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Edith Wharton. Uno sguardo indietro.

Anni fa mi sono detta: «Non esiste la vecchiaia; c’è soltanto la tristezza». Col passare del tempo ho imparato che, sebbene questo sia vero, non lo è del tutto. Anche l’abitudine contribuisce a far diventare vecchi; il processo mortale di fare la stessa cosa allo stesso modo alla stessa ora giorno dopo giorno, prima per trascuratezza, poi per inclinazione, e infine per codardia o inerzia. Fortunatamente, la vita incongruente non è l’unica alternativa; infatti il capriccio è dannoso come la routine. L’abitudine è necessaria; è l’abitudine di avere delle abitudini, di fare di una traccia un solco, che è necessario combattere, se si vuole rimanere vivi.

Edith Wharton (1862-1937) è nota in particolare per il suo romanzo L’età dell’innocenza dal quale è stato tratto, nel 1993, un film molto famoso diretto da Martin Scorsese, ma che, soprattutto, le ha fatto vincere, prima donna a riceverlo, il premio Pulitzer nel 1921.
Uno sguardo indietro, è la sua autobiografia. Pubblicata nel 1935 più che delineare un ritratto particolareggiato di se stessa e delle sue riflessioni più intime, narra piuttosto dei suoi incontri letterari e artistici tra New York, Londra e Parigi.

Inevitabile, per noi che viviamo in un’epoca di poco fermento intellettuale, dove la cultura è relegata agli ultimi posti e la bella scrittura langue tramortita dalla volgarità imperante, provare una punta d’invidia nel leggere un resoconto così dettagliato dei molteplici incontri con personaggi che hanno avuto tutti un posto di rilievo in campo artistico.
Uno in particolare rivive in ogni pagina, Henry James, lui ed Edith Wharton furono grandi amici per tutta la vita e lei tratteggia un ritratto a tutto tondo, dell’uomo e dello scrittore, molto lontano dall’immagine consueta cui siamo abituati, mostrando le sue debolezze (Il suo modo lento di parlare, a volte scambiato per ostentazione – o più stranamente, per un’ingenua forma di anglomania! – era in realtà una parziale vittoria su una balbuzie che nella sua infanzia era stata giudicata incurabile), ma anche la sua straordinaria ironia (Mentre scrivo, ripenso con struggimento a quelle ore perdute, consapevole di continuo che i lettori devono coglierne la gaiezza, i motti di spirito, le risate, sulla fiducia; eppure incapace di staccarmene con la memoria mortificata di non potere offrire agli altri neppure un barlume del più divertente dei compagni, dell’allegro, del burlone, del gioioso e anche malizioso James, che era così diverso dal personaggio solenne che appare a occhi meno intimi).

Venendo a contatto con questi grandi pensatori, pittori, scrittori della fine dell’800 e degli inizi del ‘900, così prolifici e profondi, non si può però fare a meno di notare l’importanza che ha avuto per la loro produzione artistica il fatto di non dover lavorare per vivere, se non in casi eccezionali. Naturalmente senza nulla togliere al genio creativo che deve comunque alimentare sempre il sacro fuoco, avere la possibilità di coltivare i propri pensieri senza interrompere mai la concentrazione credo che abbia influito in maniera determinante. Di sicuro viaggiare per il mondo, poter vivere a proprio piacimento in città che sono la culla di ogni fermento culturale come New York, Parigi e Londra, non saltare nemmeno l’immancabile tappa in Italia, affittare cottage nella bella campagna inglese o francese, avere uno stuolo di camerieri e tutto il tempo a propria disposizione, ispira molto di più del dovere sbarcare il lunario, magari svolgendo anche un lavoro umiliante o fisicamente sfibrante.

Wharton espone i suoi racconti, aneddoti e incontri eccezionali in un modo così spontaneo da rendere piacevole ogni passo del suo libro, non si fa mai vanto della sua fortuna e più che mettere in risalto se stessa preferisce dipingere un affascinante quadro del tempo dove spiccano i ritratti di Jacques-Emile Blanche, dove si può conversare con Henry James, Bernard Berenson, George Meredith, Paul Bourget, perfino con Matilde Serao e dove si entra nei più importanti salotti dell’epoca, con tutto il fascino che li caratterizza, ma sempre sfiorati dall’immancabile sguardo ironico di Edith che si posa su tutte le pagine.

A Parigi il salon che accoglieva le persone più illustri era quello della contessa de Fitz-James: Nel primo salotto, una stanza piccola tappezzata di damasco rosso, Madame de Fitz-James, seduta accanto al fuoco, con la gamba zoppa appoggiata su un panchetto, riceveva i suoi amici più intimi. Da qui si accedeva al salotto grande, con quadri di Ingres e David appesi alle pareti chiare, e con sofà e poltrone tappezzati di stoffa; era qui che si riunivano gli ospiti in genere. Attigua a questa vi era un’altra piccola stanza, rivestita di elaborate librerie Luigi XV, in cui si allineavano file di libri rilegati preziosamente, mai turbati nel loro ordine – giacché Madame de Fitz-James era una collezionista di libri, non una lettrice. Di ciò non faceva un segreto – come, del resto, di nessuna delle sue idiosincrasie – perché era una delle donne più schiette che io abbia mai conosciuto, e sinceramente modesta, senza affettazione. I suoi libri erano un ornamento e un investimento; non fingeva mai che fossero qualcosa di diverso.

Ed è incredibile pensare a quanto fosse importante il bout de table, il posto a sedere occupato dagli ospiti e assegnato in base ad una gerarchia minuziosa e impeccabile.

