Pazzia, demenza, alienazione, la follia è un argomento che ricorre sovente in letteratura. A volte è un semplice espediente che permette di ottenere un risultato altrimenti quasi impossibile, altre volte è descrizione di vera patologia, in ogni caso i lettori si ritrovano spesso a dialogare con personaggi che arginano la “normalità” all’estremo limite preferendo una visione molto personale del mondo circostante. La pazzia d’amore la ricordiamo nell’Orlando Furioso dove un cavaliere assennato e corretto, diviene folle in preda al dolore, causato dall’amore, non corrisposto, per Angelica o nell’Otello, dove il protagonista, pazzo di gelosia uccide la donna che ama. Poi c’è la finta follia di Amleto o quella visionaria di Don Chisciotte, o ancora l’Elogio della follia di Erasmo o il De rerum natura di Lucrezio, la follia come unica possibilità di sopravvivenza, come nell’Enrico IV di Pirandello, la trascrizione delle proprie visioni rivisitate in chiave letteraria come in Aurélia di Nerval o la descrizione di tutto il percorso maniaco-depressivo di un uomo dei nostri tempi come ne Il male oscuro di Berto.
Nell’opera di Shakespeare troviamo le follie che s’imparentano con la morte e con l’assassinio.
(Michel Foucault, Storia della follia)
L’Amleto di Shakespeare è stato esaminato in tutte le sue possibili sfaccettature, del resto si tratta di un capolavoro di una modernità straordinaria, che non solo è fonte di innumerevoli riflessioni e una miniera d’oro per chi ama le citazioni, ma addirittura anticipa di secoli l’intervento della psicologia in letteratura. Amleto, oltre alla finzione d’avere perso il senno, utilizza anche un altro espediente dalle forti implicazioni psicologiche per ottenere il suo scopo, ovvero organizza un dramma nel dramma e fa rappresentare da una compagnia di attori la ricostruzione del crimine commesso dallo zio affinché questi si tradisca con i gesti, mostrando la propria colpevolezza.
Vergognati! Su, cervello mio; uhm, ho sentito dire
che creature colpevoli spettatrici di un dramma
dallo stesso intreccio della scena
sono state toccate nell’animo più profondo, tanto
che hanno confessato subito le loro malefatte.
Perché l’assassino, anche se non ha lingua, parlerà
con un organo assai portentoso. Io a questi attori
farò recitare qualcosa che sembri l’assassinio di mio padre
davanti a mio zio; osserverò i suoi sguardi,
lo tamponerò nella carne viva, e se si ritrae
io saprò che fare. Lo spirito che ho veduto
potrebbe essere un diavolo, e il diavolo ha il potere
di assumere piacevoli forme; sì, e forse,
per la mia fiacchezza e la mia melanconia,
dato che lui è molto potente su tali intelletti,
abusa di me per dannarmi. Avrò fondamenti
più certi di questo – il dramma è la cosa
entro cui catturerò la coscienza del re.
(Amleto Atto II, scena II)
Nell’opera non troviamo solo la finta pazzia di Amleto, ma anche quella vera di Ofelia, bersaglio della delusione d’amore, l’aguzzina che non smette mai di mietere vittime.
L’ultimo tipo di follia: quello della passione disperata. L’amore deluso nel suo eccesso, e soprattutto l’amore ingannato dalla fatalità della morte, non ha altro esito che il suicidio. Finché esisteva un oggetto, il folle amore era più amore che follia; lasciato solo a se stesso, esso prosegue nel vuoto del delirio. Punizione di una passione troppo abbandonata alla sua violenza? Indubbiamente; ma questa punizione è anche un addolcimento; essa diffonde la pietà delle presenze immaginarie sull’irreparabile assenza; essa ritrova la forma che sparisce nel paradosso della gioia innocente o nell’eroismo delle ricerche insensate. Essa conduce alla morte, ma a una morte in cui coloro che si amano non saranno mai più separati. È l’ultima canzone di Ofelia.
(Michel Foucault, Storia della follia)
Incanalarsi lungo le strade della follia, vera o finta che sia, conduce ad un percorso senza vie di fuga e senza ritorno, sembra che ogni cosa si collochi nella posizione giusta per giungere all’unica soluzione possibile, la morte. Eppure neanche questa è davvero risolutiva, anzi sembra quasi che, paradossalmente, proprio l’alienazione la mantenga più a lungo in vita.
