Spietatamente, vide la sua vita come doveva apparire agli occhi di un altro.
Ponderatamente, con calma, realizzò che doveva sembrare un vero fallimento. Aveva voluto l’amicizia, e quell’intimità legata all’amicizia che potesse renderlo degno del genere umano. Aveva avuto due amici, e uno dei due era morto insensatamente prima che potesse conoscerlo, mentre l’altro si era ormai ritratto a tal punto tra i vivi, che…
Aveva voluto l’unicità e la quieta indissolubilità del matrimonio. Aveva avuto anche quella e non aveva saputo che farsene, tanto che si era spenta. Aveva voluto l’amore e ci aveva rinunciato, abbandonandolo al caos delle possibilità. Katherine, pensò. «Katherine».
Aveva voluto essere un insegnante e lo era diventato. Eppure sapeva, lo aveva sempre saputo, che per buona parte della sua vita era stato un insegnante mediocre.
Aveva sognato di mantenere una specie d’integrità, una sorta di purezza incontaminata; aveva trovato il compromesso e la forza dirompente della superficialità. Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza. E che altro?, pensò. Che altro?
Cosa ti aspettavi?, si domandò.
Cosa si aspettava William Stoner dalla vita? Ed è stata un fallimento? Per certi versi sì sicuramente, ma nello stesso modo in cui lo è per ognuno di noi, proprio per quella domanda fondamentale e inutile: cosa ti aspettavi? Il problema di fondo è lì, nelle aspettative, che sono il metodo migliore per falsare i propri desideri, le proprie attitudini. Ma allora se si inverte l’informazione, forse la vita di Stoner è stata un vero successo, dal momento che lui non ha assecondato affatto le aspettative, ma ha seguito l’improvvisa folgorazione della passione per la letteratura. Ha fallito se si seguono le norme del successo sociale e quindi non è diventato famoso, non ha avuto fortuna all’università, anzi al contrario è stato vessato, non ha avuto un matrimonio felice e perfino il rapporto con la figlia, carico di promesse si è rivelato poi fallimentare. Socialmente William Stoner ha fatto fiasco, ma spostandolo dal circuito pubblico le cose cambiano. Figlio di un contadino, che ha passato la vita coltivando una terra che lo porterà alla tomba, riesce ad entrare all’università di Columbia nella facoltà di Agraria, ma ecco che qualcosa succede e il suo destino segnato muta all’improvviso direzione. Stoner scopre le parole, i libri, la poesia ed è un amore dal quale non si separerà mai, che darà un senso a tutta la sua vita e ne farà un successo.
Non si tratta di ambizione, di inseguire una meta a tutti i costi (questo lo porterebbe al fallimento) si tratta di sé, della voce che lo anima, della scoperta dell’essenza e della semplicità della consapevolezza. Il tempo nel quale vive Stoner è estraneo a quello strutturato, il suo è il tempo sempre presente e sempre diverso della letteratura, delle storie che s’intrecciano, delle vite fatte di emozioni e l’università è il rifugio perfetto per mantenere un certo equilibrio, per far sì che una “realtà” giunga a compenetrare l’altra, fondendo reale e irreale nella dimensione personale di William Stoner.
Per William Stoner, invece, il futuro era una certezza fulgida e immutabile. Ai suoi occhi non appariva come un flusso di eventi, mutazioni e potenzialità, ma come un territorio che attendeva solo di essere esplorato. Gli sembrava simile alla grande biblioteca dell’università, che poteva essere arricchita dalla costruzione di nuove ali, cui potevano aggiungersi nuovi libri o esserne tolti di vecchi, ma che manteneva essenzialmente invariata la sua vera natura. Immaginava il suo futuro solo nell’istituzione a cui si era votato, e che comprendeva in modo tanto imperfetto. Non escludeva di poter cambiare in quel futuro, ma considerava il futuro stesso come lo strumento, piuttosto che l’obiettivo, del cambiamento.