Il padrone e la padrona di casa siedono uno di fronte all’altro a metà tavola e gli ospiti digradano a destra e a sinistra in importanza decrescente fino alle estremità della tavola, dove si raggruppano tutti coloro che sono privi di titolo nobiliare, di cariche ufficiali, non classificati ma di solito giovani, brillanti e loquaci.

Jacques-Emile Blanche oltre ad essere un pittore celebre per i ritratti ai suoi contemporanei famosi, tra cui il giovane Marcel Proust, era anche musicista e uomo di lettere e sia a lui che alla moglie piaceva riunire in casa propria gli artisti più promettenti, parigini e londinesi, pertanto capitava spesso che un ricevimento si trasformasse in un evento straordinario, ineguagliabile. In uno di questi Edith rimase folgorata dall’incontro con un giovane e incontenibile Jean Cocteau, capace di tramutare la serata più tranquilla in qualcosa di travolgente vitalità. Dei tanti aneddoti da lui raccontati e perduti nella memoria alla Wharton ne rimane però uno molto famoso:

Adesso vorrei avere scritto un migliaio delle cose che ho sentito dire a Cocteau; ma tutto è svanito, tranne una storia stranamente bella, che mi disse di avere letto da qualche parte, ma che non sono mai riuscita a rintracciare.
Un giorno che il sultano era nel suo palazzo a Damasco, un bel giovane, che era il suo favorito, corse da lui spiegando, in tono concitato, che doveva andare immediatamente a Baghdad, e implorò Sua maestà di prestargli il suo cavallo più veloce.
Il sultano gli chiese perché mai avesse tanta fretta di andare a Baghdad. «Perché», rispose il giovane, «or ora, mentre passavo dal giardino del palazzo, c’era la Morte, e quando mi ha visto, ha allungato le braccia, come per minacciarmi, e non devo perdere tempo per sfuggirle».
Venne concesso al giovane di prendere il cavallo del sultano e di correre via; e quando se ne fu andato, il sultano, indignato, scese in giardino e vide ancora lì la Morte. «Come osi fare dei gesti minacciosi al mio favorito?» esclamò; ma la Morte stupita, rispose: «Le assicuro, Maestà, che non l’ho minacciato. Ho soltanto sollevato in alto le braccia, sorpresa di vederlo qui, perché ho un appuntamento con lui, stanotte, a Baghdad».

Chi non ha cominciato a canticchiare Samarcanda di Roberto Vecchioni?

Spinta da curiosità e non avendo informazioni di prima mano, mi sono limitata a raccogliere dati via web e quello che segue è l’interessante resoconto.
Della collana La biblioteca Blu di Franco Maria Ricci fa parte un’antologia di “Racconti brevi e straordinari” raccolta da Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares. Qui si trova la storia che la Wharton riporta nell’autobiografia, tratta dal libro di Jean Cocteau, Le Grand Ecart (1923), anche se la fonte originaria sembra essere il Talmud Babilonese: C’erano un tempo due scribi etiopi che erano al servizio di Salomone, Elihoreph ed Ahyah. Un giorno Salomone vide l’Angelo della Morte assai rattristato. «Perché sei così triste?» gli chiese. «Perché» rispose «mi hanno ordinato di prendere quei due Etiopi». [Allora Salomone] per salvarli li mandò alla città di Luz. Tuttavia, quando vi arrivarono,morirono. Il giorno seguente Salomone vide l’Angelo della Morte molto contento. «Perché sei così felice?» gli chiese. «Perché hai mandato i due etiopi proprio nel luogo dove dovevo prenderli!» risposte la Morte. Al che Salomone espresse la morale della parabola: «I piedi di un uomo sono responsabili per lui: essi lo portano nel luogo dove egli è atteso.»

Nel 1933 William Somerset Maugham scrive nella commedia Sheppey:
[Chi parla è la Morte] C’era a Baghdad un mercante che mandò il suo servo al mercato per fare acquisti. Ma il servo ritornò subito, pallido e tremante, e disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, sono stato urtato da una donna nella folla, e quando mi sono voltato mi sono accorto che era stata la Morte ad urtarmi. Mi ha guardato e mi ha fatto un gesto minaccioso, quindi, ti supplico, prestami il tuo cavallo ed io fuggirò e scamperò al mio destino. Andrò a Samarra, dove la morte non potrà trovarmi.” Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in sella e piantò gli speroni nei fianchi della bestia che partì al galoppo più veloce che poteva. Allora il mercante si recò alla piazza del mercato, mi scorse fra la folla: “Perchè stamane hai fatto un gesto minaccioso al mio servo?” – mi chiese avvicinandosi – ” Il mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa” risposi. “Ero stupita di vederlo a Baghdad visto che ho un appuntamento col lui questa notte a Samarra”.
Ecco che ci si sposta da Baghdad a Samarra.

Nel 1934 John O’Hara scrisse Appuntamento a Samarra, il romanzo che ispirerà la canzone a Vecchioni e che riporta all’inizio proprio la storia raccontata da Maugham, dalla quale prende anche il titolo.

Anche Oriana Fallaci racconta del vano tentativo di sfuggire alla morte in Il sole muore (1965) ed è proprio qui che finalmente si giunge a Samarcanda:

«Pensai piuttosto a quell’atroce racconto persiano dal titolo “Appuntamento a Samarcanda”. Nel giardino del re, la Morte appare a un servo. “Domani”, gli dice “ti vengo a prendere…” Allora il servo corre dal re e gli chiede il cavallo più veloce, per fuggire lontano: a Samarcanda. Arriva a Samarcanda, l’indomani, e la Morte è lì che lo aspetta. “Non è giusto”, grida il servo “non è leale”. “Perché?” risponde la Morte. “Sei fuggito senza farmi finire il discorso. Io ero in giardino per dire: domani ti vengo a prendere a Samarcanda”.»

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