anni per la costruzione di un palazzo d’oro e pietre preziose dalle misure deformate dalla strana inclinazione spazio-temporale dei sogni (inutile pertanto cercare di ricostruirlo in una qualsiasi realtà che non sia quella di Adam perché si otterrebbe tutt’altro), inoltre si diverte a dare fuoco a tutte le capitali del mondo, sotto la spinta irrefrenabile del piacere della distruzione che poi è identico a quello della creazione.

Quell’immagine letale di dita fredde e morte, mi sembrava vederla davanti a me, l’insipidezza delle lingue morte, il broncio delle labbra degli annegati e le spume svaporate che le orlano; finché il mio corpo non divenne madido, come bagnato dalle acque di scolo degli obitori, e dai sudori che i cadaveri traspirano, e dalla lacrima nauseante che si ferma sulle gote dei morti: perché, che può fare un unico insignificante uomo, avvolto nella sua veste di carne, davanti a moltitudini ed eserciti di disincarnati, solo tra tutti loro, e in nessun luogo un altro, un suo pari, a cui chiedere aiuto contro di loro?
(Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea)

L’unico sopravvissuto alla distruzione guarda caso si chiama Adam. Nella parte finale del libro egli incontrerà una donna che terrà a debita distanza, deciso a voler porre fine a una razza pestilenziale come quella umana. Tuttavia, per quanto la ragione tenti di opporsi, il flusso della vita ha comunque il sopravvento e l’impulso alla sopravvivenza della specie, per quanto si tenti di abbellirlo con orpelli culturali, camuffandolo sotto falso nome, come amore, sentimento, passione, è sempre vigile e inarrestabile. Alla fine dunque, il richiamo animalesco che spinge alla procreazione prevarrà e i nuovi Adamo ed Eva, non potranno fare a meno di mangiare il frutto proibito e ricominciare tutto daccapo.
Perfino nel delirio di scrittori che precorrono i tempi, veggenti, visionari, il movimento circolare con i suoi continui ritorni si ritaglia uno spazio tutto suo, finché non si insedia come unico, solito scenario possibile. E così Adam, che qui era l’ultimo uomo sulla Terra, sarà al tempo stesso il primo, perché il cerchio è sempre destinato a chiudersi, anzi non si è mai aperto.

Io, pover’uomo, perso in questa confluenza di infiniti, in questo vortice dell’Essere, che sarà di me, mio Dio? Perché buio, ahimè!, buio, è questo vuoto nel quale dal suolo fermo sono adesso caduto, a una profondità di un trilione di bracci, giocattolo di tutti i turbini del vento, e sarebbe stato meglio per me perire con i morti, e non aver mai visto la tenebrosità e la turbolenza dell’ineffabile, non aver mai udito la sconvolgente tetraggine dei venti dell’eternità; quando si dolgono, e sospirano, e gemono; quando rimproverano e complottano e supplicano; quando si disperano e vengono meno; voci che nessun udito dovrebbe mai udire: perché hanno l’intenzione di divorarmi, lo so, quei vasti bui, e presto sarò scomparso come la pula delle aie, per lasciare a loro il palcoscenico di questo teatro.
(Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea)

Tutto ha inizio dalla violazione di un divieto, come sempre accade nella storia dell’uomo, in questo caso raggiungere il Polo Nord, a quei tempi considerata una sfida a Dio, ma si sa, i divieti sono fatti per essere infranti, poiché rendono appetibile qualsiasi meta, anche la più inutile, perché ciò che importa non è mai la destinazione, ma il viaggio.

«Nell’antichità, quando gli uomini non avevano la scrittura, per comunicare cercavano un sasso la cui forma esprimesse i loro sentimenti e lo davano ad un’altra persona. Chi lo riceveva, dalla sensazione al tatto e dal peso, capiva i sentimenti di chi lo aveva inviato».
(da Departures regia di Yojiro Tacita)

Per completare il viaggio alla ricerca di se stesso e dell’armonia a Daigo manca un ultimo passaggio, quello della riconciliazione con il padre che lo aveva abbandonato da piccolo e contro il quale mantiene il forte rancore di chi si sente rifiutato. Tra le scene ricorrenti c’è quella di Daigo bambino che suona il violoncello in riva al fiume e dello scambio di due sassi tra padre e figlio, con la promessa, poi non mantenuta, che ce ne sarebbe stato uno ogni anno. Il padre gli racconta il significato dello scambio, ma Daigo non riesce a ricordarne il volto. È la delicata storia dei sassi parlanti. L’ordine si ricomporrà e nel ricordo il viso assumerà lineamenti ben definiti soltanto alla fine del film, quando sarà il figlio a preparare il padre per l’ultimo viaggio e scoprirà che l’uomo è morto stringendo nel pugno proprio il sasso che gli aveva regalato lui e che Daigo, a sua volta, consegnerà alla moglie che porta in grembo il loro figlio, in segno di riconciliazione, ma anche di continuità. Nel continuo fluire non può esserci una morte così come siamo abituati a concepirla, tutto scorre all’infinito.

24 commenti

Archiviato in cinema, visioni