Archivi del mese: gennaio 2013

Il dottor Glas. Dei diritti e dei doveri.

La vita, a me, è solo passata davanti, senza fermarsi.

il dottor glasUn libro sul diritto, sul dovere e sulla volontà, sulla dannosa ricerca della verità, ma anche un giallo con tanto di delitto perfetto. Il dottor Glas (1905) all’epoca dell’uscita fece scandalo e non è difficile da credere dati i tanti temi scabrosi, imbarazzanti, audaci che tratta, anticipando anche l’eroe maledetto novecentesco che campeggerà alcuni anni dopo. Hjalmar Söderberg (1869-1941) scrittore svedese, fu costretto ad allontanarsi dalla Svezia due anni dopo la pubblicazione dell’opera, aveva raggiunto la notorietà all’età di 26 anni con il romanzo Smarrimenti (1895) per il quale fu accusato di pornografia e nel 1906 scriverà anche una pièce teatrale, Gertrud, dalla quale il famoso regista Carl Dreyer trarrà il film omonimo nel 1964.

Assassinio, incompatibilità sessuale, aborto, eutanasia, l’inutile moralità, sono gli argomenti principali di cui parla all’interno del suo diario il dottor Glas, un giovane medico di Stoccolma che, stanco di seguire unicamente il pensiero, decide che per lui è finalmente arrivato il momento dell’azione.

Non ho mai visto un’estate così. Caldo canicolare fin da metà maggio. Tutto il giorno una densa foschia di polvere incombe immobile sopra le strade e le piazze.

All’insegna dell’afa, del caldo asfissiante che ottunde il pensiero e toglie la lucidità inizia questo viaggio in un delirio ragionato, dove ogni problema viene messo a fuoco e diventa semplicemente una causa naturale che l’usanza poi trasforma in violazione della moralità. Ciò che è semplice e genuino diventa complicato e inarrivabile a causa di leggi etiche che ne impediscono l’evolversi, azioni che potrebbero risollevare le sorti di vite miserevoli vengono negate dalla giustizia.

Diritti e Doveri.

Il pastore Gregorius è un prete viscido, che Glas trova ripugnante, tanto da desiderare di vederlo morto o addirittura di ucciderlo egli stesso. Gregorius ha sposato una donna avvenente e molto più giovane di lui, sulla quale “ha dei diritti” (anche quando si trasformano in violenza sessuale) e di contro lei “ha dei doveri” coniugali nei confronti del marito, perché così vuole l’abitudine, così detta la legge. Parlare di incompatibilità sessuale all’epoca era uno scandalo, l’ipocrisia imponeva il silenzio su argomenti scabrosi che andavano sepolti sotto quintali di sabbia. Ma di certo non è negando qualcosa che la si fa smettere di esistere e Söderberg mette in risalto la debolezza di certe convinzioni, minando addirittura le fondamenta stesse della moralità:

Caro amico, la morale, lo sai quanto me, si trova allo stato fluido. Ha subito cambiamenti rimarchevoli perfino negli istanti fugaci che noi due abbiamo trascorso sulla terra. La morale è quel famoso cerchio di gesso intorno alla gallina: limita chi ci crede. []

La morale fa parte degli utensili domestici, non è una divinità. Deve essere utilizzata, non deve dominare. E la si deve adoperare con discernimento, cum grano salis. È saggio far proprie le usanze di dove si va; è sciocco farlo con convinzione. Io sono un viaggiatore nel mondo; guardo le usanze degli uomini e scelgo ciò che mi può servire. E morale viene da mores, usanze; si basa esclusivamente sul costume, sull’uso; non ha altri fondamenti.

Hjalmar SöderbergE cos’è in effetti questa morale sbandierata ai quattro venti se non il solito frutto delle convenzioni millenarie che affliggono l’umanità? La morale cambia in continuazione e per giunta con il supporto delle leggi umane e di quelle divine. Bastano pochi esempi, come ricordare che ai tempi delle leggi razziali antisemite delle azioni profondamente immorali, almeno per uno spirito libero che rispetta se stesso e quindi anche gli altri, erano rese lecite, anzi dovute per legge appunto, e come dimenticare che negli Stati Uniti, presunta patria della democrazia e della libertà, solo negli anni ’60 si è messo un freno al proliferare di leggi che di fatto escludevano chi non era caucasico dai diritti civili, compreso il matrimonio misto. Per sciocchezze simili, di cui non si aveva colpa un’enorme fetta di umanità ha sofferto e continua a soffrire, è morta e continua a morire, beffata anche dal supporto di una cosiddetta morale becera e gretta che offende qualsiasi cervello evoluto.

Gregorius incarna dunque l’ipocrisia sociale, è la metafora di tutte quelle leggi anche non scritte che si basano su usi e consuetudini che si perdono nella notte dei tempi.

Il rispetto per la vita umana – cos’altro è sulla mia bocca se non una squallida ipocrisia, e cos’altro può essere per chi di tanto in tanto abbia trascorso un momento libero a pensare. Il mondo brulica di vite umane. E nessuno, forse con l’eccezione di qualche filantropo davvero ridicolo, ha mai dato seriamente il minimo peso a vite umane estranee, sconosciute, ignorate. Lo dimostrano i fatti. Tutti i governi e i parlamentari del mondo lo dimostrano.

Quando un’anima si mette a nudo, l’esoscheletro che mantiene in piedi di fronte alla società può anche afflosciarsi in un angolo della coscienza. Così il dottor Glas, tra le pagine del suo diario può dire esattamente ciò che pensa su qualsiasi argomento. La disquisizione principale verte sui diritti e i doveri che la società impone a prescindere dalla volontà e dall’ideologia del singolo. Ad esempio al medico capitava periodicamente di ricevere suppliche da parte di donne per interrompere una gravidanza indesiderata, ed ecco che lui era costretto a sciorinare la consueta tiritera sul rispetto della vita umana e sul dovere, per poi confessare alle pagine del diario il suo vero pensiero e la sua codardia nel rifiutare l’aiuto richiesto solo per evitare spiacevoli conseguenze. Glas si rende conto che il rispetto per la vita umana è solo una facciata ipocrita, in quanto medico sa bene ad esempio che la civiltà di un popolo si misura principalmente sul diritto alla morte, ad una morte dignitosa.

Verrà il giorno – deve venire – in cui il diritto di morire sarà riconosciuto come un diritto dell’uomo, ancora più importante e più incontestabile di quello di mettere un pezzo di carta nell’urna elettorale. E quando il tempo sarà maturo, ogni malato incurabile avrà diritto all’aiuto del medico, se desidera la liberazione.

Volontà.

A questo punto si pone l’interrogativo fondamentale e cioè si può uccidere qualcuno solo perché ci ripugna e perché fa soffrire l’essere amabile e gentile che gli vive accanto? Può la volontà mutare il destino? l’atto voluto può compiersi al di là delle leggi morali? Fino a che punto si può volere qualcosa?

Volere – già che cosa significa? La volontà di una persona non è un tutt’uno; è la sintesi di cento impulsi contrastanti. Una sintesi è una finzione. La volontà è una finzione. Ma noi abbiamo bisogno di finzioni e nessuna finzione ci è più necessaria della volontà. Perciò vuoi davvero? []Perché vuoi? Rispondi! «Io voglio agire. La vita è azione. Quando vedo qualcosa che mi indigna, voglio intervenire.»

Glas porta in sé la tipologia dell’eroe decadente in lotta contro il mondo e le convenzioni che limitano il pensiero, lontano dalle impetuose ribellioni degli eroi romantici, mantiene sempre una sorta di freddezza originata probabilmente dal profondo disprezzo verso le regole, che pure deve seguire, suggellate come un voto indelebile dal giuramento di Ippocrate.

Non devi fare domande! Non andare al fondo delle cose: perché allora tu stesso andrai a fondo. Non cercare la verità: non la troverai e perderai te stesso. Non devi fare domande! La misura di verità, che ti può servire, ti viene data in dono; è mescolata con illusione e menzogna, ma è per il tuo bene, allo stato puro ti brucerebbe le viscere. Non cercare di ripulire la tua anima dalla menzogna, sarebbe seguita da talmente tante cose cui non avevi pensato, e tu perderesti te stesso e tutto ciò che ti è caro. Non devi fare domande!

A furia di inseguire le proprie inquietudini ci si accorge di quanto tutto si trasformi in illusione. A che vale sottoscrivere delle regole se poi queste possono essere violate e rimanere impuniti? Della facciata conformista se si viola la superficie non rimane niente. Ogni azione è un atto di volontà che prescinde da diritti, doveri, moralità, giustizia. E i conti alla fine si fanno unicamente con la propria coscienza, ammesso che se ne abbia una, e per metterla a tacere potrebbe bastare smettere di interrogarsi, smettere di pensare.

Vita, io non ti capisco. Ma non dico che la colpa sia tua. Ritengo più probabile che sia io un figlio degenere, piuttosto che tu una cattiva madre.

E alla fine ha cominciato a sorgermi nella mente come un’intuizione che forse la vita non la si deve capire. Tutta questa smania di spiegare e di capire, tutta questa caccia alla verità è forse una strada sbagliata. Noi benediciamo il sole perché viviamo proprio alla distanza da esso che ci è più vantaggiosa. Qualche milione di miglia più vicino o più lontano e bruceremmo o geleremmo. E se per la verità fosse come per il Sole?

L’antico mito finnico dice: colui che vede il volto di dio deve morire. E Edipo. Lui sciolse l’enigma della Sfinge e divenne il più misero tra gli uomini.

Non risolvere enigmi! Non fare domande! Non pensare! Il pensiero è un acido che corrode. All’inizio pensi che distruggerà solo ciò che è marcio e malato e deve essere tolto. Ma non è così che la pensa il pensiero: esso distrugge alla cieca. Comincia con la preda che tu gli getti più volentieri e con più gioia, ma non credere che possa saziarlo. Non smetterà finché non avrà rosicchiato l’ultima cosa che hai cara.

Il confine tra giusto e sbagliato è effimero, la storia lo dimostra e la quotidianità ce lo insegna, del resto, dopo la soffocante afa, non rimane che aspettare l’autunno e poi l’inverno per seppellire sotto una coltre di neve l’estate delle passioni.

