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Pina Bausch e il Tanztheater. La parola annullata.

Siamo tutti vittime consenzienti della parola e su di essa basiamo in genere un’intera esistenza. Una parola ti può cambiare la vita, ferirti profondamente, renderti la persona più felice del mondo, perderti oppure salvarti. Ma sono davvero così importanti le parole? Certo per chi scrive la risposta è ovvia, anzi per chi trascorre buona parte del proprio tempo leggendo o scrivendo giunge sempre un periodo, più o meno lungo, in cui la parola sembra addirittura onnipotente, salvifica, indispensabile, salvo poi ritrovarsi in tarda età e rendersi conto che si è vissuti sempre nella menzogna. E questo perché tutto ciò che passa attraverso la parola inevitabilmente mente. E non soltanto perché ad esempio una descrizione cambia se cambia l’occhio che guarda e nemmeno soltanto nell’accezione pirandelliana, omaggio all’incomunicabilità:

Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non c’intendiamo mai! (L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore)

C’è qualcosa che va ancora più oltre, qualcosa di indefinibile appunto, quel misto di emozioni, sensazioni, brividi, tuffi al cuore, inondazioni interiori, immersioni che la parola non è capace di descrivere, se non falsando tutto.
Per questo nella comunicazione intervengono così tanti strumenti, che la parola in verità diventa quello marginale, si va dalla più piccola contrazione muscolare ad un lampo negli occhi, alla gestualità, alla postura, fino alla capacità ad esempio della musica classica di fare raggiungere una sorta d’estasi a chi l’ascolta non solo con l’udito, alla comprensione del linguaggio della danza moderna o, ancora meglio, del teatrodanza che si spinge a livelli di comunicazione che la parola potrebbe mantenere solo come abbozzo. Ma se abbiamo così tanti modi per esprimerci, perché ci limitiamo sempre, ci restringiamo nell’angusto regno della parola regolamentata da dogmi, regole e leggi varie? Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un tipo di condizionamento del quale è quasi impossibile rendersi conto, certo il regno della parola fa comodo a chi comanda per mantenere l’ordine, però in questo modo abbiamo dimenticato la nostra vera natura. Ciò che siamo non è quello che possiamo definire, ma tutto il resto che di tanto in tanto riusciamo a percepire, prima di rifugiarci di gran lena nel microcosmo a misura d’uomo che ci siamo costruiti.

Pina di Wim Wenders è un omaggio alla meravigliosa Pina Bausch (27 luglio 1940 – 30 giugno 2009) che ho avuto il privilegio di vedere al teatro Biondo di Palermo, nel 1988 con lo spettacolo Auf dem Gebirge hat man ein Geschrei gehört e nel 1990 con Palermo Palermo. Wenders all’inizio aveva in mente qualcosa di diverso per il suo film che stava creando insieme alla Bausch, con la quale si conoscevano da molto tempo, ma la morte inattesa della coreografa nel 2009 lo ha costretto a trasformare il progetto da una collaborazione tra due vecchi amici a una sorta di commemorazione, documentario, ricordo, testimonianza dell’opera di Pina Bausch e del grande carisma che aveva sui suoi ballerini e collaboratori.
La grande capacità comunicativa del Tanztheater Wuppertal nasce dall’affrancamento totale da qualsiasi retaggio del passato in merito a regole e costrizioni varie, una sorta di rinascita emotiva e spirituale che si trasforma in movimento del corpo. Ciò che si vede (ma è soltanto vedere?) è un film non catalogabile, che sfugge anch’esso ai suoi stessi canoni ed è come se musica, danza, parole uscissero fuori dal palcoscenico innanzitutto e dallo schermo poi e si catapultassero direttamente all’interno di ogni spettatore provocando un flusso di emozioni martellante ed incessante.
Le coreografie sono tratte da alcuni famosi spettacoli della Bausch, Café Müller, Le sacre du printemps, Vollmond, Kontakthof e le immagini sono intercalate da osservazioni della coreografa o dal ricordo che ne tratteggiano i ballerini della compagnia. Ma qui la parola è veramente ridotta all’essenza, assottigliata, minima, sfoltita, resa di modesto valore dalla potenza evocativa delle immagini, dalla fisicità, dalla comunicazione antica, istintiva, gestuale che riporta ai primordi della coscienza, laddove con poco si dice così tanto che la cosa più naturale e semplice del mondo riesce quasi a sopraffarti. È la potenza degli elementi naturali che avvolgono l’uomo e lo riconoscono non più come un estraneo, non più come un nemico che distrugge, ma come una parte del tutto che ci comprende e con cui ci si confonde.
Si assiste in questo modo alla nascita del movimento, alla sua estensione e alla morte dello stesso che coincide con la rinascita in un altro, così che ogni spostamento sul palcoscenico contiene una storia di vita e di morte e al tempo stesso di eternità.
Wenders ha deciso di usare il 3D per questa sua opera, proprio per inserire lo spettatore all’interno della coreografia stessa, quasi ne facesse parte anch’egli e in questa interazione si riesce a collocare non solo la coreografia e l’indagine sul movimento, ma anche l’universo di chi guarda e quello della Bausch che sfiora magicamente corpi, menti e tutto quel bagaglio di emozioni che accompagna la parte di noi che le parole non riescono a descrivere.