La presa di coscienza avviene gradualmente. Quando è ancora studente di Agraria viene in contatto con l’insegnante che lo trascinerà in mondi per lui ancora insospettabili e del tutto incomprensibili, il professor Sloane. Senza alcun preavviso, il settantatreesimo sonetto di Shakespeare, sul quale verrà invitato ad intervenire, gli aprirà un varco attraverso il quale sarà risucchiato senza possibilità di tornare più indietro.
In me tu vedi quel periodo dell’anno
Quando nessuna o poche foglie gialle ancora resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.
/
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,
ombra di quella vita che tutto confina in pace.
/
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
/
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.
La breccia che si apre potrebbe essere proprio nell’intuizione della fugacità dell’esistenza, nella consapevolezza di doversi porre di fronte a una scelta fondamentale, nella possibilità di non dover per forza accettare una strada, vedere che si può cambiare perché l’immagine di noi stessi che la società ci proietta sullo specchio, raramente coincide con le nostre potenzialità, con la splendida fioritura interiore che non sappiamo nemmeno di possedere, questa è la rivelazione.
L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.
Nella prefazione all’edizione francese Anna Gavalda che l’ha anche tradotto dice: c’est un roman qui ne s’adresse pas aux gens qui aiment lire, mais aux êtres humains qui ont besoin de lire (è un romanzo che non si rivolge alle persone che amano leggere, ma agli esseri umani che hanno bisogno di leggere) e ormai non ci si sorprende più quando si scoprono romanzi di un certo livello che tuttavia necessitano di decenni prima di trovare la luce insieme ai loro autori, anche se molti di più nemmeno ci riescono. Così John Williams (1922-1994) ha insegnato all’università di Denver per trent’anni, scrittore texano autore di diversi romanzi, ha pubblicato, senza successo, Stoner nel 1965, mentre nel 1973 ha vinto il prestigioso premio letterario National Book Award con il libro Augustus e tuttavia rimane un illustre sconosciuto.
Trovava sollievo e appagamento solo durante le lezioni che frequentava come studente. Lì era ancora in grado di cogliere l’emozione che aveva provato il primo giorno, quando Archer Sloane gli aveva rivolto la parola e, in un solo istante, si era trasformato in un uomo nuovo. Mentre la sua mente era impegnata in quegli argomenti e si confrontava con il potere della letteratura cercando di comprenderne la vera natura, avvertiva un continuo cambiamento: e come se ne fosse consapevole, usciva da se stesso entrando nel mondo che lo conteneva e comprendeva così che la poesia di Milton, o il saggio di Bacon, o la commedia di Ben Jonson che stava leggendo cambiavano il mondo che avevano per oggetto, e lo cambiavano in virtù della loro dipendenza da esso.
A lettura ultimata ci si chiede inevitabilmente il perché di questa scelta da parte dell’autore e cioè quella di descrivere un personaggio che non si ribella a certi avvenimenti (subisce le vessazioni di un collega, si lascia tormentare dalla moglie, non lotta per l’amore finalmente trovato, si lascia scivolare via dalle mani la vita della figlia…) e, pur potendo, non tenta nemmeno di migliorare la propria situazione lavorativa e quindi sociale facendo carriera all’università. Fin dalla prima pagina veniamo avvertiti dal narratore che non succederà nulla di eccezionale, eppure alla fine ci rendiamo conto che non è affatto vero, che accadono cose straordinarie in questo libro e in questa vita apparentemente fallimentare. Si tratta di un romanzo “esistenzialista” in senso letterale ed è proprio l’esistenza la protagonista principale, l’esistenza semplice di chi sceglie, anzi di chi è scelto dall’amore per la letteratura, amore che allontana dalla strada consueta e per questo fa sembrare certe preferenze incomprensibili, addirittura fastidiose, poiché si tratta di una vita che si svolge su piani differenti dove vigono regole diverse per ognuno, regole che dipendono dalla sensibilità individuale, che si adattano alle caratteristiche del soggetto prescelto. E tuttavia, anche la vita “normale” di Stoner non lascia indifferenti, anzi nel lettore si scatenano reazioni molteplici che vanno dalla rabbia alla commozione più profonda e questo perché nessuna vita, anche quella apparentemente più banale è mai incolore e, soprattutto, nessuno può mai sapere cosa si scateni nell’animo di un’altra persona.
