Mi sono sempre chiesto come doveva essere stato, per un forestiero, assistere in prima persona all’oscura ascesa al potere di Hitler. Che aspetto avesse la città, che cosa si sentiva, si vedeva, si respirava, e come i diplomatici e gli altri visitatori interpretassero gli eventi che accadevano intorno a loro. Col senno di poi, ci siamo resi conto di quanto sarebbe stato facile cambiare il corso della storia in quel periodo delicato. E allora perché nessuno ha alzato un dito? Perché c’è voluto così tanto tempo per riconoscere il reale pericolo rappresentato da Hitler e dal suo regime?
È sorprendente notare come la storia si assomigli sempre, malgrado l’inevitabile processo che porta avanti nel tempo, almeno su quella linea retta che è la migliore rappresentazione della cronologia, dove presente, passato e futuro sono facilmente collocabili e comprensibili. Certe similitudini tuttavia sgomentano, soprattutto perché danno l’impressione che numerose atrocità del passato si possano ripetere, magari con modalità diverse, ma comunque grazie alla ciclicità, che la linea retta non contempla, e che pure fa parte della temporalità, ecco che nella mescolanza di presente, passato e futuro, ciò che sembra tornare è in verità qualcosa che non è mai andato via.
Un giorno, all’alba di tempi molto bui, un padre e una figlia americani si ritrovarono improvvisamente trapiantati dalla loro accogliente casa di Chicago nel cuore della Berlino nazista. Vi restarono per quattro anni e mezzo, ma sono soltanto i primi dodici mesi i protagonisti del racconto che segue, poiché coincisero con l’ascesa di Hitler da cancelliere a tiranno assoluto, quando tutto era un’incognita e non esisteva alcuna certezza. Quel primo anno si trasformò in una sorta di prologo che conteneva in nuce tutti i temi della grandiosa epica di guerra e sterminio che si sarebbero sviluppati di lì a poco.
William E. Dodd (1869–1940), storico americano, è stato ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino dal 1933 al 1937 dunque in pieno fermento nazista. Quando il presidente Franklin Delano Roosevelt gli offrì l’incarico Dodd era professore di storia all’Università di Chicago ed era impegnato nella realizzazione del suo libro in quattro volumi, che avrebbe intitolato L’ascesa e la caduta del vecchio Sud, del quale però solo il primo tomo stava giungendo a compimento.
Gli eventi della vita seguono sempre strani percorsi, probabilmente Dodd è stato una delle variabili imprevedibili che spesso piombano su una mappa prestabilita, portando lo scompiglio. E tuttavia le cose vanno come devono andare, perché nessuno può svegliare chi sta dormendo se non il dormiente stesso.
Questa è un’opera di non-fiction. Tutto il materiale fra virgolette è ricavato da lettere, diari, memorie o altri documenti storici. Nelle pagine che seguono non ho certo tentato di scrivere l’ennesima epopea del periodo in questione. Il mio scopo era di natura più intima: far conoscere quel mondo del passato attraverso le esperienze e le sensazioni dei miei due protagonisti, padre e figlia, che, giunti a Berlino, intrapresero un viaggio di scoperta, trasformazione e, infine, di profondo dolore.
Il giardino delle bestie. Berlino 1934 è un romanzo storico molto particolare, il titolo è la traduzione di Tiergarten, il nome del parco principale di Berlino. L’autore Erik Larson ha compiuto un’opera minuziosa di cesellatura ed incastro di migliaia di tessere di un mosaico oscuro e nella ricostruzione di quegli anni è riuscito a portare il lettore dentro il libro, riempiendo ogni pagina non soltanto della sua scrittura, ma anche delle parole tratte dai diari e dalle lettere di Dodd, della figlia Martha e dei vari protagonisti dell’epoca ed anche brani estratti da documenti ufficiali. La lettura è talmente scorrevole che ci si dimentica dell’immenso lavoro che c’è dietro.
Tom Hanks sta adattando Il giardino delle bestie per farlo diventare presto un film del quale sarà produttore, ma anche attore protagonista.
Una fotografia di Dodd in ufficio a Berlino durante la sua prima settimana di lavoro lo ritrae seduto a un’ampia scrivania dagli intagli elaborati, con la parete alle spalle interamente coperta di arazzi e un sofisticato telefono alla sua sinistra, a circa un metro e mezzo di distanza. C’è un che di comico in quella foto: Dodd, un uomo esile con il colletto bianco e inamidato, i capelli impomatati e separati al centro da una riga netta, fissa l’obiettivo con espressione severa, ma reso minuscolo da tutto quello sfarzo. La fotografia destò una buona dose d’ilarità fra quelli che al dipartimento di stato disapprovavano la sua nomina ad ambasciatore.
Il sottosegretario Phillips chiuse una sua lettera a Dodd scrivendo: «Una foto che la ritrae alla scrivania, sullo sfondo di uno splendido arazzo, si è diffusa a macchia d’olio, e devo riconoscere che è di grande effetto».