E presto verrà la neve. La neve si avverte nell’aria.

Sarà la benvenuta. Che venga. Che cada pure.

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Il libro della sovversione non sospetta. “La banalità non è inoffensiva: rende furiosi”.

La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte.

Uno scritto non è uno specchio. Scrivere è affrontare un volto sconosciuto.

Folle è il mare per non poter morire con una sola onda.

edmond jabesCosì inizia Il libro della sovversione non sospetta, di Edmond Jabès (1912-1991) scrittore naturalizzato francese, nato in Egitto da una famiglia ebrea di origini italiane. All’età di 12 anni un avvenimento tragico, la morte della sorella a causa della tubercolosi, rimarrà in lui come un dolore indelebile, supportato dal ricordo delle ultime parole che lei gli rivolge poco prima di morire: «On n’échappe pas à sa destinée» (non si sfugge al proprio destino). Dopo gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la scoperta di Auschwitz e l’orrore dei campi di concentramento lo sconvolgeranno in profondità. Costretto all’esilio, dopo la crisi del Canale di Suez, nel 1957 si trasferisce a Parigi e qui, inizialmente senza soldi, né nazionalità, né lavoro, imparerà l’esperienza dell’anonimato e prenderà anche coscienza del suo essere ebreo, esperienze che permetteranno al suo percorso poetico di delinearsi nettamente, cadenzato da temi ricorrenti quali, l’esilio, il deserto, l’identità, la scrittura.

Il primo a notare le sue poesie, pubblicate in una rivista letteraria franco-egiziana L’Anthologie mensuelle, fu Max Jacob nel 1931, tra i due inizierà un’intensa corrispondenza che durerà per lunghi anni, a proposito della quale rimane anche la prefazione di Jabès (Préface aux lettres de Max Jacob à Edmond Jabès) pubblicata nel 1945 l’anno successivo alla morte di Jacob.

Forse sovversivo è quel libro che denuncia, dentro la scia d’un pensiero aggredito, la sovversione della parola nei confronti della pagina e della pagina nei confronti della parola, e l’una con l’altra confonde.

In questo senso, fare un libro vuol dire offrire un sostegno alle forze sovversive che attraversano il linguaggio e il silenzio, un sostegno che segua il ritmo delle loro riprese. []

Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura. []

E se la sovversione fosse solo lo scarto tra la cosa creata e la cosa scritta?

Uno stesso abisso separerebbe, allora, l’uomo dall’uomo e il libro dal libro.

Quanti autori si sono cimentati nel tentativo di descrivere e spiegare l’atto creativo? Decodificare la parola? Giungere al suo senso primigenio? Jabès con l’ausilio della poesia, strumento potentissimo del non detto, che aleggia sopra ogni lemma, esplora il pensiero fin dalle origini e tenta di tracciare una mappa ricca di riferimenti e allusioni che toccano tutte le sfere del sapere fino ad un prima del tempo che esclude perfino Dio, un Dio che viene creato dal Libro.

Tutto dimorava nell’attesa di Dio.

Così la Creazione venne prima del Creatore.

così Dio anticipò Dio nell’Idea di Dio.

Tutto dimorava nell’attesa del Nulla e il Nulla precedette l’attesa.

Dio è per aver risposto alla domanda: Sei tu?

Se l’esistenza di Dio fosse posteriore a quella dell’uomo, nulla ci impedirebbe di pensare che il niente avrebbe avuto una voce più antica di quella del mondo, e il deserto avrebbe avuto, nella sua relazione con il vuoto, una parola, prima ancora che la luce sferzasse le tenebre.

Voce del mare soffocata. Voce della sabbia sommersa.

Ciò che importa è sempre la domanda, un succedersi di domande, è lì il lampo dell’intuizione, non nella risposta, anzi la risposta riporta indietro, oscura quel fulmine, vanifica la domanda.

L’interrogazione crea. La risposta uccide.

il libro della sovversioneLa sovversione è in atto, è atto stesso di parola e si sa, come ogni cosa contiene anche il suo contrario, anche la parola non fa che sovvertire il proprio significato. È come la sabbia del deserto che non avendo forma può assumere qualsiasi configurazione, essere e non essere al tempo stesso, ferma eppure in movimento a ricordarci che non siamo nulla di quel che la materia ci illude, né dobbiamo o possiamo fermarci in una fissità di morte, ma semplicemente scorrere, come fa la sabbia che si vorrebbe trattenere in una mano.

Si legge soltanto e sempre quel che manca alla lettura totale della parola.

Sicché ogni volta si è portati a intraprendere d’essa una lettura differente.

Jabès vuole ricostruire il Libro, per lui Libro e Scrittura coincidono. I riferimenti al Libro sacro dell’ebraismo non mancano, ma la sua è una religiosità molto personalizzata, ri-creata, poiché la scrittura va oltre tutto. La parola si colloca in un continuum che contiene vita e morte, quindi è, sempre.

L’opera non è mai compiuta. Essa ci lascia nell’incompiuto, nel cui spazio moriamo. Quel che ci rimane è solo la sua parte bianca, e non si tratta di utilizzarla, ma solo di tollerarla. Lì dobbiamo installarci.