Fuori era buio, e una brezza primaverile soffiava nell’aria. Stoner respirò a pieni polmoni e sentì il suo corpo ritemprato dal freddo. Oltre il profilo discontinuo del caseggiato, le luci della città brillavano nella nebbia, che gravava sottile nell’aria. Dopo l’angolo, un lampione baluginava solitario, avvolto nell’oscurità. Dal buio emerse all’improvviso una risata, che ruppe il silenzio, indugiò un istante e svanì. La nebbia tratteneva il fumo della spazzatura, che bruciava nei cortili sul retro, e mentre camminava lento nella sera, respirandone l’odore e sentendo sulla lingua il sapore tagliente dell’aria, gli parve che quel momento fosse abbastanza e che non avesse bisogno di molto di più.
Di fronte a questo Don Chisciotte del Midwest, come lo aveva definito l’amico Dave Master, gli attacchi del mondo esterno sono impietosi. Edith, la moglie, isterica e anaffettiva tenta di trascinarlo tra i conformismi sociali, non tollera la sua mancanza di ambizione, né la sua remissività. Per buona norma deve fare almeno un figlio e così si concede al marito in un rituale quasi animalesco voluto unicamente dalla necessità dell’accoppiamento al fine di procreare. Nasce una bambina, Grace, che inizialmente la madre allontana da sé e che si lega fortemente a Stoner, il quale la ricambia e la coinvolge nel suo mondo incantato. La bambina collabora, si isola, si ritaglia uno spazio creativo all’interno dello studio del padre. A questo punto però Edith deve intervenire brutalmente, strappandola dalle grinfie del padre e riportandola alla “normalità”, ovvero a una full immersion in società. Il prezzo che dovrà pagare Grace sarà però molto alto. E poi c’è l’ambiente di lavoro, il suo regno, anche qui gli viene sferrato un attacco potente quanto ingiustificato da parte di un collega e a maggior ragione ci si sente amareggiati trattandosi di un luogo in cui si presume che cultura e intelligenza abbiano il sopravvento, mentre ancora una volta ci si ritrova in un microcosmo in cui si riversano tutte le debolezze e le meschinerie sociali umane.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciar fra breve.
William Stoner è uno stoico perché sa che la vita è transitoria, sa che conferiamo importanza a qualcosa di effimero, sa anche che l’uomo è sempre in perdita, non per sfortuna, per malasorte, ma perché non vede l’esistenza nella giusta prospettiva. Se la vita è sottrazione, ma la si vive come addizione si finisce per soffrire inutilmente, al contrario, con la consapevolezza di quello che siamo si può seguire il flusso senza affanno, in accordo con lo scorrere lento e veloce di un’esperienza comunque fuggevole. Così quello che a noi sembra umiliazione, ingiustizia, sofferenza, insensatezza, per Stoner è un problema che non lo riguarda affatto dal momento che la vera vita si svolge altrove, qui è semplice spettatore e come tale è destinato ad uscire indenne da ogni battaglia, a lui non servono armi, né affanni, né crisi di nervi, né sopraffazione, siamo di fronte al più eroico antieroe della letteratura contemporanea.
Cosa ti aspettavi?, pensò di nuovo.
Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita. Vaghe presenze si affollavano ai bordi della sua coscienza. Non riusciva a vederle, ma sapeva che erano lì, a raccogliere le forze in cerca di una palpabilità che non era in grado di vedere né di sentire. Si stava avvicinando a loro, lo sapeva. Ma non c’era alcun bisogno di correre. Poteva ignorarle, se voleva. Aveva tutto il tempo del mondo.
Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato.