Se ti svegli nel sogno di un altro la tua vita può diventare un incubo. È davvero inquietante pensare a come tutto possa cambiare in peggio, proprio come in un sogno terribile. È quello che è successo in Afghanistan dopo l’avvento dei talebani. Dopo tanta fatica, morte e lotte senza fine delle donne per riuscire ad ottenere il semplice diritto allo studio, la banale libertà di passeggiare con le amiche senza quell’ombra tenebrosa che ti s’incolla addosso e non ti lascia più, la paura, fa ancora più orrore notare come in un attimo si possa sprofondare di nuovo nel buio più nero, quello della mente devota alle leggi della stupidità e della prepotenza.
Le donne afghane non hanno mai avuto vita facile, prive di diritti e ritenute stupide a prescindere, sono sempre state schiave dell’uomo terreno e della divinità maschile che le religioni monoteiste hanno diffuso qua e là per il mondo. Dopo un primo tentativo di cambiamento negli anni ’20, da parte del re progressista Amanullah, che aveva deciso di fare studiare anche le bambine (e che fu poi costretto ad abdicare), nel 1965 riuscirono ad ottenere il diritto di voto e ben quattro donne furono addirittura elette in Parlamento. Nel 1977 è stata fondata la RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, Associazione Rivoluzionaria per le Donne Afghane) che lotta per i diritti umani e la giustizia sociale delle donne afghane. All’inizio si trattava di un’organizzazione che puntava ad un maggiore coinvolgimento delle donne nella vita politica del paese, poi dopo l’occupazione sovietica nel 1979 partecipò attivamente alla Resistenza. Ma con l’arrivo dei Talebani negli anni ’90 le donne hanno mantenuto solo il diritto di studiare il Corano perdendo quello fondamentale di fare parte di una società in qualità di esseri umani.
Mohsen non sa dove andare né che farsene del proprio ozio. Fin dal mattino non smette di vagare nei sobborghi devastati, con la mente che vacilla, il volto inespressivo. Prima, ossia molti anni luce fa, gli piaceva passeggiare, la sera, lungo i viali di Kabul. […] Com’è lontano, quel tempo. È forse frutto di pura fabulazione? Ormai, i viali di Kabul non divertono più. Le facciate scarnificate, rimaste ancora in piedi per non si sa quale miracolo, attestano che le bettole, le osterie, le case e gli edifici sono stati ridotti in fumo. La carreggiata, prima asfaltata, è ora un sentiero battuto che i sandali e gli zoccoli raspano ogni giorno senza posa. I negozianti hanno appeso il sorriso al chiodo. I fumatori di chilum si sono volatilizzati. Gli uomini si sono trincerati dietro le ombre cinesi e le donne, mummificate in sudari del colore della paura o della febbre, sono assolutamente anonime.
La Kabul polverosa, dall’aria irrespirabile e sventrata dalla violenza degli uomini e delle armi che ci presenta Yasmina Khadra, è quella regolamentata dai talebani, saliti inizialmente alla ribalta per scacciare l’invasione russa, ma che, una volta preso il potere, sono diventati gli aguzzini del loro stesso popolo. Per prima cosa hanno imposto la sharia, ovvero la legge islamica che deriva dall’interpretazione del Corano, costringendo tutti ad abbandonare la vita precedente per tornare ad uno stato di repressione da far west dove, come sempre, sono le donne a pagare il prezzo più alto, private di qualsiasi dignità individuale non possono più né studiare per accedere ad un ruolo importante in società, né mostrarsi in pubblico, perché costrette ad andare in giro rivestite del burqa integrale ed a sottostare a tutta una serie di divieti assurdi che qualsiasi cervello sano e pulsante rifiuta di accettare.
«Solo Dio dispone della vita e della morte. Sei stato ferito combattendo per la Sua gloria. Siccome non poteva inviare Gabriele in tuo aiuto, ha messo questa donna sulla tua strada. Lei ti ha curato perché Dio ha voluto così. Non ha fatto che sottomettersi alla Sua volontà. Tu hai fatto cento volte di più per lei: l’hai sposata. Cosa poteva sperare di più una zitella spenta e priva di fascino, di tre anni più vecchia di te? Si può essere più generosi con una donna che offrirle un tetto, un nome, protezione e onore? Tu non le devi niente. Spetta a lei inchinarsi davanti al tuo gesto, Atiq, e baciarti, una per una, le dita dei piedi ogni volta che ti togli le scarpe. Lei non significa granché all’infuori di quel che tu rappresenti per lei. È solo un essere inferiore. E poi, nessun uomo deve alcunché a una donna. La rovina del mondo deriva proprio da questo malinteso.»