Accettare il vuoto, il nulla, il bianco. Tutto quel che creiamo è dietro di noi.

Oggi io sono, di nuovo, in quel bianco: senza lingua, senza gesti, senza parole.

Quel che ancora è da compiere si presenta volentieri come compiuto: il deserto, dove l’impotenza ci risospinge.

La parola di Jabès è sempre intensa, carica di una potenzialità che solo il lettore può fare implodere dentro di sé. La vita si confonde con la morte, la pagina bianca contiene il maggior numero di frasi, il silenzio è la voce più eloquente, nell’assenza si coglie la presenza, in tutti questi paradossi apparenti e perfino scontati c’è la chiave di comprensione più semplice per noi, quella che abbiamo tutti e sempre davanti agli occhi, la struttura stessa del nostro essere: siamo divisi in due e una metà non può capire nulla senza l’altra. A partire dai lobi del nostro cervello, ogni cosa per la nostra mente ha un senso solo in relazione al suo opposto.

A questo punto anche l’indicibile si può dire attraverso il dicibile.

Se l’ombra è un’interrogazione alla luce, essa è anche un’interrogazione all’ombra; se la luce è una risposta all’ombra, essa è anche una risposta alla luce. Oh! Anello dentro l’anello!

Se Dio fosse l’Uno, Egli sarebbe doppio, dal momento che l’unico non è altro che l’impensato dell’Uno, il quale, non appena pensato, cessa di essere unico.

La sua opera appare frantumata, sgretolata da un passato di dolore, quasi come se volesse dire per immagini e frasi lapidarie la diaspora così tristemente nota agli ebrei. Di cammino in cammino, di frase in frase non si deve mai arrivare perché il Luogo è il non-luogo, riparo ambito del non-detto.

Il niente è il luogo eterno del nostro esilio: l’esilio dal Luogo.

Il gesto di scrivere è un gesto solitario dice il poeta, ma la stessa solitudine è una creazione di chi scrive, ogni catena che l’uomo si impone è una sua scelta precisa, altrimenti non potrebbe esistere e la solitudine è nella parola stessa che la anticipa e poi la designa. Pertanto il libro è prima intuito e soltanto dopo lo si può costruire attorno al suo vuoto.

La scrittura è una scommessa con la solitudine. Flusso e riflusso della non-quiete. Essa è pure riflesso d’una realtà riflessa, colta nella sua rinascita, una realtà della quale andiamo costruendo l’immagine, nel cuore dei nostri desideri confusi, nel cuore dei nostri dubbi.

Tutta la sua scrittura si basa su ciò che manca, sull’ombra, sulla parte invisibile che permette la concretizzazione dell’esistenza. Ma come posso permettere senza avere già un’esistenza? Si tratta di un continuo inseguirsi e oltrepassarsi, una sorta di condanna d’eternità.

Dinanzi a una rosa ci comportiamo in modo incomprensibile.

Conquistati dalla sua bellezza, con un gesto di meraviglia, le togliamo la vita.

Scrivere è rinnovare su di sé quel gesto.

Quel che muore in noi può morire soltanto insieme con noi.

Il libro è forse il quotidiano far parte di tutte queste morti.

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Ingeborg Bachmann. Malina e la disgregazione dell’Io.

malinaMalina (1971) è il romanzo che Ingeborg Bachmann (1926-1973) aveva definito come la sua biografia immaginaria, è il primo volume di una trilogia intitolata Todesarten (cause di morte), gli altri due, Il caso Franza e Requiem per Fanny Goldmann sono rimasti incompiuti e sono stati pubblicati postumi. Esiste anche una trasposizione cinematografica di Malina sceneggiata dal premio Nobel Elfriede Jelinek. Il film del 1991 è di Werner Schroeter ed ha come protagonista principale Isabelle Huppert.

La società è il più grande teatro del delitto. Con la massima leggerezza sono stati deposti in essa da sempre i germi dei più incredibili crimini, che restano ignoti per sempre ai tribunali di questo mondo.

Il libro si apre con l’elenco dei personaggi come se si trattasse di un’opera teatrale, poi viene introdotta una storia d’amore da romanzo classico, ma andando avanti ci si accorge che è impossibile far rientrare questo libro in una classificazione precisa. Bachmann utilizza infatti un numero infinito di tecniche narrative, metodi sperimentali da romanzo moderno, un incessante monologo interiore, dialoghi, fiabe, leggende, conversazioni telefoniche spezzettate, qualche rigo musicale con note al posto delle parole, espressioni musicali, notizie dei giornali, tutto un capitolo intriso di linguaggio onirico, poesia e ancora l’utilizzo di qualsiasi mezzo comunicativo, il telefono, il telegramma, un quantitativo enorme di lettere mai spedite, una bizzarra intervista, modi di dire, intromissioni di frasi in francese, in inglese, in italiano, descrizioni che sembrano riprese cinematografiche e molti silenzi eloquenti, frasi non dette che pure si intuiscono, che fanno da tramite in tutti questi mondi interiori ed esteriori e in tutti questi livelli narrativi che si separano e si intersecano di continuo.

