Prima di morire Leonardo Sciascia stava lavorando ad una storia bresciana risalente al periodo successivo alla Liberazione quando, come sempre avviene nella storia dell’umanità, chi diventa vincitore è anche dalla parte giusta, ha l’approvazione divina e di conseguenza il diritto di comportarsi con chi perde esattamente come gli aguzzini contro i quali fino al giorno prima aveva combattuto. Quando la spinta che fa muovere le persone è attivata dalla vendetta capita spesso che il confine tra la ragione e il torto diventi labile e si sconfini dall’una all’altro senza il giusto discernimento.
La storia raccontata è umanissima e ricca di spunti di riflessione, i protagonisti sono il fascista Telesio Interlandi e l’avvocato socialista Enzo Paroli, a scriverla però non è Sciascia, che morì prima di poterlo fare, ma il suo amico magistrato, Vincenzo Vitale, che ne raccolse l’eredità morale e culturale, e facendo ordine tra i numerosi documenti messi insieme e le tante pagine di appunti, ha scritto un libro edito da Sellerio dal titolo: In questa notte del tempo (1999).
Ora, in quella celletta, pensava che nessuno può accettare di essere ridotto a un’idea, per quanto nobile e pura. Un uomo è di più, infinitamente di più. L’idea, dopo tutto, non si vede, non si tocca, non c’è. Le persone invece sono di carne e ossa e nelle loro ossa, sulla loro carne, patiscono la pena del vivere. Anzi, l’idea c’è soltanto quando c’è una persona che la faccia davvero viva, che le faccia strada nella storia, che sappia esserne testimone; e fino in fondo. Per questo – così ancora pensava – le idee orfane degli uomini sono null’altro che fantasmi crudeli e rivoltanti, orrendi simulacri del nulla. Ma lui, Telesio, avrebbe saputo dare alle idee per cui s’era sempre battuto gambe per camminare da sole, dopo la sua morte?
Interlandi aveva sempre mantenuto posizioni estremiste all’interno del partito, ma le aveva manifestate solo con la scrittura senza mai avere un ruolo attivo, una qualsiasi carica all’interno del movimento. Tuttavia contribuì non poco dal momento che espresse ampiamente le proprie posizioni intransigenti ed apertamente razziste e si sa, quando si tratta di oltraggiare una minoranza si trovano sempre dei carnefici volontari subito pronti ad abbracciare la causa. Nel dicembre del 1924 fondò il quotidiano Il Tevere e nel 1933 il settimanale Quadrivio al quale parteciparono autori come Brancati, Moravia, Cardarelli, ma soprattutto lo si ricorda per aver dato vita, nel 1938 al quindicinale La difesa della razza, in concomitanza con la promulgazione delle leggi razziali. La rivista voleva attribuire una base scientifica al razzismo, pertanto si avvaleva della collaborazione di esperti e pubblicò, il 5 agosto 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti firmato da ben dieci scienziati.
Nell’ottobre del 1945 Telesio Interlandi e il figlio non ancora ventenne Cesare furono arrestati e portati in una caserma dei carabinieri a Desenzano.
Il figlio Cesare, arrestato solo per le colpe del padre, contrasse una grave infezione durante la carcerazione. Portato in ospedale il medico si rifiutò di curarlo dopo averne appreso il cognome, per sua fortuna fu poi portato in una clinica gestita da suore tedesche dove guarì. Nel frattempo il padre non sapeva più nulla della sorte del figlio e la madre si rivolse all’avvocato Paroli come ultima chance di salvezza.
Veniva così celebrato, per via d’un uomo qualunque, d’un oscuro medico di provincia, l’ennesimo trionfo della violenza. Una violenza sottile, esperta, sapientemente nutrita di disincanto, di pazienti, sofferte attese; dal sapore da millenni inalterabile, che non scolora anche se è violenza che ribatte a violenza, sopruso a sopruso; ma che anzi alimenta e si alimenta di raffinatissime spirali di sopraffazioni, di inganni. Morti che seppelliscono altri morti, ferite che leniscono ferite: ecco il genio di secoli di storia, il puro distillato di decine di civiltà…
Ed ecco – pensava Telesio – che Dio è veramente morto, ad ogni istante ucciso da noi; da tutti quelli che abbiamo subito e patito, lasciando che ci covasse dentro, come una bestia immonda e silente, il desiderio più maligno, il desiderio della vendetta. Anzi, educandola a saper attendere la stagione propizia. Dicendoci e credendoci vittime, vogliamo farci diversi dai nostri aguzzini. Ma si è tutti eguali, tutti aguzzini gli uni degli altri: intrascendibilmente, per sempre…
Un equivoco all’italiana fu il motivo della scarcerazione di Telesio.