In Shakespeare la follia occupa sempre una posizione estrema, nel senso che essa è senza rimedio. Niente la riporta mai alla verità e alla ragione. La follia, nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è «un male molto al di là della mia scienza», come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico. La dolce gioia alla fine ritrovata da Ofelia non riconcilia con nessuna felicità; il suo canto insensato è vicino all’essenziale […]
(Michel Foucault, Storia della follia)
Amleto è un personaggio moderno in qualsiasi epoca lo si collochi, e questo perché il suo continuo interrogarsi e la sofferenza malinconica ma anche ardente che lo caratterizzano, fanno parte delle caratteristiche peculiari dell’essere umano, insieme al bagaglio di tormenti, domande senza risposta, spleen, ambiguità e un rapporto sempre conflittuale con il Destino.
Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi. Il ribrezzo che dovrebbe spingerlo alla vendetta è sostituito in lui da autorimproveri, scrupoli di coscienza, i quali gli rinfacciano che egli stesso, alla lettera, non è migliore del peccatore che dovrebbe punire.
(Sigmund Freud, Leonardo e altri scritti)
Effettivamente Amleto ha un’occasione d’oro per uccidere l’usurpatore, ma non la sfrutta perché in quella circostanza lo zio sta pregando e lui non vuole farlo morire in un momento di purificazione, cosa che potrebbe ammorbidirgli la pena da scontare. In verità c’è dietro qualcosa di più profondo ovvero, non solo il tentativo di sfuggire al Destino, ma anche la consapevolezza della totale inutilità della vendetta. Il giovane principe si è dovuto scontrare con una realtà sconcertante e delittuosa che ha distrutto tutto il suo mondo precedente, e dunque la sua vita e la sua percezione di essa. E come potrebbe ritornare al passato, ricostituire ciò che era vendicandosi? Impossibile, anzi peggio, sarebbe come reiterare il delitto, ovvero il dramma che ha fatto precipitare gli eventi, ed egli stesso diverrebbe come lo zio. Tuttavia il grande meccanismo del fato si è già messo in moto e a poco serve una volontà contro una sorte che deve compiersi. Così per ripristinare l’ordine bisognerà attendere la scena finale dove per un susseguirsi di gesti imprevedibili, la morte, grande livellatrice, ristabilisce l’equilibrio portando con sé tutti i protagonisti principali. Quale modo migliore per restituire la pace ad uno spettatore posto di fronte ad un dramma dalle emozioni così forti?
Amleto, il massimo auto-origliatore di tutta la letteratura, colloquia con se stesso […] Tutti noi oggi non facciamo che parlare incessantemente con noi stessi, origliando ciò che diciamo, per poi riflettere ed agire secondo ciò che abbiamo espresso. Non è tanto il dialogo della mente con se stessa […] quanto la reazione della vita a ciò che la letteratura è inevitabilmente divenuta. A partire da Falstaff, Shakespeare aggiunge alla funzione della scrittura immaginifica, che era ammaestramento a come parlare agli altri, l’ormai dominante anche se più malinconica lezione della poesia: come parlare con noi stessi.
(Harold Bloom, Il canone occidentale)
Ma l’Amleto non è soltanto tragedia, è anche una grande prova poetica. Il monologo shakespeariano è lo strumento perfetto per questo scopo, grazie ad esso il personaggio parla direttamente con il singolo spettatore, ma anche con se stesso riuscendo a descrivere l’inestricabile viluppo di passioni e sensazioni che solo la poesia riesce a rappresentare. D’altra parte solo la poesia è davvero risolutiva, soltanto i momenti della narrazione interiore possono salvare e ricostituire il mondo precedente, evitando il tranello classico nel quale si è sempre tentati di cadere, ovvero l’onore offeso da salvare, la lotta tra il bene e il male, la colpa e la punizione.
AMLETO: Essere, o non essere, questa è la domanda:
se sia più nobile per la mente patire
i colpi e i dardi dell’atroce fortuna
o prendere le armi contro un mare di guai
e resistendovi terminarli? Morire, dormire –
niente più; e con un sonno dire fine
all’angoscia e ai mille collassi naturali
che la carne eredita; questo è un compimento
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare, ah, è qui l’incaglio.
Perché in quel sonno di morte quali sogni sopravvengano,
liberati che ci siamo di questa spirale mortale,
deve farci indugiare; ecco il riguardo
che rende la calamità così longeva.
