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La lingua perduta delle gru. Astengansi perditempo omofobici.

la lingua perduta delle gruRose ed Owen, marito e moglie, vivono in una zona di Manhattan in piena ristrutturazione, e si trovano nella difficile situazione di dovere affrontare una scelta importante ovvero indebitarsi e acquistare l’appartamento dove abitano da tanti anni, oppure lasciarlo e cambiare quartiere. Da un pretesto apparentemente banale come questo si scava intorno a loro tutto un cantiere di menzogne, per cui la perdita della casa diviene metafora di tutta una vita da rimettere in sesto. Entrambi vivono nel proprio mondo e adesso che sono costretti a decidere qualcosa insieme si accorgono che da molto tempo avevano smesso di farlo per tutto il resto. Emblematico l’incontro tra i due, in una domenica fredda e piovosa, durante la quale entrambi escono e casualmente s’incrociano in una strada lontana da casa, persi in una deambulazione distratta al mondo circostante, che li spinge ad osservarsi per ciò che sono diventati, due estranei, sconosciuti l’uno all’altra. Gli altri personaggi importanti sono Philip, figlio di Rose e Owen, e Jerene una ragazza di colore adottata da una famiglia benestante, ansiosa di integrarsi in un mondo di bianchi sposandone principalmente le regole morali. Entrambi decidono di fare coming out, ovvero di dichiarare la propria omosessualità. Nel caso specifico la rivelano ai propri genitori scoprendo amaramente quanto sia già difficile accettare se stessi, ma come diventi un problema insostenibile se ci si aspetta che gli altri facciano altrettanto, a maggior ragione se questi altri sono proprio coloro che pensi ti accoglieranno in qualsiasi circostanza, coloro che ti ameranno a prescindere.

«Allora ti dirò una cosa. Ti dirò che avrei preferito che mi dicessi che avevi un cancro.» Non distolse mai lo sguardo dagli oleandri.

«Papà» disse lei. «Come fai a dire una cosa del genere; come fai a startene lì e dirmi una cosa del genere?»

«Dico sul serio» disse lui, girandosi. «Sei sempre stata una delusione per noi, ci hai sempre dato dei problemi. E adesso tornare a casa con questo… Questa porcheria, questo sacrilegio. Cosa ti aspettavi che facessi, che mi rilassassi sulla poltrona e sorridessi?»

«È come un lutto» mormorò Margaret piano piano dal sofà, tra i singhiozzi. «È come se fosse morta.»

«Mamma!» disse Jerene. «Papà! Non dite queste cose. Io sono ancora la stessa. Sono sempre vostra figlia, la vostra Jerene. Vi prego! Sto solo cercando di essere onesta con voi, di dirvi la verità per una volta.»

Suo padre allontanò gli occhi da lei, guardò ancora una volta fuori della finestra. «Tu non sei mia figlia» disse. «Ringrazio Dio almeno per questo. Tu non sei mia figlia.»

E così strappò il machete che gli era stato piantato nel cuore, lo girò e tagliò via di netto Jerene.

E questo succede in effetti, Jerene sarà tagliata via dalla loro vita per sempre, del resto essere diversi equivale in tutte le circostanze ad una morte sociale e chi vuole avere un morto in giro per casa? Meglio spazzarlo via dalla società e dalla propria vita. La vicenda sembra ancora più paradossale se si pensa che tanta intolleranza proviene da gente di colore che ha vissuto secoli di oppressione da parte di una fetta di privilegiati e che continua a subire discriminazioni in tutti gli ambiti, per un motivo futile come il colore della pelle. Eppure il bisogno di farsi accettare dagli altri supera qualsiasi altra esigenza e riesce a trasformare le vittime in aguzzini.

«Oggi?» fece Jerene. «Oggi ho scritto il mio capitolo su quelle famose gemelle che hanno inventato la loro lingua. Due bambine. Non so se avete sentito parlare del caso, ma dopo che le hanno scoperte c’è stato un grosso dibattito per decidere se bisognava separarle e costringerle a imparare l’inglese, o tenerle unite, in modo che la lingua potesse essere studiata. Come probabilmente potete immaginare, hanno vinto gli assistenti sociali, per il bene delle bambine. Immagino sia stata la cosa giusta da fare. Tuttavia, quando penso a quel che si sarebbe potuto imparare… ci sono dei nastri delle loro conversazioni, sapete. Non assomigliano a niente che si potrebbe imitare. Mi rattrista. Mi sembra che il mondo abbia abbastanza lingue perdute.»

david leavittLa lingua perduta delle gru (1986) è il primo romanzo di David Leavitt, reso famoso da una raccolta di racconti, Ballo di famiglia (1984), il titolo fa riferimento al caso clinico del bambino-gru, la cui storia è narrata nel brevissimo capitolo centrale del libro. Un capitolo che sembra spezzare, dividere a metà il romanzo, ma che in realtà unisce, lega tutti gli elementi, fornendo la chiave di lettura, sì perché tutte le lingue perdute si portano dietro un abisso di solitudine, emarginazione, di dolore, tutte le emozioni che sono costretti a subire coloro che non seguono i dettami sociali, le consuetudini millenarie che vengono reputate “verità”, “salvezza”, “giustizia” e soprattutto “fare la cosa giusta per” e come si fa a contrapporsi a questi colossi di moralità?

