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Il Consiglio d’Egitto. “La menzogna è più forte della verità”.

Quale posto occupano ragione e verità nel mondo? O meglio quale posto devono occupare? Certamente il posto che la storia manipola per loro. Sappiamo tutti di vivere in un mondo di ipocrita finzione, ornata di pensiero filosofico o religioso, di impeto patriottico, di orgoglioso furore in nome dell’onore. Ma cosa sappiamo veramente di questi bei concetti se non quello che l’onda del momento comanda? Altrimenti perché ciò che è vero oggi domani risulterà ignobile menzogna? E perché se si muore da perseguitati per certe idee adesso, domani poi si diventerà eroi, precursori, martiri?

La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita.

copertinaIl Consiglio d’Egitto (1963) di Leonardo Sciascia, racconta del creativo imbroglio filologico, letterario e sociale di don Giuseppe Vella che, in occasione del fortunoso arrivo a Palermo dell’ambasciatore del Marocco, Abdallah Mohamed ben Olman, vede e coglie la possibilità di cambiare la propria vita assurgendo ai vertici della società, che fino a quel momento lo aveva snobbato. Non essendoci in città esperti di arabo, il viceré chiama il cappellano dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, Giuseppe Vella appunto, che a quanto pare è l’unico a poter fare da interprete e quindi a potersi occupare dell’ambasciatore durante il suo soggiorno a Palermo. Vella, che fino a quel momento è vissuto di espedienti, tra i quali anche dell’attività di smorfiatore di sogni, convocato insieme all’ambasciatore per prendere visione di un codice arabo conservato nel monastero di San Martino, finge, malgrado il dignitario riveli subito che si tratta di una delle tante vite di Maometto, che sia invece un manoscritto dove si racconta della conquista della Sicilia. Siamo nel dicembre del 1782 e grazie ad una società superficiale e ottusa, intenta a perseguire solo i propri interessi, dall’ansia di perdere certe gioie appena gustate, dall’innata avarizia, dall’oscuro disprezzo per i propri simili, prontamente cogliendo l’occasione che la sorte gli offriva, con grave ma lucido azzardo, Giuseppe Vella si fece protagonista della grande impostura.

L’altro protagonista del libro è l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, illuminista, rappresentante della ragione e seguace delle iniziative giacobine, convinto sostenitore delle idee di uguaglianza tra gli uomini. Complotta contro il vecchio ordine a favore della repubblica pagando un prezzo altissimo per le proprie convinzioni.

Guardando dalla platea, Di Blasi credeva di scorgere, sotto le alterne apparenze di noia e ironia, la profonda malinconia di quell’uomo. Acutissima, pensava il giovane avvocato, doveva essere in un uomo simile la coscienza della sconfitta e della morte [] Con la sua mente vigorosa, col suo carattere che da ogni ostacolo, da ogni resistenza, attingeva decisione ed energia, aveva subito attaccato il secolare edificio della feudalità siciliana. E aveva dovuto affrontare l’aperta resistenza della nobiltà, gelosa fino alla cecità dei propri privilegi, e quella ora aperta ora subdola del governo di Napoli, dove come ministro sedeva il siciliano marchese della Sambuca. Quel che era riuscito a fare, stretto in tale condizione, poneva nella storia di Sicilia le premesse di una possibile rivoluzione. Aveva individuato e messo a nudo i punti dolenti, i gangli paralizzati della vita siciliana: e anche se non era riuscito a sanarli o a reciderli, ne lasciava chiara diagnosi alle poche persone effettivamente preoccupate e sinceramente ansiose che nella loro patria il diritto prendesse il luogo dell’arbitrio, che uno Stato ordinato, giusto, civile si sostituisse al privilegio e all’anarchia baronale, al privilegio ecclesiastico.

All’inizio della narrazione era viceré il Caracciolo, un uomo illuminato che desiderava eliminare dalla Sicilia i privilegi baronali e clericali, perciò era inviso a tutti gli uomini di potere, laici od ecclesiastici e a tutti i nobili che lo vedevano come una minaccia costante alle proprie fortune. Per questo si organizzò una magnifica festa in occasione della partenza definitiva del viceré richiamato a Napoli.

E allora don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie!»

Dopo avere impiegato lungo tempo nella “traduzione” del manoscritto intitolato il Consiglio di Sicilia, Vella pensa bene di procurarsi dell’altro materiale con il quale creare di sana pianta il Consiglio d’Egitto, un codice tramite il quale prendeva in mano i diritti delle varie famiglie nobiliari, attribuendo loro magari illustri origini, ma restituendo alla Corona il legale possesso dei feudi, un forte segnale d’allarme per la nobiltà siciliana, che comunque egli si guarda bene dallo scontentare oltre un certo limite.

[] il Vella si improvvisa autore di due codici diplomatici, il Consiglio di Sicilia e quindi il Consiglio d’Egitto, nei quali pubblica il carteggio degli emiri di Sicilia coi principi d’Africa e quello dei principi normanni coi califfi d’Egitto.