Il romanzo si presta anche a diversi livelli di lettura. Una lettura “tradizionale” che vede tre protagonisti diversi, ognuno con una singola personalità. Ivan è un ungherese cinico e senza alcun interesse intellettuale, che lavora in un istituto di credito, Malina è uno studioso di storia di quarant’anni che lavora nel Museo dell’Esercito austriaco e infine la narratrice della quale si sa soltanto che è bionda e con gli occhi scuri poiché gli ulteriori dati sono stati scritti e cancellati così tante volte da essere divenuti illeggibili.

Io: Ah! Sono un’altra, vuoi dire, e sarò poi un’altra ancora!

Malina: No, che assurdità. Tu sei certo te stessa, questo non puoi più cambiarlo. Ma un Io subisce, un Io agisce. Però tu non agirai più.

Io: (diminuendo) Non mi è mai piaciuto agire.

Malina: Eppure hai agito. E hai permesso che agissero con te, e si servissero di te, e hai anche permesso che decidessero di te.

Una lettura in chiave “psicanalitica” dove la voce narrante è a sua volta protagonista insieme ad altri due personaggi nei quali si sdoppia, dando vita ad un trio inquietante che portando in superficie tre aspetti differenti dell’io, anziché arricchirlo, finisce con l’annullarlo. La donna che racconta non ha nome e viene indicata nel testo con Io, l’uomo che incarna la speranza e di cui è innamorata è Ivan, colui che porta alla vita, che è vita, ma che non può vincere, personalità destinata a diventare sempre più fredda e distaccata fino a svanire. La lotta più strenua sarà tra Io e Malina che alla fine risulterà la personalità dominante (come si evince anche dal titolo del libro che porta il suo nome) malgrado sembri l’artefice di un gioco di ascolto paziente, renderà però impossibile ad Io svelarsi, rivelarsi, tanto da risolvere i conflitti interiori, anzi, malgrado i suoi andirivieni in cui Io può emergere, in verità Malina creerà in lei una necessità, un bisogno di fare riaffiorare lui sempre più spesso, tanto da provocarle una sorta di dipendenza, che, unita allo stordimento indotto dai sonniferi, la separerà sempre più da se stessa e dalla realtà circostante, fino all’occultamento definitivo dentro una crepa del muro. Lì Io si seppellirà, come se non fosse mai esistita.

Il tempo del racconto non può che essere il presente dell’interiorità dove ogni cosa accade sempre, adesso.

Guardo Malina fisso, ma lui non solleva gli occhi. Mi alzo in piedi e penso, se non dice subito qualcosa, se non mi trattiene è un assassinio, e mi allontano perché non posso più dirlo. Non è poi tanto terribile, solo che i nostri scontri sono più terribili di ogni altro scontro. Ho vissuto in Ivan e muoio in Malina.

E ancora c’è un’altra chiave di lettura non meno importante, quella sulla scrittura e sul rapporto dell’autore con la sua opera per cui Malina diventa metafora della scrittura stessa e per questo forza invincibile che può annientare il suo creatore, ma non se stessa.

locandinaIl capitolo centrale è dedicato alla trascrizione di alcuni sogni ed è intriso di linguaggio simbolico. Lo scopo è quello di narrare l’origine della prevaricazione dell’uomo sulla donna. Il capitolo si intitola Il terzo uomo (che è anche il titolo di un film del 1949 diretto da Carol Reed) e l’uomo in questione è il padre, non semplicemente il padre di Io, ma il principio maschile che sta alla base del pensiero predominante con tutto il suo retaggio di violenza e ingordigia devastatrice che divora i suoi stessi figli. Una delle immagini più importanti all’interno del capitolo è infatti il cimitero delle figlie assassinate e nella storia questo assassinio si perpetua attraverso gli incesti, gli stupri, i divieti, le privazioni delle libertà essenziali, l’annullamento dell’individualità pensante e con ogni tipo di violenza possibile.

Ogni morte è un omicidio. E noi mortali lo sappiamo bene, visto che siamo le vittime sacrificali di un ciclo inevitabile che ci condanna a morte nell’esatto momento in cui nasciamo.

Io: Non è mio padre. È il mio assassino.

Malina non risponde.

Io: È il mio assassino.

Malina: Sì, lo so.

Io non rispondo.

Malina: Perché hai detto sempre: mio padre?

Io: L’ho detto davvero? Come ho potuto dirlo? Non volevo dirlo, ma si può solo raccontare ciò che si vede, e ti ho raccontato esattamente quello che mi è stato mostrato. Ho voluto anche dirgli ciò che ho capito da un pezzo – e cioè che qui non si muore, qui si viene assassinati. Quindi capisco anche perché è potuto entrare nella mia vita. Uno doveva farlo. È stato lui.

Malina: Dunque non dirai mai più: guerra e pace.

Io: Mai più.

C’è sempre guerra.

Qui c’è sempre violenza.

Qui c’è sempre lotta.

È la guerra eterna.

