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Il ponte sulla Drina. Crocevia del molteplice.

E il ponte continuava a stare, tale quale era da secoli, con la sua eterna giovinezza di perfetto disegno e di buona e grande opera umana, una di quelle opere che non conoscono vecchiaia e trasformazioni e che, almeno così sembra, non condividono la sorte delle cose transitorie di questo mondo.

Il ponte, per definizione, assicura la continuità, è simbolo del congiungimento di ciò che è diviso e nell’unire due versanti può collegare paesi diversi, ottiche opposte, fare da tramite nelle divergenze apparentemente insanabili, diventare il luogo dove l’uno e il molteplice confluiscono, creare una zona neutrale dove gli opposti possono felicemente coincidere.

il ponte sulla drinaFinché durarono i festeggiamenti, e nei primi giorni in generale, la gente attraversò il ponte innumerevoli volte da una riva all’altra. I ragazzi andavano di corsa e gli anziani lentamente, conversando o ammirando da ogni punto le vedute del tutto nuove che adesso si potevano contemplare da quel posto. Gli infermi, gli zoppi e i paralitici vennero portati in barelle, perché nessuno volle mancare e rinunciare alla propria parte di quel miracolo. Ciascun abitante della cittadina, anche il più misero, ebbe la sensazione che le sue capacità si fossero all’improvviso moltiplicate e che la sua energia fosse cresciuta; come se un’impresa meravigliosa, sovrumana, fosse scesa alla portata delle sue forze ed entro i limiti della vita quotidiana; come se accanto agli elementi fino allora conosciuti -terra, acqua e cielo- ne fosse stato scoperto uno nuovo; come se, per benefico intervento di qualcuno, per tutti e per ciascuno fosse stato attuato uno dei più profondi desideri, un antico sogno degli uomini: camminare sopra le acque e dominare lo spazio.

andric il ponte sulla drinaUn ponte è al centro della narrazione del libro di Ivo Andrić, grande scrittore jugoslavo e premio Nobel per la letteratura nel 1961, Il ponte sulla Drina (1945) e grazie a tale espediente, il racconto può comprendere un arco temporale che un personaggio in carne ed ossa non potrebbe coprire. Naturalmente non si tratta di un ponte qualsiasi, Mehmed Paša Sokolović si trova infatti in una zona di frontiera, a Višegrad, una cittadina situata in Bosnia, al confine con l’area Serba della Repubblica Srpska, ma è anche un viadotto tra oriente e occidente, tra cristiani e musulmani. Il ponte diventa così il muto osservatore degli accadimenti storici e di tutte le storie personali che si avvicendano lungo un periodo che va dal 1500 fino alla Prima Guerra Mondiale.

La comunità di Višegrad, composta di ebrei, turchi e cristiani, in eterno conflitto tra loro, viene “salvata” in un certo senso proprio dal ponte, una costruzione sospesa, che sfida gli elementi e che, nei periodi storici più difficili in cui l’intera comunità è in pericolo, si offre come punto d’incontro, come momento di aggregazione, luogo senza tempo dove la lotta contro un nemico comune fa finalmente dimenticare ogni diversità.

Le fondamenta del mondo e le basi della vita e dei rapporti umani sono fissate per secoli. Questo non significa che esse non mutino, tuttavia, misurate col metro della vita degli uomini, sembrano eterne. Il rapporto tra la loro durata e la lunghezza dell’esistenza umana è paragonabile a quello che esiste tra l’irrequieta, mobile e veloce superficie di un fiume e il suo fondo stabile e saldo, le cui trasformazioni sono lente e sfuggono all’osservazione.

Una costellazione di racconti si incastra nella storia più ampia, quella ufficiale, alcuni scavano nella leggenda, altri sono realmente accaduti, altri ancora sarebbero potuti accadere e contemporaneamente trovano posto anche le imprese degli eroi popolari, gli usi, le tradizioni cruente, come la descrizione particolareggiata dell’esecuzione di un uomo condannato ad essere impalato, e tanti altri particolari storici insieme ad altrettanti personaggi che si incrociano tutti sul ponte. In particolare il punto di ritrovo è la cosiddetta porta, una sorta di terrazza che fa da salotto alla città, il luogo di convegno nella terra dell’universalità, laddove non ci possono essere differenze etniche, di ceto sociale o religiose ed è proprio lì che si decide di volta in volta il destino della comunità.