Café Müller viene presentato da Dominique Mercy e Malou Airaudo (Mercy è un famoso ballerino di danza moderna. Divenuto collaboratore della Bausch ha partecipato a molti spettacoli del Tanztheater Wuppertal dove ha conosciuto la futura moglie, Malou Airaudo, con la quale ha avuto una figlia, entrata anch’essa a far parte del corpo di ballo del teatrodanza Wuppertal), con l’aiuto di un plastico descrivono le varie fasi della costruzione dello spettacolo, al quale aveva partecipato la stessa Pina Bausch. Entriamo in una grande stanza con delle porte e tante sedie e tavolini sparsi qua e là, che uno dei ballerini sposta come per agevolare i movimenti degli altri che si muovono tutti con gli occhi chiusi. Qualcuno sbatte ripetutamente contro il muro, altri si trovano, ma tutto è esasperato dalla mancanza di una direzione precisa, dall’abitudine di muoversi anche nella vita come dei sonnambuli in un percorso disseminato di ostacoli. Wenders alterna l’intervista ai due ballerini con parti dello spettacolo e inserisce anche immagini di repertorio con l’eterea Pina nel ruolo della cieca.

In Le sacre du printemps i ballerini si muovono su un palco ricoperto da uno strato di terra dando vita ad una danza primitiva, che man mano che procede diventa sempre più ossessiva e feroce, poiché si tratta di un rito che deve condurre alla scelta di una vittima sacrificale e alla sua morte. La suggestione della danza unita alla musica coinvolgente di Igor Stravinskij crea un’atmosfera estatica che rapisce inevitabilmente lo spettatore.

Kontakthof  viene presentato nel film nelle sue tre interpretazioni, quella con i ballerini del teatrodanza, quella di un gruppo di uomini e donne con più di 60 anni e la versione con gli adolescenti dai 16 ai 18 anni. Bausch mostra l’irriverente spettacolo di un’umanità esibizionista e licenziosa, che si dimentica di non essere solo corpo e si abbandona ai propri vizi, rancori, piccole vendette dispettose, che le coppie che si incontrano in una squallida sala da ballo offrono alla platea, con la quale interagiscono attraverso gesti e sguardi d’intesa.

In Vollmond (Luna piena) uno spettacolo fatto di acqua che inonda e si ritrae come il moto ondoso, la vita si frantuma in brevi ritratti che la sintetizzano perfettamente, con il loro linguaggio simbolico che li pone su piani differenti, ma che lo specchio d’acqua ricompone, anche se in una visione diversa, fatta di vuoti, di riempimenti, di riflessi e di materia. D’altra parte non è proprio l’acqua l’elemento principale che evoca la nascita alla vita?

Alla fine Wenders non traccia un percorso biografico vero e proprio, non ci dice nulla della vita privata di Bausch, eppure non se ne sente la mancanza, d’altra parte ha poi così tanta importanza se invece si riesce a sapere e sentire tutto il resto?
Quanto si esca trasformati dopo uno spettacolo della Bausch è difficile da spiegare, ma di certo non si può rimanere gli stessi dopo gli affondi continui di lotta, sofferenza, solitudine, amore trovato, amore negato, situazioni grottesche, altre comiche, una grande paura e la continua spietatezza di una vita fatta di gioia, ma anche di tanto dolore, un dolore che si poggia sulle cose e sui danzatori, sui passi, sulle movenze e sui corpi come le sottovesti sottili che ricoprono le danzatrici, quasi ne fossero solo sfiorate e al tempo stesso protette. Ed è così che dopo questo rito di iniziazione ci si sente pronti ad affrontare un mondo diverso, un mondo come non lo si era mai visto prima.

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