Pura invenzione del furbo maltese che, «consapevole che persona alcuna in quella città fosse in grado di conoscere la sua lingua, e di conseguenza di comprendere l’impostura, adultera a suo capriccio codici e monete, creando racconti, descrizioni, storie genealogiche, principi giuridici dai quali sarebbe derivata una convenienza per la corona e che comunque giovassero a mantenerlo in buono stato ed a fargli godere il favore del Re e della nobiltà siciliana, nonché onorificenze, pensioni, abbazie».

(Paolo De Gregorio, Vita di Rosario Gregorio, 1996, Sellerio)

Tra il 1783 e il 1795 l’Europa si interesserà della vicenda dell’abate Vella rendendolo famoso, il suo destino si incrocerà con quello di Di Blasi e alla fine del romanzo (e della storia) Vella verrà scoperto e condannato a 15 anni di reclusione, mentre l’avvocato finirà in carcere, torturato e decapitato, per aver sognato la repubblica siciliana.

Vella e Di Blasi sono i portavoce dell’innovazione, il primo, anche se autore di un’impostura, in realtà non fa che prendersi gioco della stoltezza di chi sta ai vertici della società, mentre il secondo apre la strada ad un cambiamento radicale, ovvero un settore che esige sempre un numeroso esborso di vittime.

«Eh no, questo non è un volgarissimo crimine. Questo è uno di quei fatti che servono a definire una società, un momento storico. In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione, continua finzione e falsificazione della realtà, della storia… ebbene, io vi dico che l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile… Dico di più: l’abate Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine, rovesciandone i termini… Di un crimine che la Sicilia consuma da secoli…»

Il tentativo di smantellare il feudalesimo, il privilegio, radicato nelle abitudini, nella mentalità, in ogni fibra dell’essere, comincia dunque col Caracciolo, prosegue poi con l’inganno del Vella e fallisce definitivamente col sacrificio di Di Blasi.

Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla. Il suo corpo era un contorto tralcio di vite, una vite di dolore: grave di racimoli, incommensurabile. I racimoli di sangue, l’oscuro sangue dell’uomo. [] Il tuo corpo non ha più niente d’umano: è un albero di sangue… Bisognerebbe farla provare ai teologi, ché finalmente capiscano che la tortura è contro Dio, che devasta l’immagine di Dio che è nell’uomo…

Di colpo precipitò in un mare buio, il cuore come un’ala spezzata. Quando riebbe luce, era di nuovo davanti al tavolo dei giudici: i suoi piedi toccavano la terra, l’onda del dolore gli batteva soltanto, ardente e violenta sui polsi.

Amare e bellissime le pagine sulla tortura, una delle tante beffe perpetrate alla ragione e all’intelligenza, eppure, malgrado sia chiaro ad ogni essere pensante che la tortura non può portare alla verità, bensì alla mortificazione dell’essenza stessa di essere individui, di fare parte del consorzio umano, tuttavia la si è applicata per legge e ancora oggi la si applica laddove il diritto è un optional e non ha nemmeno la parvenza d’esistere. Perfino l’abate Vella, per quanto mosso fino a quel momento da meri interessi personali, grazie al sacrificio dell’avvocato si accorge di non essere indifferente a certi destini, di provare simpatia per l’uomo e di avere anche delle idee sulla rivoluzione e sulle varie forme di governo. Insomma nessuna sofferenza è vana, anche se poi, in generale la storia segue sempre le stesse coordinate.

La ferocia delle leggi, l’esistenza della tortura, le atroci esecuzioni di giustizia, di cui una volta era stato perfino spettatore, non avevano mai tubato i suoi sentimenti: li metteva in conto di eventi naturali o, a pensarci bene, li considerava come opera di correzione della natura non dissimile, e altrettanto necessaria, della potatura delle viti e della rimonda degli ulivi. Sapeva che c’era un libro, di un certo Beccaria, contro la tortura, contro la pena di morte: lo sapeva perché monsignor Lopez, proprio in quei giorni ne aveva ordinato il sequestro. E conosceva le idee di Di Blasi in proposito. Ma ci sono tante belle idee che corrono per il mondo; solo che il verso delle cose è un altro, violento e disperato. Ora però, a figurarsi una persona che conosceva, un uomo per il quale aveva stima e affetto, straziato dalla tortura e destinato alla forca, sentiva improvvisamente l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia: lo sentiva come un malessere fisico, come un urto di vomito.

E, malgrado siano trascorsi secoli e tutto l’apparato si sia mascherato d’altra effigie, viviamo tempi poi così diversi? Non abbiamo una classe di impostori privilegiati che vive a spese del cittadino lavoratore onesto? Blaterando di agire per interesse del paese e della collettività? Quando capita di rivedere sketch del passato nei quali i comici criticano il governo, sembra sempre che parlino del momento attuale, ulteriore prova che nel tempo cambia pochissimo, che l’uomo ha sempre la stessa sete di potere e di prevaricazione, mentre libertà, uguaglianza e fraternità rimangono concetti buoni per qualche slogan, campagna elettorale o per i nostalgici, ma nel campo della realtà attuabile equivalgono alla più lontana utopia.

L’analisi di Sciascia è impietosa e i fatti di cui narra sono emblematici, si prestano ad aderire perfettamente ad ogni epoca e a tratteggiare un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione sono sempre destinate a soccombere.

Il Consiglio d’Egitto è anche un film del 2002 diretto da Emidio Greco, con Silvio Orlando e Tommaso Ragno.

 

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