Non si sa bene come Interlandi riuscì a fare breccia nell’animo dell’avvocato che ottenne un ordine di scarcerazione per Cesare. Da qui l’equivoco, ovvero essendo assente Cesare, l’unico Interlandi presente nella caserma era Telesio e dunque fu lui ad essere scarcerato malgrado le proteste dello stesso che voleva evitare eventuali problemi futuri al figlio.
C’era stato evidentemente un errore. Uno di quegli errori cui una sorta di mano invisibile sembra di tanto in tanto, sapientemente guidare i destini dell’uomo per cavarne – da una vicenda dolorosa, da una delle innumerevoli nequizie – un significato nascosto, quello che altrimenti non si sarebbe potuto vedere.
Paroli nascose, rischiando la sua vita e quella dei suoi cari, l’intera famiglia Interlandi nello scantinato della casa dove abitava, per quasi un anno, ovvero fino alla sentenza di innocenza per Telesio avvenuta nel 1946.
Ciò che maggiormente aveva colpito Sciascia era perché Interlandi, un raffinato intellettuale che aveva diretto riviste importanti come Quadrivio, avesse deciso di diventare portavoce del Fascismo, addirittura l’ideologo del razzismo. E di conseguenza come mai Paroli avesse deciso di aiutare proprio lui.
E ora cosa gli si chiedeva? Di rinnegarsi? D’essere altro? E che altro? Cesare, forse, forse lui poteva… era giovanissimo e solo ai giovanissimi è lecito mutare maschera; anzi – pensava Telesio – è questo il loro compito: indossare tutte le maschere possibili per trovarne, alla fine, una soltanto; e restarle fedeli per sempre, ad ogni costo.
Interlandi infatti continua a mantenere i propri ideali intatti, anche dopo la carcerazione, durante i colloqui con Paroli e mai cerca di trincerarsi dietro a un pentitismo di comodo, né finte redenzioni, è e rimane saldo ai suoi principi, un fascista in buona fede insomma, convinto che quella fosse la strada giusta da seguire per il bene dell’Italia e dell’Europa. Lo stesso avvocato rimane colpito da tanta sicurezza:
Allora era vero, dovette ammettere, c’era stato anche questo: un’intelligenza coerentemente fattasi, e lucidamente, strumento d’abiezione.
Non bastava possedere lucido intelletto per non inclinare al male e alla perversione, occorrendo qualcosa d’altro; qualcosa che bisognava trovare altrove, presso qualcuno che invece lo possedesse questo “supplemento d’anima”, perché altrimenti non avrebbe saputo come chiamarlo. E fu allora che si risolse a capire che tutto il ventennio, tutta la retorica del Capo e della Nazione, il fascismo insomma, per la sua ideologia e la stupidità della sua prassi altro non erano che il tentativo di sopprimere o di mettere a tacere quel “di più” che nell’anima di ciascuno minacciava pericolosamente di emergere. Un senso recondito e mai dimenticato del vero e del bene, che poteva riaffiorare dal nulla attraverso il volto stanco d’un uomo, la bellezza struggente d’un tramonto, il ricordo lontano d’una tenerezza paterna.
E c’è davvero da sorprendersi? C’è sempre un gene intellettuale puro alla base della devastazione.
Da sempre per delle idee si vive e si muore, ma quale gioco perverso ne ha stabilito le regole? Esistono delle idee e dunque dei concetti soggettivi spacciati per oggettivi, per cui vale la pena sacrificarsi? Questo continuo rincorrere un qualsiasi significato che renda la vita degna d’essere vissuta non si basa forse su presupposti totalmente errati? Gli stessi concetti di Onore, Patria, Libertà, non sono discutibili? Ogni volta che si combatte una guerra lo si fa per gli interessi economici delle élite che si muovono dietro le quinte, alimentati dal gusto del Potere, ma non c’è mai una realtà nobile alla base. E tuttavia lo si fa credere alla massa, si impone un’ideologia che mandi al macello giovani e meno giovani pronti a morire per nulla. Forse questo è il modo più sciocco di dare un senso alla propria vita.
E, per quanto lui i fascisti li conoscesse bene e n’avesse avuto qualche guaio soprattutto per via di suo padre, accanito socialista, glien’era venuta una sottile curiosità, come un sotterraneo gusto di provare a se stesso che non esistono categorie d’umanità, nulla insomma che autorizzi a discernere i buoni dai cattivi in quanto i primi stanno tutti di qua e i secondi tutti di là, secondo un facile e grottesco semplicismo manicheo che gli dava nausea; ma che invece esistono uomini, nel bene come nel male, e che anzi forse nessuno può essere capace di seguire il primo senza essere seriamente tentato dal secondo, al quale spesso poi finisce per cedere un po’ per vigliaccheria e un po’ per confusione del cuore e della mente.