Perché chi sopporterebbe le scudisciate e gli scherni del tempo,
il torto degli oppressori, l’ingiuria del presuntuoso,
gli strazi di un amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e i calci
che il merito paziente si prende dagli indegni,
quando potrebbe darsi da solo la sua pace
con un semplice pugnale? Chi si caricherebbe di fardelli,
per grugnire e sudare sotto una faticosa vita,
se non fosse per il fatto che il timore di qualcosa dopo la morte,
l’inesplorato paese dal cui confine
nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà,
e ci fa tollerare quei mali che abbiamo
piuttosto che ricorrere ad altri a noi ignoti?
Così la coscienza ci rende tutti vili,
e così la tinta naturale della risoluzione
è ammorbata dalla pallida sfumatura del pensiero,
e le imprese di grande elevazione e momento
con questo sguardo deviano i loro corsi
e perdono il nome di azione. Ma, calmati adesso,
la bella Ofelia. – Ninfa, nelle tue orazioni
siano rammentati tutti i miei peccati.
(Amleto Atto III, scena I)
Molti critici hanno visto nell’Amleto la trasposizione di numerosi elementi delle vicende della vita privata dello scrittore e pertanto hanno unificato le due figure, autore e personaggio. Nell’Ulisse di Joyce Stephen Dedalus propone una lettura dell’Amleto in chiave autobiografica. Il personaggio del principe richiama in vita il figlio morto di Shakespeare, Hamnet, e al tempo stesso rappresenta anche l’autore e ancora, attraverso la figura dello spettro, in una sorta di allineamento di piani paralleli normalmente non visibili, ritroviamo il figlio come sarebbe potuto diventare qualora fosse sopravvissuto.
E come il neo sulla mia mammella destra è dove era quando son nato, benché il mio corpo sia stato intessuto di materiale nuovo a più riprese, così attraverso lo spettro del padre inquieto fa capolino l’immagine del figlio non vivente. Nell’istante intenso dell’immaginazione, quando lo spirito, dice Shelley, è un carbone vicino a spegnersi, ciò che io ero è ciò che io sono e ciò che in potenza potrò divenire. Così nel futuro, fratello del passato, io posso vedermi quale siedo qui ora solamente per il riflesso di ciò che allora sarò.
(James Joyce, Ulisse)
Tutto affascina in quest’opera e i collegamenti sembrano infiniti. Un’ultima, ma non meno avvincente lettura riguarda le origini del personaggio Amleto e il suo rapporto con il Tempo. Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, nel saggio Il mulino di Amleto risalgono ad una figura mitica che pone Amleto addirittura come una potenza cosmica primordiale. Nelle antiche saghe nordiche il mulino rappresentava il Cielo che aveva come perno Polaris e l’albero del mulino era l’asse del mondo e configurazione del Tempo. Dopo un periodo di grande prosperità detto Età dell’Oro, inevitabilmente arriva la caduta e la distruzione del mulino. Questa demolizione è ineluttabile infatti la posizione delle stelle fisse è molto importante (la Stella Polare indica il polo nord sulla sfera celeste), ma a causa della precessione degli equinozi la posizione delle stelle sulla sfera celeste cambia periodicamente e questo determina uno sfasamento, un momento di passaggio, uno stravolgimento nella storia dell’umanità.
Dietro Amleto ci sarebbe dunque un mito universale, il mito del Tempo, Kronos, che periodicamente si guasta a causa della precessione degli equinozi, per cui i punti equinoziali si spostano in direzione opposta a quella seguita dal sole […] Gli antichi credevano che lo slittamento del sole lungo il piano equinoziale incidesse sulla struttura del cosmo e determinasse una successione di età del mondo poste sotto segni zodiacali diversi. L’Età dell’Oro sarebbe stata quella del 5000 a. C. In cui i due cardini equinoziali erano stati i Gemelli e il Sagittario, tra i quali si estende l’arco della Via Lattea: la via tra la terra e il cielo era aperta, e uomini e dèi, allora ma solo allora, potevano incontrarsi.
(Alessandro Serpieri, Le origini di “Amleto”, in La traduzione di Amleto nella cultura europea, a cura di Maria Del Sapio Garbero)
Lo spostamento dell’asse e la conseguente fine dell’età prospera e felice, sia nel regno di Danimarca che nella vita privata del principe Amleto nel dramma è causato dall’assassinio del padre da parte del fratello, con tutte le drammatiche conseguenze che porterà con sé:
Questo tempo è scardinato. Oh maledetto destino,
che mai io sia nato per rimetterlo in sesto!
(Amleto Atto I, Scena V)
Già… e chi non ha un tempo da rimettere in sesto?