Quel che è davvero rilevante è che l’unica scelta possibile, nel caso di queste due gemelle, era la scelta che è stata fatta. La lingua doveva morire. La cosa pertinente è l’integrazione di quelle bambine, quella, e quanto con essa è andato perduto.

Certo una lingua è sacrificabile, un figlio gay è sacrificabile, e con essi tutto ciò che portano dentro di sé, chiunque turbi l’ordine sociale va processato per direttissima e condannato alla pena capitale.

E proprio la reietta Jerene il frutto marcio di un bel cesto di mele perfette penserà la frase più importante del libro, capirà il meccanismo fondamentale che muove le cose:

Come dovevano essere parse meravigliose e grandiose quelle gru a Michel, in confronto alle piccole e goffe creature che lo circondavano. Perché, Jerene ne era convinta, ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo.

Comunque ci si veda davanti allo specchio è quello che amiamo, è quello che siamo, e tutto il resto, ciò che ci sembra provenire dagli altri non è che una parte di noi che proiettiamo in giro per il mondo. Così quando rimaniamo delusi nello scoprire che chi ci sta accanto non è come pensavamo che fosse è solo perché non lo è mai stato e tutte le belle cose che abbiamo visto in passato in verità venivano soltanto da noi.

Il paragone tra il bambino-gru e tutte le forme di comunicazione private, interiori, non esportabili all’esterno e l’omosessualità è un modo molto poetico per trascinare il lettore dentro un problema in realtà inesistente, ma che viene trasformato in tragedia dal bigottismo imperante, solo perché non si ha la capacità e la voglia di comprendere l’altro, per paura di essere contagiati, infettati dal morbo della diversità ed essere costretti a vivere in un mondo a parte.

I genitori di Philip, per quanto colti e senza pregiudizi e complessi pregressi non gradiscono la confessione del figlio. Rose, abituata all’ordine, (non per nulla lei fa l’editor, rimette in sesto i manoscritti altrui ed è appassionata di cruciverba ed acrostici), subisce la rivelazione come un fulmine inatteso: Io non sono una donna senza pregiudizi. Peggio vanno le cose per Owen che si sente messo forzatamente di fronte a uno specchio essendo a sua volta omosessuale, ma che ha vissuto sempre nell’ombra, concedendosi unicamente un cinema porno la domenica pomeriggio per fare poi il marito irreprensibile, serio e lavoratore, per il resto della settimana.

La mescolanza di significato, l’intreccio di un insieme di parole nell’altro, tutto aveva senso come principio curativo, e, all’improvviso, si chiese se tutti i revisori, gli enciclopedisti, i cartografi e i redattori di cruciverba non fossero gente che si era imbattuta nelle proprie carriere perché aveva un bisogno disperato e continuo di dimenticare le cose. “Gli avvoltoi del mondo pensante” li aveva definiti una volta Owen, che si nutrivano degli avanzi del pensiero, di ciò che rimaneva dopo che grandi documenti storici o scientifici erano stati ridotti a dimensioni ragionevoli. Come stava imparando Rose, queste carcasse erano meglio dell’alcol. Questa benigna e inutile attività letteraria imbavagliava il cervello: bloccava dolore, angoscia, panico. In un’esplosione di amara energia, Rose buttò giù Thomas Mann e Timone d’Atene sul cruciverba. Sparò fuori sinonimi come proiettili, ma alla fine le faceva terribilmente male la testa, come se la sua scatola cranica fosse una cosa gonfia e vuota. Il cruciverba ordinatamente completato aveva assorbito ogni ordine; la sua vita rimaneva quella che era.

Come al solito ci troviamo di fronte al terribile problema dei condizionamenti che millenni di religioni monoteiste ci hanno inflitto. Alla base di tutto c’è il verbo, la parola, così imperfetta e fuorviante da poter essere utilizzata a convenienza. In effetti è la confessione di Philip a distruggere l’equilibrio familiare, la parola detta porta lo scompiglio, fino a quel momento infatti, pur vivendo tutti nella menzogna, (perché anche Rose non è scevra da “colpe”, avendo avuto degli amanti durante il matrimonio), l’apparenza di famiglia “normale” era salva. La confessione del ragazzo fa saltare tutti gli equilibri perché anche Owen non può più nascondere la propria natura e su Rose dunque si concentrano tutti gli spettri terrificanti che qualsiasi benpensante vorrebbe tenere molto lontani da sé: un figlio gay, un marito gay e uno sfratto imminente. Ma a cosa serve nascondersi dietro l’ordine e la perfezione se poi le cose non sono così, se si vive tutta una vita di bugie, se poi la vita rimane quello che è, al di là di ogni possibile paravento?

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