Siamo abituati a comprendere le cose solo mettendole in contrapposizione perciò non potremmo capire cos’è il male senza il bene o l’oscurità senza la luce e tuttavia non sempre è possibile catalogare collocando in un reparto piuttosto che in un altro. A volte è necessario ampliare le nostre vedute per riuscire a conoscere cosa ci sta di fronte e mescolare un po’ le carte riunendo le parti contrastanti in un unico essere. Anche le grandi divisioni storiche, sono frutto del pensiero dell’epoca e vedono delle truppe schierate sul fronte del bene e le altre sul fronte del male, ma si tratta solo di concetti che sfuggono ad una realtà oggettiva. La stessa legge è discutibile essendo mutevole e al servizio del pensiero dominante, come dimostrano le leggi razziali appunto, ma gli esempi si perdono nella notte dei tempi.
Paroli non sapeva affatto se la propria anima fosse migliore di quella altrui. Anzi, spesso gli accadeva di pensare il contrario, e tuttavia senti imperiosamente che quella difesa andava assunta, che alla difesa di quell’uomo, all’apparenza indifendibile, bisognava votarsi con la stessa appassionata dedizione dovuta alla vita, al bisogno di vivere e di affermare la propria vita e, attraverso questa, quella altrui.
Alla fine quali siano i meccanismi che muovono certe azioni umane rimane un mistero. A volte sembra di avere la certezza della reazione conseguente ad un’azione e invece si verifica l’opposto, la variabile è sempre pronta a ricordarci non solo che non bisogna mai dare nulla per scontato, ma anche che per quanto un percorso possa essere rettilineo c’è sempre una possibilità imprevedibile che all’improvviso curvi lanciandoci fuori strada e deragliandoci in un ignoto che inverte la direzione e ci catapulta in una nuova realtà, in una nuova prospettiva, in una nuova vita. Cosa abbia spinto l’avvocato Paroli a difendere Interlandi non si comprende se non con la misura letteraria e ideale di un’impresa affascinante, una sfida a colpi di integrità ideologica, il nero da una parte e il rosso dall’altra che si incontrano realizzando quella verità che proviene dalle sfumature e dall’incerto colore di certe commistioni che nell’indeterminatezza della tonalità risolve tutti i dubbi della natura umana.
Ma forse, più di tutto, ciò che ha spinto Paroli è stato rendersi conto che la cosa peggiore non era il fatto che Interlandi, pur non avendo deportato nessuno, aveva fatto sì che si creassero le condizioni perché altri lo facessero e questo già lo rendeva colpevole, ma era l’indifferenza, l’ignavia di così tante persone e di cui l’avvocato stesso si accusava, l’incapacità di comprendere, di compatire gli altri, una colpa della quale si erano macchiati in tanti a quei tempi, rimanendo in silenzio o facendo finta di non vedere ciò che avevano sotto gli occhi. Non è la forza fisica o l’arrogarsi il diritto di vita e di morte sugli altri che rende potenti e giusti, e non è nemmeno la purezza di un pensiero, la vera forza è nel sapere mantenere il controllo di sé stessi, quando le circostanze impongono scelte difficili, è fermarsi un attimo prima di compiere l’irreparabile e soprattutto è nella pietà, nell’accezione di comprensione verso l’umanità e la sua miseria, nel non dimenticare mai che siamo essere transitori e di nessuna importanza.
– Il coraggio che nasce dalla pietà?
– Sì. più che dalla paura o dal senso del dovere.
– Avete pietà di me, dunque?
– Non più che di me stesso. Non sempre è stato così, certo. Ma adesso, in questa notte del tempo, con i partigiani che credono d’aver vinto ed invece hanno solo raccolto le ceneri d’un regime che si è suicidato e vogliono farsi giustizieri di tutti e di ciascuno… la fame, i lutti, le distruzioni… sì, ho pietà di lei e di me. Di lei, per quello che ha pensato e che ha fatto sì che si pensasse. Di me, per la mia stanchezza, la mia paura. E forse, infine, di tutti.
– Di tutti?
– Vedo l’esilio della ragione, la violenza che s’annida ovunque, perfino nelle parole, nei volti, la sete di vendetta. Ogni giorno.
– È vero. Dunque?
– Dunque impariamo ad esercitare la pietà.