Archivi tag: edmond jabès

Il libro della sovversione non sospetta. “La banalità non è inoffensiva: rende furiosi”.

La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte.

Uno scritto non è uno specchio. Scrivere è affrontare un volto sconosciuto.

Folle è il mare per non poter morire con una sola onda.

edmond jabesCosì inizia Il libro della sovversione non sospetta, di Edmond Jabès (1912-1991) scrittore naturalizzato francese, nato in Egitto da una famiglia ebrea di origini italiane. All’età di 12 anni un avvenimento tragico, la morte della sorella a causa della tubercolosi, rimarrà in lui come un dolore indelebile, supportato dal ricordo delle ultime parole che lei gli rivolge poco prima di morire: «On n’échappe pas à sa destinée» (non si sfugge al proprio destino). Dopo gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la scoperta di Auschwitz e l’orrore dei campi di concentramento lo sconvolgeranno in profondità. Costretto all’esilio, dopo la crisi del Canale di Suez, nel 1957 si trasferisce a Parigi e qui, inizialmente senza soldi, né nazionalità, né lavoro, imparerà l’esperienza dell’anonimato e prenderà anche coscienza del suo essere ebreo, esperienze che permetteranno al suo percorso poetico di delinearsi nettamente, cadenzato da temi ricorrenti quali, l’esilio, il deserto, l’identità, la scrittura.

Il primo a notare le sue poesie, pubblicate in una rivista letteraria franco-egiziana L’Anthologie mensuelle, fu Max Jacob nel 1931, tra i due inizierà un’intensa corrispondenza che durerà per lunghi anni, a proposito della quale rimane anche la prefazione di Jabès (Préface aux lettres de Max Jacob à Edmond Jabès) pubblicata nel 1945 l’anno successivo alla morte di Jacob.

Forse sovversivo è quel libro che denuncia, dentro la scia d’un pensiero aggredito, la sovversione della parola nei confronti della pagina e della pagina nei confronti della parola, e l’una con l’altra confonde.

In questo senso, fare un libro vuol dire offrire un sostegno alle forze sovversive che attraversano il linguaggio e il silenzio, un sostegno che segua il ritmo delle loro riprese. []

Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura. []

E se la sovversione fosse solo lo scarto tra la cosa creata e la cosa scritta?

Uno stesso abisso separerebbe, allora, l’uomo dall’uomo e il libro dal libro.

Quanti autori si sono cimentati nel tentativo di descrivere e spiegare l’atto creativo? Decodificare la parola? Giungere al suo senso primigenio? Jabès con l’ausilio della poesia, strumento potentissimo del non detto, che aleggia sopra ogni lemma, esplora il pensiero fin dalle origini e tenta di tracciare una mappa ricca di riferimenti e allusioni che toccano tutte le sfere del sapere fino ad un prima del tempo che esclude perfino Dio, un Dio che viene creato dal Libro.

Tutto dimorava nell’attesa di Dio.

Così la Creazione venne prima del Creatore.

così Dio anticipò Dio nell’Idea di Dio.

Tutto dimorava nell’attesa del Nulla e il Nulla precedette l’attesa.

Dio è per aver risposto alla domanda: Sei tu?

Se l’esistenza di Dio fosse posteriore a quella dell’uomo, nulla ci impedirebbe di pensare che il niente avrebbe avuto una voce più antica di quella del mondo, e il deserto avrebbe avuto, nella sua relazione con il vuoto, una parola, prima ancora che la luce sferzasse le tenebre.

Voce del mare soffocata. Voce della sabbia sommersa.

Ciò che importa è sempre la domanda, un succedersi di domande, è lì il lampo dell’intuizione, non nella risposta, anzi la risposta riporta indietro, oscura quel fulmine, vanifica la domanda.

L’interrogazione crea. La risposta uccide.

il libro della sovversioneLa sovversione è in atto, è atto stesso di parola e si sa, come ogni cosa contiene anche il suo contrario, anche la parola non fa che sovvertire il proprio significato. È come la sabbia del deserto che non avendo forma può assumere qualsiasi configurazione, essere e non essere al tempo stesso, ferma eppure in movimento a ricordarci che non siamo nulla di quel che la materia ci illude, né dobbiamo o possiamo fermarci in una fissità di morte, ma semplicemente scorrere, come fa la sabbia che si vorrebbe trattenere in una mano.

Si legge soltanto e sempre quel che manca alla lettura totale della parola.

Sicché ogni volta si è portati a intraprendere d’essa una lettura differente.

Jabès vuole ricostruire il Libro, per lui Libro e Scrittura coincidono. I riferimenti al Libro sacro dell’ebraismo non mancano, ma la sua è una religiosità molto personalizzata, ri-creata, poiché la scrittura va oltre tutto. La parola si colloca in un continuum che contiene vita e morte, quindi è, sempre.

L’opera non è mai compiuta. Essa ci lascia nell’incompiuto, nel cui spazio moriamo. Quel che ci rimane è solo la sua parte bianca, e non si tratta di utilizzarla, ma solo di tollerarla. Lì dobbiamo installarci.

Accettare il vuoto, il nulla, il bianco. Tutto quel che creiamo è dietro di noi.

Oggi io sono, di nuovo, in quel bianco: senza lingua, senza gesti, senza parole.

Quel che ancora è da compiere si presenta volentieri come compiuto: il deserto, dove l’impotenza ci risospinge.

La parola di Jabès è sempre intensa, carica di una potenzialità che solo il lettore può fare implodere dentro di sé. La vita si confonde con la morte, la pagina bianca contiene il maggior numero di frasi, il silenzio è la voce più eloquente, nell’assenza si coglie la presenza, in tutti questi paradossi apparenti e perfino scontati c’è la chiave di comprensione più semplice per noi, quella che abbiamo tutti e sempre davanti agli occhi, la struttura stessa del nostro essere: siamo divisi in due e una metà non può capire nulla senza l’altra. A partire dai lobi del nostro cervello, ogni cosa per la nostra mente ha un senso solo in relazione al suo opposto.

A questo punto anche l’indicibile si può dire attraverso il dicibile.

Se l’ombra è un’interrogazione alla luce, essa è anche un’interrogazione all’ombra; se la luce è una risposta all’ombra, essa è anche una risposta alla luce. Oh! Anello dentro l’anello!

Se Dio fosse l’Uno, Egli sarebbe doppio, dal momento che l’unico non è altro che l’impensato dell’Uno, il quale, non appena pensato, cessa di essere unico.

La sua opera appare frantumata, sgretolata da un passato di dolore, quasi come se volesse dire per immagini e frasi lapidarie la diaspora così tristemente nota agli ebrei. Di cammino in cammino, di frase in frase non si deve mai arrivare perché il Luogo è il non-luogo, riparo ambito del non-detto.

Il niente è il luogo eterno del nostro esilio: l’esilio dal Luogo.

Il gesto di scrivere è un gesto solitario dice il poeta, ma la stessa solitudine è una creazione di chi scrive, ogni catena che l’uomo si impone è una sua scelta precisa, altrimenti non potrebbe esistere e la solitudine è nella parola stessa che la anticipa e poi la designa. Pertanto il libro è prima intuito e soltanto dopo lo si può costruire attorno al suo vuoto.

La scrittura è una scommessa con la solitudine. Flusso e riflusso della non-quiete. Essa è pure riflesso d’una realtà riflessa, colta nella sua rinascita, una realtà della quale andiamo costruendo l’immagine, nel cuore dei nostri desideri confusi, nel cuore dei nostri dubbi.

Tutta la sua scrittura si basa su ciò che manca, sull’ombra, sulla parte invisibile che permette la concretizzazione dell’esistenza. Ma come posso permettere senza avere già un’esistenza? Si tratta di un continuo inseguirsi e oltrepassarsi, una sorta di condanna d’eternità.

Dinanzi a una rosa ci comportiamo in modo incomprensibile.

Conquistati dalla sua bellezza, con un gesto di meraviglia, le togliamo la vita.

Scrivere è rinnovare su di sé quel gesto.

Quel che muore in noi può morire soltanto insieme con noi.

Il libro è forse il quotidiano far parte di tutte queste morti.

26 commenti

Archiviato in poesia, visioni