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Cristina Bove. Mi hanno detto di Ofelia.

Quasi_volo

un tempo diverso

per camminare astratti

non proprio volare

ma quasi

come essere foglie e pappi

in sentieri di vento

 

appoggiare a mezz’aria

passi senz’orma

vestiti solamente del tacere

 

le parole comprimono l’estasi

intralciano i poeti

li definiscono in cataloghi

 

allora ammutolisco per sentire

e non vendermi agli echi.

Sarò d’ali permesse appena

in tempo

per proseguire a lato di me stessa.

mi hanno detto di ofeliaDall’assenza prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo, fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che offende la Poesia.

Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove, poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.

Appaio

il tempo di far credere che esisto

e poi scompaio

geco fantasma

m’inerpico sui vetri

e dico al vento

amico mio non scuotere

le imposte

respirami profondo, a distaccare.

[…]

Come tutti i precursori, gli sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce, presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).

Si potrebbe obiettare che è un percorso già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio. La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.

Aperture a latere

Il sole non candeggia

la biancheria ammuffita o il seno brullo

né l’ala del cucù

filtra soltanto tra listelli e buchi

disegnato di punti su piastrelle

                            il piatto cede, rifornisce rose.

In deltaplano

funambola in assetto

gioca la mia ragazza dei silenzi

la muta dei ritorni e degli infissi

cardini sottotraccia

                             sa di quella finestra mai richiusa.

Qualora fosse il caso

se le porte sprangate a fil di buio

reggessero per anni

avrebbe almeno via d’uscita

il non ritorno sugli stessi passi…

                              un volo finalmente completato.

Cristina non offre soltanto la voce, ma sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti). E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria, dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa, piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei paesaggi interiori, della memoria.

VERSO il TACERE

Saranno secoli? Attimi che mi giro

a tascapane, a giustacuore, a scudo

e di necessità virtù mi allaccio scarpe

 

camminare dovrò

per la carrozza han già preso la zucca

a me non resta che la mezzanotte

la mia fata madrina s’è distratta.

 

Mi cucio sulla lingua un che di fiato

zenzero e cinnamomo retrogusto

enzima di saliva mordiefuggi

e mi farò bastare ancora il gioco.

 

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio

quello che non sopporta ancora voci

né le cose sospese

quello che non s’inganna con le impronte

di parole calcate nella sabbia.

 

E avrò la colpa d’essere poeta

per abuso di suono.

Ma allora qual è il reale segreto di tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza, essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e senza fine.

[…]

semplice non è mai piegare il tempo

né tantomeno mascherare il dire

m’accompagna il silenzio

presuntuoso

di sussurrargli al cuore.

E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.

[…]

noi venimmo dal tempo

ch’era il mare un ritaglio di cielo

ed esultanze, ignote geometrie

carezzavano addosso.

 

E poi dimenticammo.

 

Adesso veglio – sola – a ricordare.

Quando si crea per necessità, la spinta arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine, nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)

Case abissali

Parole orfane

come lutto del dire

a fluttuare in uno schermo di

cristalli liquidi

 

nascoste nelle mani

al riaffiorare

d’alga di sale plancton

carezza d’ombra

scena depositata sui fondali

 

si tace

quando

si sta toccando l’anima

di spalle.

E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.

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