Questo è lo scenario che fa da sfondo alla triste storia che racconta Yasmina Khadra nel suo romanzo del 2002, Le rondini di Kabul. Il nome femminile è lo pseudonimo dello scrittore algerino Mohammed Moulessehoul, che dopo avere fatto parte per tanti anni dell’esercito, nel 2000 decide di abbandonarlo per dedicarsi unicamente alla scrittura. Per evitare la censura ed esprimersi più liberamente e per denunciare qualsiasi forma di violenza e intolleranza, soprattutto nei confronti delle donne, sceglie di firmare i libri che scrive utilizzando il nome della moglie.
«Possiamo sapere tutto della vita e degli uomini, ma cosa sappiamo davvero di noi stessi? Mio buon Atiq, non complicarti troppo la vita. Non indovinerai mai cosa ti riserva. Smettila di riempirti la testa di idee fasulle, questioni inspiegabili e ragionamenti inutili. Avere una risposta per tutto non ti mette al riparo da ciò che il domani tace. L’erudito sapeva molte cose, ma ignorava l’essenziale. Vivere è anzitutto tenersi pronti a che il cielo ci cada sulla testa. Se parti dal principio che l’esistenza è solo una prova, sei preparato ad affrontare le pene e le sorprese che ti riserva. Se continui ad aspettarti da lei quel che non può darti, è la prova che non hai capito nulla. Prendi le cose come vengono, non farne un dramma e non farla tanto lunga; non sei tu a condurre la barca, ma il corso del tuo destino.»
Le rondini di Kabul racconta la storia di due coppie costrette a sopportare un destino insopportabile. Atiq è il carceriere occasionale di un regime che non fa sconti a nessuno e comincia a dare segni di cedimento nei confronti di una vita che perde sempre più di significato. Non per caso la moglie si ammala di una strana malattia che non dà scampo, ma che presenta momenti di perfetta lucidità ed è metafora dell’assurdità in cui si è costretti a vivere. Dall’altra parte c’è la coppia ancora più sventurata di Mohsen e Zunaira, entrambi giovani, belli e colti, lei addirittura un ex magistrato, costretti a diventare bruti tra i bruti, lui quando si lascia coinvolgere dalla follia collettiva di una lapidazione e lei quando, dopo un episodio di prevaricazione insensata, si rifiuta di togliere il burqa anche in casa, ricoprendosi di quel simbolo dell’ottusità, della violenza, dell’abuso, come di un sudario.
Mohsen e Atiq si muovono come sonnambuli per le strade, persi nel loro vagheggiare insensato in quelle vie in cui nulla si può muovere senza l’autorizzazione di un turbante barbuto e armato, eppure loro tentano di sfuggire a quell’orrore rifugiandosi in una sorta di trance, in attesa delle rondini di una primavera che non verrà.
Mohsen Ramat esita a lungo prima di decidersi a raggiungere la folla in piazza. È stata annunciata l’esecuzione pubblica di una prostituta. Verrà lapidata. Qualche ora prima, alcuni operai hanno scaricato delle carriole piene di sassi nel luogo dell’esecuzione e hanno scavato una fossa profonda una cinquantina di centimetri.
Mohsen ha assistito a parecchi linciaggi del genere. Solo ieri, due uomini, uno dei quali appena adolescente, sono stati impiccati in cima a un’autogrù per esserne sganciati solo al calare della notte. Mohsen detesta le esecuzioni pubbliche. Lo costringono a prendere coscienza della propria fragilità, rendono più grevi le prospettive della sua finitezza; di punto in bianco, scopre quanto siano futili le cose e le persone, e più nulla lo riconcilia con le certezze di un tempo, quando levava lo sguardo all’orizzonte solo per rivendicarlo.
Khadra descrive l’esecuzione in modo chiaro e conciso, quasi fosse una telecamera che registra le immagini e le immagini stesse trasudano un’umanità di cui non si può non vergognarsi, in un agitarsi di braccia e volti abbrutiti dall’odio non ci può essere salvezza e tanto meno una qualsivoglia divinità, per quanto gli uomini tirino sempre in ballo il loro Dio ogni volta che compiono gesti efferati e le peggiori nefandezze che nella realtà hanno sempre superato la fantasia di qualsiasi scrittore.
Un mullah si getta sulle spalle le falde del proprio burnus, squadra con disprezzo, per l’ultima volta, il cumulo di veli sotto il quale una persona si prepara a morire e tuona: «Alcuni hanno scelto di sguazzare nel fango come i porci. Eppure, erano a conoscenza del Messaggio, conoscevano i pericoli delle tentazioni, ma la loro fede non è stata abbastanza forte da resistere. Esseri miserabili, ciechi e frivoli, hanno preferito un istante di dissolutezza, effimero quanto irrisorio, al giardino eterno. Hanno tolto le loro dita dall’acqua lustrale delle abluzioni per ficcarle nella risciacquatura, si sono tappati le orecchie all’appello del muezzin per ascoltare le oscenità di Satana, hanno accettato di subire la collera di Dio piuttosto che tenersene al riparo. Cosa dire loro, se non la nostra pena e la nostra indignazione?… (Il suo braccio si tende come una spada verso la mummia.) Questa donna non ignorava quel che faceva. L’ebbrezza della fornicazione l’ha distolta dalla via del Signore. Oggi, è il Signore che le volta le spalle. Non ha diritto né alla sua misericordia né alla pietà dei credenti.
Morirà nel disonore come nel disonore è vissuta».
Si interrompe per raschiarsi la gola, dispiega un foglio di carta in un silenzio assordante.
«Allahu’ akbar!» grida qualcuno dalle ultime file.
Il mullah alza maestosamente una mano per placare l’urlatore. Dopo aver recitato un versetto del Corano, legge qualcosa che somiglia a una sentenza, rimette il foglio di carta in una tasca interna del gilet e, dopo una breve meditazione, invita la folla ad armarsi di pietre. È il segnale. In una ressa indescrivibile, la gente si getta sui mucchi di pietre appositamente sistemati nella piazza qualche ora prima. Subito, un diluvio di proiettili s’abbatte sulla vittima che, imbavagliata, vibra sotto la furia dei colpi senza un grido. Mohsen raccoglie tre pietre e le lancia contro il bersaglio. Le prime due si perdono nella frenesia generale, ma al terzo tentativo raggiunge la vittima in testa e vede, con insondabile giubilo, una macchia rossa aprirsi nel punto in cui l’ha colpita. Un minuto dopo, insanguinata e sfinita, la vittima si accascia e non si muove più. La sua rigidità galvanizza ancor di più i lapidatori che, con gli occhi stralunati e la bava alla bocca, raddoppiano la propria ferocia come se volessero resuscitarla per prolungare il suo supplizio. Nella loro isteria collettiva, persuasi d’esorcizzare i propri demoni attraverso quelli della succube (Nella demonologia, i demoni succubi sono demoni femminili che nottetempo vengono a congiungersi carnalmente con gli uomini) alcuni non si rendono conto che quel corpo crivellato non risponde più alle offese, che la donna immolata giace senza vita, semisepolta, come un sacco di orrore gettato agli avvoltoi.
In questo passo tutto è spaventoso, dalla descrizione dell’esecuzione, all’arroganza del boia, alla follia collettiva, sembra che un virus contagi la ragione di tutti i partecipanti che si trasformano in mostri. Ancora più spaventoso è rendersi conto di come questa trasfigurazione che sorprende un pacifista colto e sensibile come Mohsen potrebbe capitare a chiunque, dunque anche a noi, perché chi può sapere, di tutti gli aspetti che ci abitano, quale meccanismo imprevisto possa fare scattare l’uno o l’altro o l’altro ancora?
La vita è solo inesorabile consunzione, pensa Mussarat. Ci si può prendere cura di sé oppure lasciarsi andare, non cambia nulla. La caratteristica di ogni nascita è di essere votata alla morte, è la regola. Se il corpo potesse fare di testa sua, gli uomini vivrebbero mille anni. Ma non sempre la volontà ha modo di realizzare i propri proponimenti, e la lucidità del vecchio non saprebbe indurre le sue ginocchia a essere più salde. La tragedia principale degli uomini deriva dal fatto che nessuno può sopravvivere ai suoi voti più ferventi, che sono per di più la causa prima della sua sventura. Il mondo non è forse il fallimento dei mortali, la mostruosa dimostrazione della loro inconsistenza?
Ma si sa, la lotta contro l’assurdo non può che divenire assurda essa stessa ed è proprio su questo gioco di alterazioni del sogno offuscato da una realtà inaccettabile che alla fine si svolge la partita, una partita che non può avere conclusione, che non può ammettere dei confini temporali, è la solita lotta col destino, contro noi stessi, contro i fantasmi che abbiamo dentro e che purtroppo, a volte, si trasformano in concretezza, nella triste storia di un’umanità che pur di colpire sempre l’altro per salvaguardarsi dal dolore, dalla sofferenza, non capisce che l’altro è una manifestazione di sé e pertanto non riesce nemmeno a salvare se stessa.