Come scrive Rita Svandrlik in Ingeborg Bachmann: i sentieri della scrittura (2001, Carocci): Il padre è depositario del potere istituzionale e soprattutto culturale [] Egli usa il potere, la violenza e la crudeltà fisica sempre al fine di provocare la sofferenza della figlia, ma anche delle altre donne[] Il motivo del cimitero ritorna in tre sogni diversi, che rappresentano da differenti punti di vista la dipendenza totale delle figlie dal padre, quindi del femminile dal maschile. Simbolo di questo mortale legame è l’anello, che il padre dà prima ad Io, poi alla sorella Eleonore e quindi all’amante Melanie. Così nel sogno in cui le figlie assassinate sorgono dalle loro tombe mostrando una mano senza il dito anulare, il padre le uccide una seconda volta, ordinando alle acque del lago di sommergere il cimitero. Egli usa tutte le donne della famiglia, ne abusa sessualmente e le rende oggetti interscambiabili, grazie alla loro passività e arrendevolezza, alla loro complicità e disponibilità al compromesso.

Le donne fin dall’antichità sono state usate come bottino di guerra o merce di scambio tra uomini estranei, ma anche da parte di padri o mariti, eppure una porzione dell’universo femminile finisce con l’essere compiacente nel mantenere attive certe consuetudini, vuoi per paura, vuoi per costrizione, vuoi per ignoranza, rimane il fatto che finché le donne non capiranno che l’unico modo per salvarsi viene da se stesse e non certo dai vari principi azzurri dei quali è costellato l’immaginario collettivo, mai riusciranno a sconfiggere il “padre violento” che le domina.

Non ci sono croci, ma sopra ogni tomba si formano cumuli densi e neri. Le tombe, le targhe con le epigrafi si riconoscono appena. Mio padre mi è accanto e ritrae la mano dalla mia spalla perché il becchino ci si è avvicinato. Mio padre guarda imperioso il vecchio, il becchino si volta impaurito dopo quello sguardo di mio padre, dalla mia parte. Vuole parlare, ma muove a lungo solo le labbra, muto, e sento appena la sua ultima frase:

Questo è il cimitero delle figlie assassinate.

ingeborg bachmannL’abitazione di Io è il luogo di fuga, ma anche la prigione e la tomba nella quale rinchiudersi. Il mondo circostante è intollerabile, ha tradito gli ideali di libertà e civiltà, l’esempio dei nazisti ha costruito un passato che non può essere confinato nel ricordo, ma che rimarrà sempre presente, la scrittura dunque rimane l’unica speranza perché la lingua ingannata e profanata può sempre essere reinventata. La storia recente è presente nel romanzo, anche Vienna ne porta le tracce e la stessa Bachmann ne è segnata, tanto che nelle sue note biografiche dirà che la sua infanzia è stata distrutta dall’ingresso delle truppe di Hitler a Klagenfurt e con questa realtà dolorosa e brutale dovrà convivere per tutta la vita, perché la guerra non smette mai. Lo scrittore può e deve farsi carico della sofferenza del mondo, è l’unico in grado di annullare i confini tra ciò che può essere detto e ciò che non si può dire, l’opera d’arte porta la parola laddove può regnare solo il silenzio.

Il maschile e il femminile si incontrano in Io-Malina, quando Io si sente insicura, ecco che compare subito un protettivo Malina, così come nei momenti di difficoltà di Io rispetto alla scrittura e alla parola in genere, un settore dal quale le donne sono state escluse per tanto, tantissimo tempo, l’intervento di Malina, della cultura istituzionale, mette a posto le cose, il caos che lascia dietro di sé l’inquietudine di Io viene coscienziosamente ordinato dal pragmatico Malina.

Nelle lettere che scrive Io si firma con una sconosciuta, e di certo lo è, a se stessa, precipitata com’è in quella confusione interiore che annebbia la sua individualità, ma anche agli altri in quanto donna e dunque costretta all’oblio rispetto alla documentazione ufficiale, destinata a sparire nella crepa di un muro per lasciare posto al suo lato maschile o uccisa dal padre o passata per il camino insieme a milioni di ebrei, tutto per il principio dominante, la logica imperiosa ed imperante della forza dittatoriale di un mondo che ha stabilito confini territoriali per i paesi e ruoli imprescindibili per le persone, sempre con l’avallo della parola divina.

A volte cammino per una strada, e appena vedo qualcuno che mi è superiore, non posso fare a meno di seguirlo, ma è naturale o normale questo? Sono una donna o qualcosa di dimorfo? Non sono del tutto una donna, e allora che cosa sono? Nei giornali ci sono spesso notizie atroci. A Pötzleinsdorf, nelle golene vicino al Prater, nel Wienerwald, in ogni periferia una donna è stata assassinata, strangolata – anche a me è quasi successo, ma non in periferia -, strozzata da un individuo brutale, e allora penso sempre: potresti essere tu, sarai tu. Sconosciuta assassinata da mano ignota.

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William Hazlitt. Sull’ignoranza delle persone colte e altri saggi.

William HazlittWilliam Hazlitt (Kent 1778 – Londra 1830) fu un saggista molto particolare, inviso a tanti per il suo vizio di dire tutto quello che pensava e disposto perfino ad esporsi al ridicolo pur di mantenere la propria linea di pensiero. Di lui Virginia Woolf nella seconda serie de Il lettore comune, così scriveva: In virtù del suo principio “è difficile odiare chi si conosce bene”, se avessimo conosciuto Hazlitt, lo avremmo di sicuro trovato simpatico. Ma Hazlitt è ormai morto da cent’anni, e dobbiamo forse chiederci se lo conosciamo abbastanza da superare il senso di violenta antipatia, vuoi personale vuoi intellettuale, che i suoi scritti ancora suscitano. Hazlitt – ed è uno dei suoi meriti principali – non era uno di quegli scrittori che evitando di pronunciarsi svaniscono nella nebbia e muoiono d’insulsaggine. Nei suoi saggi lui è presente, sempre e con enfasi. Senza remore e senza vergogna. Dice esattamente ciò che pensa e dice esattamente – confidenza meno lusinghiera – quel che prova. Aveva una straordinaria consapevolezza della propria esistenza; e siccome non passava giorno che non gli infliggesse uno spasmo d’odio o di gelosia, un fremito d’ira o di piacere, nel leggerlo entriamo presto in contatto con un carattere singolarissimo – bisbetico e insieme magnanimo; gretto e tuttavia nobile, assolutamente egoista eppure ispirato da genuina passione per i diritti e le libertà del genere umano.

Sull’ignoranza delle persone colte è una raccolta di sette saggi, tratti da Table-Talk (1821-1822) tutti molto piacevoli da leggere, attuali e anche interessanti come si può evincere già dai titoli, oltre a quello che dà nome al libro gli altri sono: Sul pensiero e l’azione, Sul fare testamento, Sull’effeminatezza del carattere, Sulle istituzioni, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, Sulla paura della morte.

Ognuno di essi presenta un sunto della tipologia umana che intende attaccare, ne viene fuori un ritratto spietato e ricco di sarcasmo di un’umanità il più delle volte gretta e inutilmente vanitosa che non accettando i propri limiti come parte essenziale di sé, scade sempre nel ridicolo.

Il lato ridicolo del carattere umano in poche occasioni appare più vivo che nell’atto di fare testamento. È l’ultima possibilità che abbiamo di esercitare la naturale perversità del nostro carattere, e stiamo molto attenti a farne buon uso. La custodiamo gelosamente, la rimandiamo il più a lungo possibile, e poi prendiamo ogni precauzione perché il mondo non abbia a trar vantaggio dalla nostra morte. Quest’ultima azione della nostra vita raramente ne smentisce il tenore precedente per quanto riguarda la stupidità, il capriccio e l’insensata voglia di far dispetti. Sembra che il nostro pensiero dominante sia di sistemare le cose (facendo i conti con quelli che sono tanto maleducati da sopravviverci) in modo da fare il minor bene possibile, e di affliggere e deludere più gente che si può.

Sul fare testamento è lo spaccato più esilarante di quest’umanità che si dibatte contro l’inevitabile, ovvero il fatto di essere mortale e l’attaccamento ai beni materiali supera l’intelligenza in molte occasioni. Hazlitt non lesina esempi, tratti non dalla sua immaginazione, ma da documenti reali, per quanto si tratti di comportamenti a dir poco bizzarri, dispettosi e infantili, che potremmo collocare più facilmente in una fiaba piuttosto che in un testamento redatto veramente. Può capitare perciò di ereditare una ricetta per la conservazione dei bruchi morti o una collezione di cavallette dell’anno precedente e perfino uno scarabeo cornuto.

L’istruzione è la conoscenza di ciò che gli altri in genere non sanno, e che non possiamo apprendere che di seconda mano per mezzo dei libri, o di altre sorgenti artificiali. La conoscenza di ciò che è davanti o intorno a noi, che fa appello alla nostra esperienza, alle nostri passioni o ai nostri progetti, al cuore e agli affari degli uomini, non è istruzione. L’istruzione è la conoscenza di quello che solo le persone istruite conoscono. Il più istruito di tutti è colui che conosce meglio tutto ciò che vi è di più lontano dalla vita quotidiana, dall’osservazione immediata, che non è di alcuna utilità pratica, che non può essere provato dall’esperienza e che, dopo esser passato attraverso un gran numero di stadi intermedi, resta ancora pieno di incertezza, di difficoltà e di contraddizioni. È vedere e ascoltare con occhi e orecchie altrui, è credere ciecamente al giudizio degli altri. La persona istruita è fiera della sua conoscenza di nomi e di date, non di quella di uomini e cose. Non pensa e non s’interessa ai suoi vicini di casa, ma è al corrente degli usi e costumi delle tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi.

hazlittSull’ignoranza delle persone colte è l’unico dei sette che fu pubblicato prima di venire inserito nella raccolta Table-Talk, precisamente nel luglio 1818 sulla rivista The Edimburgh Magazine. Fin dall’inizio Hazlitt se la prende con un certo modo di istruire e di concepire la cultura, infatti secondo lui a passare troppo tempo sui libri si finisce con il perdere il senso della realtà che ci circonda, fino a divenire, da colti che ci si credeva a perfetti ignoranti, almeno a proposito degli aspetti pratici della vita, senza i quali tutto diviene falsato e mutilo. Puntare il dito addosso al modo di fare cultura ufficiale dell’epoca, di certo non gli avrà procurato grandi simpatie, andare contro lo sterile studio mnemonico che permette di incamerare dati senz’anima e dunque senza una vera comprensione è una critica che andava a colpire inevitabilmente anche i suoi amici letterati.

Pian piano si fa strada l’idea di base del saggio che è quella di mostrare come la cultura sia portatrice di finzione. Laddove si insinua un pensiero che diventa norma e che non ha a che fare con l’aspetto pratico, allora inevitabilmente ecco affacciarsi l’impostura.

Ecco come viene usato il sapere umano. Sembra che i lavoratori di questa vigna abbiano lo scopo di confondere il senso comune e le distinzioni fra il male e il bene per mezzo di massime tradizionali e di nozioni preconcette che diventano sempre più assurde col passare del tempo. Fanno ipotesi su ipotesi, ci innalzano montagne, finché non è più possibile giungere alla più semplice verità su alcunché. Vedono le cose non come sono, ma come le trovano nei libri, e “chiudono gli occhi e cancellano i dubbi” per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. Si direbbe che la forma più alta della saggezza umana consista nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato. Non c’è dogma, per quanto feroce o sciocco che sia, a cui questa gente non abbia apposto il suo sigillo, tentando di imporlo alla comprensione dei suoi seguaci come fosse la volontà del Cielo, rivestita di tutto il terrore e delle sanzioni della religione. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero!quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie! Quanto tempo, e quanto talento sono stati perduti in controversie teologiche, in processi, in politica, in critiche verbali, in astrologia giudiziaria e nella ricerca della pietra filosofale!

Quest’ampiezza di vedute porta lo scrittore su terreni decisamente pericolosi che vanno a minare le roccaforti dell’inattaccabile pensiero occidentale. Nella sua animata critica contro il sapere Hazlitt rivela tutta la pericolosità di una fiducia cieca nella parola, va indietro nel tempo fino a riconoscere che tutta l’impostazione sociale è basata sulla menzogna.

Se una cosa è vera solo perché qualcuno l’ha scritta ecco che il gioco dei potenti si fa ancora più facile, perché tutto diventa possibile, come smerciare gli scritti di uomini per parola divina in modo da porre sotto sigillo insindacabile le leggi più inique, oppure imporre un punto di vista apparentemente democratico, ma in realtà asservito al potere dominante e così via.

E ancora si rimane letteralmente sbigottiti nel leggere il saggio, Sulle istituzioni, poiché a dispetto degli anni trascorsi e della diversità del luogo, il quadro della classe politica che dipinge Hazlitt è tristemente simile al disdicevole spettacolo che siamo costretti a sopportare quotidianamente qui in casa nostra:

Le istituzioni sono più corrotte e più guaste degli individui, perché hanno più potere per fare del male, e sono meno esposte al disonore e alla punizione. Non provano né vergogna, né rimorso, né gratitudine, e neanche benevolenza. La coscienza individuale o naturale del singolo componente viene soffocata (non possiamo avere un principio morale nel cuore degli altri), e non si pensa ad altro che a dirigere meglio lo sforzo comune (liberato da scrupoli inutili) per ottenere vantaggi politici e privilegi, da spartirsi poi come bottino. Ciascun membro raccoglie il profitto, e rovescia la colpa sugli altri.

Quante volte abbiamo sentito la frase: “lo abbiamo ereditato dal governo precedente”?

Ma ecco un altro passo che ci riporta ai festini del cavaliere poco errante e molto stanziale (come tutti i colonizzatori di poltrone parlamentari del resto) che pur criticandosi l’un l’altro, tuttavia partecipano volentieri ai numerosi momenti di svago che annullano i confini imposti dai vari partiti ai quali appartengono:

«La società gli deve veramente molto per quest’ultimo affare»; cioè, per qualche squallido inghippo, qualche manovra sottobanco per usurpare i diritti del prossimo, o per calpestarne le ragioni. Nel frattempo mangiano, bevono e gozzovigliano insieme. Affogano nei boccali da una pinta tutte le piccole animosità e le inevitabili differenze d’opinione. Le lagnanze della moltitudine si perdono tra il rumore delle stoviglie…

Il filo conduttore di tutti questi saggi termina nella persona stessa di William Hazlitt, un uomo definito antipatico, per niente geniale, addirittura scontato, un uomo costretto a subire continui attacchi dall’esterno, vuoi per una certa selvatichezza caratteriale, ma anche per tutto quello che si percepisce in questi suoi scritti, soprattutto in quello più autobiografico, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, ovvero la costrizione dell’isolamento, perché sempre incompreso, perché troppo avanti e quindi invidiato e per l’insopportabile ostentazione di avere delle idee e dirle apertamente, senza fronzoli o paraventi. Un destino comune a molti pensatori.

Il principale svantaggio di sapere di più, e di vedere più lontano degli altri, in genere è di non essere compresi. Chi è intellettualmente dotato tende a esprimersi per paradossi, e questo lo colloca subito fuori la portata del lettore comune. [] La grande felicità della vita è di non essere né migliore né peggiore della media di quelli che incontri. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra degli altri trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che t’interessa di più. A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?

 

 

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