Dodd non perdeva occasione per violare alcune regole del l’etichetta, almeno agli occhi del suo consigliere d’ambasciata, George Gordon, e insisteva per andare a piedi alle riunioni con i funzionari di governo.
All’epoca per ricoprire certe cariche, bisognava fare parte di una élite, il prestigio di una persona si misurava anche dall’aspetto esteriore, dallo sfarzo del quale poteva circondarsi e dalla propensione ad una vita mondana a ritmo serrato che si concretizzava nel passare da una festa all’altra, da un ricevimento all’altro e nel possedere una certa compiacenza ipocrita, il dovere del diplomatico di lasciare ai margini lucidità e lungimiranza in favore di una mediazione fin troppo comprensiva nei confronti dei governi dei paesi ospitanti. Una delle “pecche” di Dodd, che lo aveva messo subito in cattiva luce, era stata proprio quella di non fare parte della giusta casta di aristocratici, di non amare le feste, di mantenere le sobrie abitudini di sempre, ma venne ostacolato anche per la sua perspicacia e per l’attitudine a non conformarsi al pensiero dominante e a ragionare e agire di testa propria.
D’altra parte è sempre stato così, il potere spetta ad una classe di privilegiati e se non ne fai parte o non ti adegui a certe regole, automaticamente vieni tagliato fuori. E noi italiani di caste ce ne intendiamo bene.
Il Presidente spostò quindi la conversazione su quanto si aspettava da Dodd. Prima di tutto, sollevò la questione del debito tedesco, manifestando in proposito sentimenti contrastanti. Riconosceva che i banchieri americani avevano realizzato quelli che definiva «profitti esorbitanti» concedendo prestiti a imprese e a città tedesche e vendendo ai cittadini americani obbligazioni collegate a quegli stessi prestiti. «Ma la nostra gente ha il diritto di essere rimborsata e, sebbene si tratti di una questione che va oltre le responsabilità del governo, voglio che lei faccia tutto il possibile per prevenire una moratoria», ovvero una sospensione dei pagamenti da parte della Germania. «Rischierebbe di ritardare il recupero dei nostri crediti». Il Presidente affrontò poi quello che sembrava ormai di moda chiamare “il problema” o “la questione” ebraica.
Roosevelt sapeva di doversi muovere su un terreno insidioso. Pur essendo sconcertato dal trattamento subito dagli ebrei per mano dei nazisti e consapevole della violenza che aveva sconvolto la Germania qualche mese prima, si asteneva dal pronunciare una condanna esplicita. […] Roosevelt, però, sapeva che il prezzo da pagare in termini politici per un’eventuale condanna della persecuzione nazista o per qualunque sforzo manifesto di favorire l’ingresso degli ebrei in America sarebbe stato con ogni probabilità immenso, perché nell’ambito del dibattito politico americano la questione ebraica era considerata come un problema d’immigrazione. La persecuzione degli ebrei in Germania evocava lo spettro di un massiccio afflusso di rifugiati in un periodo in cui l’America vacillava sotto i colpi della Depressione.
È strano come nel presente, quando si vive qualcosa non si riesca ad essere lucidi, c’è sempre una nebbiolina di fondo che impedisce di avere una visione chiara, soltanto a posteriori si colgono i segnali che invece avrebbero potuto salvare tante vite. L’importanza del particolare è fondamentale, a quei tempi nessuno si era reso conto di quanto la situazione fosse pericolosa, né si dava la giusta importanza a certi episodi apparentemente isolati, ma che in realtà miravano a compiere un disegno ben preciso. Alla base di tutto, prima dell’antisemitismo, come sempre accade, le ragioni erano squisitamente economiche: la Germania aveva infatti un debito enorme con gli Stati Uniti. Non mancò nemmeno naturalmente quel sottile filo di crudeltà che serpeggia negli esseri umani che trovano facilmente un motivo per sentirsi superiori all’altra metà del mondo e gli americani con l’esempio della schiavitù e del razzismo pesante nei confronti della gente di colore non hanno certo lesinato esempi stimolanti per il regime nazista. Addirittura Hitler citò, nel Mein Kampft, proprio lo sterminio americano degli indiani come modello pratico per la soluzione finale.
Chi ha l’ambizione di dominare il mondo o la gran parte di esso, sa che il terreno della violenza è costantemente fertile, perché c’è sempre qualcuno pronto ad odiare qualcun altro per futili motivi e così le menti che regolano i movimenti dei burattini, coloro che sfruttano questa attitudine tutta umana alla brutalità, possono coltivare il loro sogno di potere e denaro ( sì perché non c’è nulla di più remunerativo di una bella guerra), trovando manovalanza sempre fresca e prestante.