Per una legge di natura la gente s’opponeva a tutte le novità, ma non spingeva questa sua opposizione fino alle estreme conseguenze, dato che, per la maggioranza, la vita è più importante e più rapida delle forme nelle quali si vive. Solo in alcuni individui, eccezionalmente, si svolgeva un lungo, sincero dramma a causa della lotta tra il vecchio ed il nuovo. Per loro il modo di vivere era inseparabilmente e incondizionatamente connesso con la vita stessa.

Ivo AndricTuttavia c’è una forza potentissima di distruzione portata avanti dalla guerra mondiale che apre una nuova epoca, quella della modernità devastatrice che anticipa i venti nazionalisti fomentatori dei prossimi genocidi e proprio quella forza riuscirà a spezzare il vecchio simbolo di immortalità, aprendo, giusto in mezzo al ponte, una voragine che precipita nell’abisso della stupidità umana, energia disgregatrice senza pari, madre dell’arroganza e della prevaricazione, colei che sempre costringe a tornare indietro, affinché tutto il cammino evolutivo rallenti e si perda nei corsi e ricorsi storici, perché nella dimensione terrena è ancora la separazione che trionfa sull’unità. Nel corso della Prima Guerra Mondiale furono infatti distrutte tre arcate del ponte e altre cinque durante la Seconda Guerra Mondiale, oggi il ponte ricostruito fa parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

Tanti anni Iddio ha mandato sulla cittadina accanto al ponte, e tanti ancora ne manderà. Ce ne sono stati e ce ne saranno di ogni genere, ma il 1914 resterà per sempre separato dagli altri. Così almeno sembra a coloro che l’hanno vissuto. Ad essi pare che mai, per quanto si possa raccontare o scrivere, si potrà né si oserà dire tutto quel che s’è veduto allora nel fondo del destino umano, fuori del tempo e al di sotto degli avvenimenti. Chi potrebbe esprimere e riferire (così pensano!) quei brividi collettivi che d’un tratto hanno scosso le masse e che poi, dalle creature viventi, hanno cominciato a trasmettersi alle cose morte, ai quartiere e agli edifici? Come descrivere l’ondeggiare di sentimenti nella gente, passata dalla muta paura animalesca alla follia suicida, dai più bassi istinti di sanguinaria e subdola brama di saccheggio alle più nobili imprese che richiedono spirito di sacrificio e nelle quali l’uomo trascende se stesso e attinge per un attimo sfere di mondi superiori reggentesi su leggi diverse da quelle umane? Ciò non potrà mai essere detto, perché chi contempla simili eventi e ad essi sopravvive, ammutolisce, e i morti, dal canto loro, non possono parlare. Queste son cose che non si dicono, ma si dimenticano. Se infatti non si dimenticassero, come potrebbero ripetersi?

Ma se il viaggiatore è anche il viaggio e dunque anche il percorso, che cosa meglio del ponte può rappresentarne il congiungersi? Un ponte abbraccia una simbologia infinita, oltre a collegare due punti che altrimenti non potrebbero mai unirsi rappresenta anche qualcosa di immobile che però, paradossalmente, è come se fosse sempre in movimento attraverso il continuo viavai di persone, di epoche, di storie che lo attraversano. In effetti come un arcobaleno rappresenta l’idea dell’impermanenza nella realtà, dell’intangibile che pure si vede, così il ponte si spinge oltre la sua natura materiale sconfinando nel campo dell’ideale. Il sentiero che unisce due dimensioni dall’aspetto inconciliabile, che ci rende presenti e assenti, carne e spirito, terreni eppure ad un passo dal cielo. Se non impariamo a guardare, come potremo mai vedere?

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