Personaggio importante è anche la figlia di Dodd, Martha (era alta un metro e sessanta, e aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e un sorriso radioso. Aveva un’immaginazione venata di romanticismo e un atteggiamento civettuolo, due prerogative che avevano acceso la passione in molti uomini, più o meno giovani.) una bella ragazza esuberante e disinibita che frequenterà molti uomini a Berlino, tra i quali il capo della Gestapo, Rudolf Diels, e Boris Vinogradov, un esponente dell’ambasciata russa che la metterà in contatto addirittura con i servizi segreti sovietici con i quali sembra avere collaborato a lungo. Fu attraverso Diels che Martha iniziò per la prima volta a riconsiderare la sua visione idealistica della rivoluzione nazista. «Davanti ai miei occhi da sognatrice iniziò a prendere forma… un’immensa e complessa rete di spionaggio, terrore, sadismo e odio, a cui nessuno – si trattasse di un soldato semplice o di un ufficiale – poteva sfuggire». Sorprendente il mutamento di cui si fa portavoce, inizialmente affascinata, quando il nazismo sembrava un movimento rivoluzionario che tendeva al miglioramento del paese, arriverà ad un’avversione tale da passare all’estremo opposto, al comunismo. Del resto, lo stesso Dodd inizialmente cede al pensiero comune, lusinga un po’ il proprio leggero antisemitismo e parteggia per i nazisti, ma prevarrà in lui lo spirito democratico e una sorta di purezza, di integrità che gli permetteranno di mettere a fuoco la triste realtà.
Qualcosa lo abbandonò: un ultimo, vitale elemento di speranza. Nella pagina del suo diario dedicata all’8 luglio, una settimana dopo l’inizio delle purghe e a pochi giorni dal primo anniversario del suo arrivo a Berlino, scrisse: «il mio compito è lavorare per la pace e per un miglioramento delle relazioni tra Germania e Stati Uniti. Ma non vedo come sia possibile ottenere un qualunque risultato fino a quando Hitler, Göring e Goebbels saranno alla guida del paese. Non ho mai sentito parlare o letto di uomini che fossero meno adatti ad avere in mano il potere. Dovrei forse dimettermi dal mio incarico?»
Giurò che non avrebbe mai ospitato Hitler, Göring o Goebbels all’ambasciata o in casa sua, e concluse: «Non presenzierò mai più a un discorso del cancelliere, né chiederò un colloquio con lui, se non in circostanze ufficiali. Provo una sensazione di orrore anche soltanto a guardarlo».
Dodd è spettatore sottile, ma corrispondente incompreso, le sue intuizioni che avevano anticipato i tempi non vengono tenute nella giusta considerazione, semmai osteggiate e ridicolizzate, anche Martha, si rese presto conto della pericolosità di un regime subdolo che nascondeva le sue vere intenzioni. La lenta costruzione di Larson, la spiegazione minuziosa quasi giorno per giorno del 1934 trova il suo punto di non ritorno in quella che la storia denominerà la notte dei lunghi coltelli, che ebbe inizio il 30 giugno 1934, è quello il momento in cui Hitler scopre le sue carte e si mostra chiaramente come un uomo determinato a raggiungere i propri scopi, eliminando qualsiasi ostacolo si frapponga, con qualsiasi mezzo.
La purga di Hitler sarebbe diventata famosa come “la notte dei lunghi coltelli”, e sarebbe stata considerata dai posteri uno degli episodi più importanti della sua ascesa, il primo atto nella grande tragedia della “pacificazione”. In un primo tempo, però, nessuno ne comprese a fondo il significato. Non vi fu un solo governo che richiamasse il suo ambasciatore o inoltrasse una protesta formale, né la popolazione si ribellò, mossa dal disgusto per quanto era accaduto.
Dodd diventerà sempre più intollerante rispetto alle iniziative dei nazisti tanto da rifiutarsi di partecipare alle adunate e mandando dispacci su dispacci in patria, con l’unico effetto di inasprire fortemente il governo nazista, che ne chiederà formalmente il trasferimento. Ad insaputa di Dodd, che voleva dimettersi, ma non subito per evitare l’impressione che ogni protesta dei tedeschi venisse subito accolta, Roosevelt aveva invece ceduto alle pressioni del dipartimento di Stato e del ministero degli Esteri tedesco e aveva deciso che Dodd sarebbe stato rimosso dall’incarico entro la fine dell’anno 1937. Dodd protestò, ma invano. Soltanto un anno dopo, nel novembre del 1938, dopo la tristemente nota Notte dei cristalli, Roosevelt condannò pubblicamente il governo tedesco. Il resto è l’abominio che tutti sappiamo.
Nel settembre del 1939 le armate di Hitler invasero la Polonia, scatenando la guerra in Europa. Il 18 settembre, Dodd scrisse a Roosevelt che sarebbe stato possibile evitare il conflitto se «le democrazie europee» avessero semplicemente agito di concerto per fermare Hitler, come Dodd aveva sempre suggerito.
«Se avessero cooperato» scrisse l’ex ambasciatore, «ce l’avrebbero fatta. Adesso è troppo tardi».